FATTI COME PESCI

Lamberto Tassinari

Photo: Patricia Vergeylen
Photo: Patricia Vergeylen

Da bambino invece, quando aveva cominciato a pescare, P. era stato felice. Già da un anno usciva solo. Prima la strada verso l’asilo poi la scuola, andata e ritorno senza variazioni, senza diversioni. Un lungo cammino attraverso il paese. La prima volta lasciò la casa come un animale neonato che va intorno per scoprire, senza altro scopo che vedere il mondo. Così si era trovato sulla piazza e aveva subito guardato in alto alla finestra da dove la madre seguiva i suoi passi. Aveva camminato fino al primo arco delle mura e l’aveva traversato per arrivare dall’altra parte sul lungomare. Intanto lei si era spostata di là sul balcone e l’aveva visto sbucare dall’arco davanti al mare. Da allora era uscito tante volte finché fu pronto per camminare all’asilo. Poi c’era stata la scuola. Verso la primavera del primo anno cominciò a pescare in quella baia gonfia di mare, piena di barche a colori, di odori, lucida e lenta. Ogni giorno, dopo pranzo, una pallina di pane e formaggio manipolata meccanicamente per qualche ora di studio e prima di partire, la lenza avvolta su un sughero dentro un secchiello di latta. Il mare sotto la banchina è una stretta fascia d’acqua chiara verdastra che diventa turchina e impenetrabile già a pochi metri dalla pietra. Di là da quel limite soffuso, dal nulla del fondo, salivano bande di pesci, a volte code, teste o dorsi di grandi solitari. In quel mondo d’acqua, che era almeno la metà del suo mondo, le cose, le immagini e i pensieri si manifestavano sottoforma di pesci che estratti dal fondo del tempo venivano a morire al presente della banchina assolata.

Come pesci

Gli occhi tondi fissi lo stupivano, che restavano aperti come oblò oltre l’agonia senza esprimere niente, né sorpresa, né dolore, né rabbia. Così cominciò a ucciderli, non senza coscienza. A volte li ributtava, i più piccoli, non per pietà ma per contraddire la sorte segnata, per affermare la propria potenza: tu credi di morire, sei finito, qui a scodinzolare sotto il sole, incapace di respirare sei fritto. E così gli salvava la morte. E allora sì, il pesce esprimeva qualcosa toccando l’acqua : immobile, incredulo per un secondo in una nuvoletta di granelli di polvere, capiva di vivere, godeva. A altri pesci invece, i brutti e strani, quelli che osavano passare dall’acqua all’aria come se niente fosse, che dopo ore si dibattevano ancora nel secchiello, che significavano ostinazione, durezza, ottusità, anche cattiveria e somigliavano a cose e persone brutte dell’altra vita, a questi P. non perdonava. Pensava come non possano vivere fuori dall’acqua, come siano pesci fuor d’acqua, incapaci di respirare dove lui respirava e viceversa che lui non poteva dove potevano loro. Pensava: li costringo a uscire, a cambiare mondo così in fretta e inaspettatamente che non riescono a adattarsi, proprio non possono con tutta la buona volontà, sono obbligati a morire.

Spesso come un pesce P. sognava di filare lungo la banchina, di buttarsi verso il fondo del golfo, di scoprire cose nascoste, perdute. A volte sognava e immaginava che il golfo si svuotasse, una grande buca brulicante dei loro corpi lucidi e lui solo che scendeva a corsa fra le cose ritrovate. Poi un giorno, forse l’estate dopo, senza pensare senza sapere, su una spiaggia di ghiaia bianca camminò dentro il mare e avanzò quasi avesse imparato a respirare sott’acqua finché il mare gli fu sopra la testa tanto che vedeva i raggi del sole brillare alla superficie. Gli sembrava di respirare e invece beveva, con calma, senza panico, come un pesce fuor d’acqua finché qualcuno lo tirò a riva. Negli anni che seguirono, spessissimo P. tornò col pensiero a quella spiaggia e rivide quel sole. Quando qualcuno va così vicino alla morte, la gente dice che l’ha scampata bella, che non era venuto il momento, così anche P. si era chiesto se davvero allora non era stato il momento e se lo avrebbe riconosciuto quando fosse venuto . Tutto quello che aveva fatto e detto da quel momento l’aveva fatto e detto come a tempo perso, mentre aspettava. La vita è così e, in ogni caso, estremamente breve : a rigore nemmeno si può dire breve, a rigore indefinibile, indicibile. In pochi anni, da quell’incontro di cellule, una cosa esiste, emerge come dalla materia, parte del tutto, il tutto. E opera, fa, comincia a lanciare messaggi, segni nelle forme e modi che il tempo le concede. Non si insiste abbastanza sull’unità del mondo, sull’unione di tutto con tutto, l’interdipendenza e la solidarietà : certamente la solidarietà. E’ impensabile che tutto questo « non si tenga », non sia coerente e che tutto davvero scompaia ­– come se non fosse reale, davvero esistente – senza quasi lasciare orma. La gente dimentica, non si attacca all’idea dell’essere, non la fa veramente sua. Non ci crede. Tempo : modernità come il getto di una fontana, il lancio di una palla, un vettore che arriva fin dove arriva. Il presente. Come novità, diversità, in una parola, modernità. Moderno è credere meglio ciò che è venuto e continua a venire dopo, che ha un’altra forma. E poi l’accelerazione si spenge, finché l’acqua non ricade, la palla non ridiscende. La « modernità » è stata questo slancio : l’economia ne è stato il vettore che ha avuto come protagonista il capitalismo e come soggetto agito l’individuo di massa. Prima però sono state le idee, le immagini a fare l’esperienza, a descrivere la parabola della modernità. Quando le masse non si erano manco affacciate alla trionfale dirittura che avrebbero corso per più di un secolo, già le punte avanzate del pensiero (quelle che sono state dette avanguardie) cominciavano a ripiegarsi su se stesse.

(Penultima pagina di un romanzo incompiuto)