L’IDENTITÀ DI SHAKESPEARE, JOHN FLORIO E L’ITALIA.

 Lamberto Tassinari

Shakespeare: il genio universale, il monstrum, il grandissimo, l’infinito Shakespeare. Io credo di avere, anzi sono convinto di aver dimostrato che questo miracoloso fenomeno apparso nelle campagne inglesi nella seconda metà del Cinquecento non ha niente di miracoloso. Nella mia prospettiva da non confondersi con la storiella folkloristica del Crollalanza siciliano con cui la RAI e qualche editore hanno voluto divertire, distrarre il pubblico, Shakespeare resta lo stesso immenso autore ma non è più il meteorite caduto dai cieli, è un fenomeno che in tutto si spiega storicamente: la sua sapienza linguistica, la sua cultura vasta, enciclopedica, la sua profonda dimestichezza con le lingue, l’Italia, la bibbia, la musica, l’aristocrazia si comprendono, acquistano senso nella storia dell’Europa e credibilità esistenziale. Non si tratta di Edward de Vere, il conte di Oxford (quello del film Anonymous) morto nel 1604 e improbabilissimo Bardo, né del giovane Marlowe assassinato nel 1593, né del rigido filosofo Francis Bacon, si tratta di un “colletto blu” e in più di uno straniero, un traduttore-erudito- cortigiano vagamente ebreo che nessun universitario poteva permettersi di considerare come Shakespeare. Degli oltre 70 drammi legati al nome Shakespeare tra i canonici, quelli scritti in collaborazione, gli apocrifi e gli ur- plays, io credo che i più grandi, all’incirca quelli che furono raccolti nel First Folio del 1623 (la raccolta di 36 opere di teatro attribuite dai curatori a Shakespeare), siano stati scritti da Giovanni o John Florio, alcuni con il contributo del padre ex- francescano poi predicatore protestante, erudito umanista.

John Florio è il grande traduttore di Montaigne e di Boccaccio, il segretario personale per quasi sedici anni della regina Anne moglie di Giacomo primo, è il pedante spaccone “al di sotto” di ogni sospetto che possedeva una biblioteca di centinaia di libri. In questa straordinaria, “shakespeariana” biblioteca di cui parlo in dettaglio nel mio libro, c’è la lista di quello che Florio ha letto per il suo dizionario, tra l’altro: tutto Aretino, Machiavelli e tutto il teatro italiano del Cinquecento.

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John Florio

Tra la fine dell’Ottocento e i primi trent’anni del Novecento la quasi totalità degli studiosi anglosassoni che si sono occupati di Shakespeare hanno trattato ampiamente di John Florio, “the Italian scholar” che non poteva non essere intimo amico di Shakespeare. Chi altro avrebbe potuto dare al Bardo tutte quelle informazioni e nozioni dettagliate su libri non tradotti in inglese, sulla cultura e le scienze, sull’Italia, sulla lingua italiana, la francese e la spagnola se non Giovanni Florio? Nell’edizione della Encyclopedia Britannica del 1902, ad esempio, si legge questo:

Vi sono fondate ragioni per credere che Shakespeare fosse tra gli amici di Florio (…) Disponiamo di numerosi elementi che costituiscono la prova indiretta che Shakespeare aveva familiarità con i manuali di Florio [“First Fruits” e “Second Fruits”] (…) Questo [“First Fruits”] è il libro che sembra naturale che Shakespeare avrebbe utilizzato per imparare la lingua italiana al momento del suo arrivo a Londra. (…) Shakespeare avrebbe così avuto modo di fare la conoscenza di Florio agli inizi della sua carriera londinese e tutto lascia supporre che non abbia perso l’occasione di contare tra i suoi amici intimi un accademico di quel calibro e un così attivo, solerte e originale uomo di lettere come the resolute John Florio.

Nel 1902 questo si pensava ufficialmente in Inghilterra di John Florio e del suo necessario rapporto con Shakespeare. Florio era unanimemente considerato una figura fondamentale per la comprensione del “fenomeno Shakespeare”.

 

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L’attenzione su di lui giunge al massimo prima, nel 1921, con la pubblicazione (solo in francese però) della biografia di Clara Longworth Chambrun la quale definisce Florio “Apostolo del Rinascimento in Inghilterra all’epoca di Shakespeare”, poi nel 1934 con il fondamentale libro di Frances Amelia Yates “John Florio. The life of an Italian in Shakespeare’s England.” In quest’opera che porta finalmente Florio all’attenzione di un più largo pubblico colto e anglosassone, la Yates affronta timidamente in due paginette, alla fine del libro, la questione del rapporto di Florio e Shakespeare, promettendo di occuparsene in un libro a venire. Yates non scriverà mai il libro annunciato nel 1934. Intimidita, come lei stessa lascia intendere, dalla severa disapprovazione dell’establishment accademico e politico dell’epoca per essersi occupata di uno sgradito contemporaneo del Bardo, l’allora giovane studiosa passerà con successo ad occuparsi di Giordano Bruno. Così, la biografia che sembrava destinata ad aprire una ricchissima stagione di ricerche universitarie su John Florio, ha paradossalmente messo fine per circa ottant’anni a ogni seria e approfondita ricerca sul grande scrittore e traduttore d’origine italiana. Questa scomparsa dall’orizzonte accademico è sospetta, da sola quasi una prova che John Florio è Shakespeare!

La ripresa del 2005

Dopo una serie di più o meno insignificanti articoli sul lessicografo e traduttore in cui mai si affronta il tema dei rapporti con Shakespeare, è soltanto nel 2005 che gli accademici riprendono ad occuparsi di Florio la cui figura, ruolo e importanza nella cultura dell’epoca riprendono a crescere. Tuttavia anche in questa ripresa di interesse per Florio il rapporto con Shakespeare resta nell’ombra. Nel 2008 è stata la volta del mio sito web e poi del mio libro in italiano, della traduzione inglese nel 2009 e ora, nel 2013, in versione ampliata e rivista anche come eBook. Peraltro, ormai l’interesse per Florio sembra essere irreversibile, destinato a durare e a crescere. Nessun serio e onesto studioso di Shakespeare può a questo punto “evitare” Florio come dimostra la cronaca accademica di questi anni recenti. Dopo i saggi di Manfred Pfister e Micheal Wyatt del 2005, secondo cui Florio non era un banale pedante ma un coltissimo e finissimo umanista, l’estate del 2013 un accademico britannico, Saul Frampton, ha pubblicato due lunghissimi articoli nel The Guardian* di Londra in cui sostiene, mai visto né sentito in 400 anni, che Florio ha fatto da editor, ha riscritto le opere di Shakespeare! L’autore ha anche annunciato un suo libro su Shakespeare e Florio. In realtà, Frampton non ha il coraggio di dirlo, Florio non ha fatto che rivedere il suo proprio teatro!

Evidentemente John Florio è lo Shakespeare ideale, è il Bardo che viene così naturalmente dall’Europa e non dalle campagne londinesi della fine del Cinquecento dominate dal dialetto. La rivoluzione shakespeariana della lingua e del teatro è un’opera che viene da fuori, risultato di una saldatura transculturale che solo un mediatore con le doti di Florio poteva compiere. Questo go- betweener ha tutto per essere Shakespeare, una volta tanto ideale e reale coincidono! Secondo il parere della critica internazionale c’è tanto Giordano Bruno in Shakespeare e Florio ha passato più di due anni con Bruno all’ambasciata francese di Londra; c’è tantissimo Montaigne in Shakespeare e Florio a tradotto in inglese i suoi Saggi; c’è anche molto Tasso, Aretino, Ariosto, Berni, Boiardo, Machiavelli, Lasca, Guarini, Bembo, Guazzo, Cinzio, Bandello, etc. e Florio aveva tutti i loro libri nella sua biblioteca personale e li insegnava alla gioventù dorata, ai rampolli dell’aristocrazia inglese; c’è tanto Boccaccio in Shakespeare e Florio è l’autore della prima traduzione integrale del Decamerone in inglese; c’è tanta Bibbia in Shakespeare e Florio ha studiato teologia all’università di Tubinga. Senza contare che il padre, figlio di ebrei convertiti, era stato francescano e poi pastore protestante; c’è tanta musica in Shakespeare e Florio ha introdotto i masques a Corte assistendo la sua regina e il suo re nella scelta dei musicisti; c’è tanto sentimento aristocratico in Shakespeare e Florio è stato il precettore del conte di Southampton prima e poi l’amico che ha goduto della protezione del giovane nobile, senza contare che ha fatto da segretario personale alla regina per sedici anni e ha tradotto in italiano un’operetta scritta da Giacomo I; ci sono tanti libri in Shakespeare e Florio ha lasciato nel suo testamento a William Herbert terzo conte di Pembroke 340 libri italiani, francesi e spagnoli più una quantità imprecisata di libri inglesi andati alla moglie, centinaia certamente e tutti oggi perduti!; ci sono tante PAROLE in Shakespeare , vecchie e appena coniate e Florio era un linguista, un mago del verbo, un poliglotta fanatico del linguaggio: il suo World of Words contiene 74000 parole italiane e circa 150000 inglesi. Florio ha inventato più di mille parole nella lingua di…Shake-speare! ; c’è una sorprendente introspezione ebraica nel Mercante di Venezia e Florio è figlio di un padre i cui genitori erano ebrei convertiti; infine, last but not least c’è tantissima Italia in Shakespeare a tutti i livelli: stilistico, linguistico, geografico, topografico, emotivo. E Florio è italiano, ha vissuto 17 anni nei Grigioni a due passi da Milano, Padova, Venezia … Questo in sintesi estrema è John Florio: nessun altro in Inghilterra possedeva a un così alto livello questi doni shakespeariani!

John Florio e l’Italia

E in Italia che si è detto e scritto di Florio?
Dagli inizi della mia ricerca mi sono chiesto perché in Italia ci sia tanta diffidenza, indifferenza, sufficienza, quasi disprezzo per la Shakespeare Authorship Question, ossia per il problema della paternità delle opere di Shakespeare. Che non sia una questione campata in aria appare evidente. Per un’opera teatrale e poetica che è una delle massime se non la massima della modernità l’autore, evidentemente, latita. E non è normale, non è logico, non è giusto. Manca di vita, di carne, di psiche. Manca la persona di Shakespeare e mancano i documenti anche personali, gli scritti, le lettere, insomma l’espressione diretta e necessaria della personalità di uno scrittore, al contrario di quello che succede ad esempio con Machiavelli, Ariosto, Tasso o Chaucer, Bacon, Ben Jonson. Manca di credibilità. La questione Shakespeariana esiste, è una realtà storica e non il risultato di una cospirazione plurigenerazionale che durerebbe almeno dalla metà dell’Ottocento se non dall’epoca stessa di Shakespeare! È ragionevole dubitare della versione ufficiale. Un fatto che io trovo particolarmente sorprendente è il poco o nessun valore che gli specialisti (e dunque l’opinione pubblica che contribuiscono a formare) attribuiscono ai giudizi sull’identità di Shakespeare espressi da un numero elevato di grandi scrittori e scienziati moderni. Mi riferisco evidentemente a autori come Henry James, Sigmund Freud, Charles Dickens, Walt Whitman, Mark Twain, Charlie Chaplin, Orson Welles e altri per cui il nome William Shakespeare (o Shake-speare) sulle copertine di alcune singole opere teatrali pubblicate all’epoca, non è sufficiente a identificare l’autore e che a «shake the Lance» ossia la penna, è stato qualcun altro. Autori questi, tutti degni di fede, reputatissimi, addirittura adorati, letti da moltitudini e insegnati nelle scuole ma che per questa loro posizione su Shakespeare invece vengono snobbati come si trattasse di cervelli balzani.

Ma torniamo al rifiuto di Florio da parte italiana. La prima ipotesi, per quanto riguarda il presente, è che la candidatura Florio sia stata inflazionata, bruciata in anni non lontani dal libretto di un professore di scuola media di Ragusa che ha rilanciato un suo Florio Crollalanza (Shakespeare era italiano, 80 pp. Ispica, 2002). La sua tesi folkloristica e l’approccio dilettantesco hanno avuto grande risalto nei media e non solo in Italia, anche il Times di Londra ne ha scritto. Questo non deve sorprendere perché più una tesi sulla questione shakespeariana, ad esempio, è fasulla e destituita di fondamento, dunque divertente, più i media hanno tendenza a accoglierla. La cultura italiana è perfettamente a suo agio con lo Shakespeare dominante, britannico e la semplice idea di sovvertire quest’ordine con un nome italiano la disturba. Gli accademici italiani si sono ben guardati dal sostenere qualsiasi storia sulle origini italiane di Shakespeare temendo che una simile tesi li avrebbe resi ridicoli agli occhi dei colleghi delle prestigiose università inglesi e americane che, tra l’altro, tengono i cordoni delle borse di studio e dei congressi internazionali. Così i nostri universitari, non solo hanno respinto sdegnosamente, con zelo superiore a quello dei britannici, le eventuali candidature italiche al ruolo di Bardo, ma sono arrivati a minimizzare anche l’influenza della cultura e della lingua italiane su Shakespeare e a snobbare totalmente John Florio eliminandolo dall’orizzonte dei loro studi.

Dopo il saggio informativo ma riduttivo di Vincenzo Spampanato nel 1924, è stato Mario Praz a massacrare, dieci anni più tardi, John Florio con una critica che sembra piuttosto una di quelle stroncature propinate a contemporanei avversari allo scopo di produrre loro il massimo danno possibile. In effetti è difficile da capire l’aggressività di Praz – insegnante di italiano in varie università inglesi dal 1923 al 1934 – nei confronti di chi, come Florio, l’aveva preceduto in Inghilterra guadagnandosi grande fama. Che non sia questa la chiave di lettura per interpretare tanto astio? Quale che sia la causa profonda, vediamo alcuni passaggi dell’incredibile stroncatura praziana, tratti da articoli poi raccolti nel volume Machiavelli in Inghilterra del 1962.

Personaggio importante, dunque il Florio, se non proprio simpatico. Poiché del cortigiano e del letterato cinquecentesco egli sembra possedere molte delle meno amabili caratteristiche, trafficone, sicofante, piaggiatore, pedante, acrimonioso (…) come tanti poligrafi dell’ età sua (…) è un mediocre che deve la sua fama a eccezionali circostanze. (…) Ché Florio era un retore (…) Non basta saper sciorinare tutte le risorse d’una lingua per essere buono scrittore (…) la figura dell’autore di un dizionario, d’una raccolta di proverbi, e di manuali di conversazione bilingue, non è circonfusa d’alcun alone poetico; nulla di sublime che ne redima la meschinità; (…) il Florio, pel quale la frase non è che un accordo di suoni, e l’importante è veramente la parola, caramella che egli succia beato, per classificarla o per estrarne una freddura. (…) Il suo insegnamento mirava più alla figura che alla sostanza; ad arricchir la memoria degli allievi con frasi fatte, proverbi, ecc. (pp.167,168,171, 375)

Quando uno dei “padri” della critica letteraria e dell’anglistica italiana si è espresso così su un autore, non sorprende più che le successive generazioni di studiosi italiani si siano piegate all’autorità del maestro e abbiano sottovalutato Florio inorridendo solo all’idea di una sua possibile identità shakespeariana. Così in Italia nessuno ha saputo interpretare i profondi legami del Bardo con la nostra letteratura e trarne le dovute conclusioni, nessuno ha visto come, al di là delle ingannevoli apparenze, il linguista erudito e il drammaturgo condividessero carattere, pregi e difetti al punto di coincidere!

Al di là del motivo forse più forte, appunto l’ossequioso, colonizzato allineamento con il credo delle università anglosassoni che hanno etichettato John Florio come talentuoso lessicografo, un pedante Oloferne a cui il Bardo si è vagamente ispirato e basta, bisogna dire anche che gli universitari italiani non hanno mai avuto simpatia per questo esule italiano. John Florio avendo vissuto tutta la sua vita lontano dal commercio con gli italiani, arriva a pubblicare, prima nel 1598 poi nel 1611, un dizionario che contiene 74000 parole italiane raccolte in una quantità di variegatissima letteratura, dai classici del Trecento a tutto il Cinquecento, ma anche in opere scientifiche, tecniche, gastronomiche e militari! Un exploit geniale, di una modernità sorprendente, un risultato superiore al dizionario della Crusca che deve aver lasciato gialli di invidia i dotti nostrani per quattro secoli! Tutto questo spiegherebbe bene l’antipatia che si è guadagnato in Italia. Se si pensa poi che, come ho detto, è stato quest’emigrante a tradurre Montaigne e, se non bastasse, a dare agli inglesi il Decamerone, allora si capisce come tanta virtù gli sia valsa l’oblio! In quattrocento anni nessuno, in Italia, ha scritto una monografia su di lui, quasi nessun saggio, né articoli importanti se si esclude quello di Spampanato nel 1924 e le calunnie di Praz nel 1934. E poi non esiste in Italia un premio di traduzione che porti il suo nome; né l’Istituto italiano di cultura di Londra gli è stato intitolato; né tanto meno è stata eretta una sua statua in qualche luogo significativo della capitale britannica o in una città italiana. Anche in occasione della ripresa di interesse e curiosità su John Florio nel 2005, sono studiosi stranieri, un tedesco, un americano e un inglese a riaprire il discorso mentre gli italiani continuano a tenersi, tradizionalmente, a distanza di sicurezza. Anche il rapporto stretto e intimo di amicizia di Florio con Giordano Bruno non ha incuriosito più di tanto i nostri universitari. Io mi chiedo, en passant, come coloro che conoscono le opere di Bruno non comprendano che il Nolano, l’academico di nulla academia, che detestava i pedanti, non avrebbe mai stretto amicizia per due anni con Giovanni Florio se questi fosse stato davvero il tronfio pedante descritto da Praz!

Uno studioso svizzero, comparatista e specialista di lingua e letteratura italiana insegnante alla CUNY di New York, Hermann Haller, ha pubblicato nell’aprile 2013 un’opera ai miei occhi importantissima per la rivelazione di Florio, l’edizione critica del primo dizionario al mondo delle lingue italiana e inglese pubblicato da John Florio nel 1598 A Worlde of Wordes. Se ne occuperanno i nostri specialisti? Difficile dire. Finora per la nostra cultura è stato assolutamente intollerabile che questo scomodo emigrante venisse proposto come Shakespeare. Un cambiamento rischioso. Un problema in più, un’immensa, imbarazzante eredità che richiederà un’autocritica e una celebrazione che nessuno avrà voglia di compiere. Ma ora John Florio è nell’aria, rischia di diventare di moda, inglesi e americani se ne occupano, rischia clamorosamente di imporsi come il vero Shakespeare.

A questo punto i nostri accademici e “tutti quanti” potrebbero diventare improvvisamente Floriani…

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*I due articoli di Saul Frampton si possono leggere qui:  http://www.guardian.co.uk/books/2013/jul/12/who-edited-shakespeare-john-florio?INTCMP=SRCH#start-of-comments http://www.theguardian.com/books/2013/aug/10/search-shakespeares-dark-lady- florio