Du vice qui consiste à lire et à réciter aux autres ses propres productions littéraires

Giacomo Leopardi

Pubblichiamo questo piacevolissimo, fantastico testo di Giacomo Leopardi (1798-1837) che fa parte dei “Pensieri”, non solo perché fantastico e piacevolissimo, che basterebbe, ma perché va contro la corrente culturale, artistica, intellettuale del momento. Un momento di sovraffollamento libresco e autoriale che, in un crescendo allucinante, dura da circa quattrocento anni. Samuel Daniel, poeta inglese contemporaneo di John Florio alias Shakespeare di cui era amicissimo nonché cognato, dedica un testo di encomio a Florio per la sua traduzione dei Saggi di Montaigne. Il poema si trova all’inizio del libro pubblicato nel 1603 e così esordisce

To my deere friend M. Iohn Florio, concerning his translation of Montaigne./Bookes the amasse of humors, swolne with ease,
/The Griefe of peace, the maladie of rest,
/So stuffe the world, falne into this disease,/As it receives more than it can digest

(…) And have too many bookes, yet want we more,

Libri, una massa di umori, cresciuti a dismisura che ci rovina pace e riposo.Riempiono il mondo che ne riceve più di quanti possa digerirne, ce ne sono troppi ma ne vogliamo di più. Oltre due secoli dopo, agli albori dell’industria culturale, in Italia e non in Inghilterra, Leopardi perfettamente cosciente del rischio annunciato duecento anni prima da Daniel stigmatizza quello che ormai è diventata una realtà irrimediabile

Parlo del vizio di leggere o di recitare ad altri i componimenti propri: il quale, essendo antichissimo, pure nei secoli addietro fu una miseria tollerabile, perché rara; ma oggi, che il comporre è di tutti, e che la cosa più difficile è trovare uno che non sia autore, è divenuto un flagello, una calamità pubblica, e una nuova tribolazione della vita umana.

Giacomo Leopardi
Illustration:
Jacques Cournoyer

 mais maintenant que tout le monde se mêle de créer et qu’il n’est rien de plus difficile que de trouver quelqu’un qui ne soit point auteur

(voir en français Pensée XX:  https://books.google.fr/books?id=9q4OnYLhNsC&printsec=frontcover&hl=fr#v=onepage&q&f=false)

e

Ma oggi la cosa è venuta a tale, che gli uditori, anche forzati, a fatica possono bastare alle occorrenze degli autori.

Oggi, verso la fine della fase cartacea, ci sono davvero più autori che ascoltatori/lettori/spettatori. Tutti scriviamo e “pubblichiamo” cercando vittime in carne ed ossa nello spazio immateriale della Rete…

LT

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PENSIERI

XX

Se avessi l’ingegno del Cervantes, io farei un libro per purgare, come egli la Spagna dall’imitazione de’ cavalieri erranti, così io l’Italia, anzi il mondo incivilito, da un vizio che, avendo rispetto alla mansuetudine dei costumi presenti, e forse anche in ogni altro modo, non è meno crudele né meno barbaro di qualunque avanzo della ferocia de’ tempi medii castigato dal Cervantes. Parlo del vizio di leggere o di recitare ad altri i componimenti propri: il quale, essendo antichissimo, pure nei secoli addietro fu una miseria tollerabile, perché rara; ma oggi, che il comporre è di tutti, e che la cosa più difficile è trovare uno che non sia autore, è divenuto un flagello, una calamità pubblica, e una nuova tribolazione della vita umana.

E non è scherzo ma verità il dire, che per lui le conoscenze sono sospette e le amicizie pericolose, e che non v’è ora né luogo dove qualunque innocente non abbia a temere di essere assaltato, e sottoposto quivi medesimo, o strascinato altrove, al supplizio di udire prose senza fine o versi a migliaia, non più sotto scusa di volersene intendere il suo giudizio, scusa che già lungamente fu costume di assegnare per motivo di tali recitazioni, ma solo ed espressamente per dar piacere all’autore udendo, oltre alle lodi necessarie alla fine. In buona coscienza io credo che in pochissime cose apparisca più, da un lato, la puerilità della natura umana, ed a quale estremo di cecità, anzi di stolidità, sia condotto l’uomo dall’amor proprio; da altro lato, quanto innanzi possa l’animo nostro fare illusione a se medesimo; di quello che ciò si dimostri in questo negozio del recitare gli scritti propri. Perché, essendo ciascuno consapevole a se stesso della molestia ineffabile che è a lui sempre l’udire le cose d’altri; vedendo sbigottire e divenire smorte le persone invitate ad ascoltare le cose sue, allegare ogni sorte d’impedimenti per iscusarsi, ed anche fuggire da esso e nascondersi a più potere, nondimeno con fronte metallica, con perseveranza meravigliosa, come un orso affamato, cerca ed insegue la sua preda per tutta la città, e sopraggiunta, la tira dove ha destinato. E durando la recitazione, accorgendosi, prima allo sbadigliare, poi al distendersi, allo scontorcersi, e a cento altri segni, delle angosce mortali che prova l’infelice uditore, non per questo si rimane né gli dà posa; anzi sempre più fiero e accanito, continua aringando e gridando per ore, anzi quasi per giorni e per notti intere, fino a diventarne roco, e finché, lungo tempo dopo tramortito l’uditore, non si sente rifinito di forze egli stesso, benché non sazio. Nel qual tempo, e nella quale carnificina che l’uomo fa del suo prossimo, certo è ch’egli prova un piacere quasi sovrumano e di paradiso: poiché veggiamo che le persone lasciano per questo tutti gli altri piaceri, dimenticano il sonno e il cibo, e spariscono loro dagli occhi la vita e il mondo. E questo piacere consiste in una ferma credenza che l’uomo ha, di destare ammirazione e di dar piacere a chi ode: altrimenti il medesimo gli tornerebbe recitare al deserto, che alle persone. Ora, come ho detto, quale sia il piacere di chi ode (pensatamente dico sempre ode, e non ascolta), lo sa per esperienza ciascuno, e colui che recita lo vede, e io so ancora, che molti eleggerebbero, prima che un piacere simile, qualche grave pena corporale. Fino gli scritti più belli e di maggior prezzo, recitandoli il proprio autore, diventano di qualità di uccidere annoiando: al qual proposito notava un filologo mio amico, che se è vero che Ottavia, udendo Virgilio leggere il sesto dell’Eneide, fosse presa da uno svenimento, è credibile che le accadesse ciò, non tanto per la memoria, come dicono, del figliuolo Marcello, quanto per la noia del sentir leggere.

Tale è l’uomo. E questo vizio ch’io dico, sì barbaro e sì ridicolo, e contrario al senso di creatura razionale, è veramente un morbo della specie umana: perché non v’è nazione così gentile, né condizione alcuna d’uomini, né secolo, a cui questa peste non sia comune. Italiani, Francesi, Inglesi, Tedeschi; uomini canuti, savissimi nelle altre cose, pieni d’ingegno e di valore; uomini espertissimi della vita sociale, compitissimi di modi, amanti di notare le sciocchezze e di motteggiarle; tutti diventano bambini crudeli nelle occasioni di recitare le cose loro. E come è questo vizio de’ tempi nostri, così fu di quelli d’Orazio, al quale parve già insopportabile; e di quelli di Marziale, che dimandato da uno perché non gli leggesse i suoi versi, rispondeva: per non udire i tuoi: e così anche fu della migliore età della Grecia, quando, come si racconta, Diogene cinico, trovandosi in compagnia d’altri, tutti moribondi dalla noia, ad una di tali lezioni, e vedendo nelle mani dell’autore, alla fine del libro, comparire il chiaro della carta, disse: fate cuore, amici; veggo terra.

Ma oggi la cosa è venuta a tale, che gli uditori, anche forzati, a fatica possono bastare alle occorrenze degli autori. Onde alcuni miei conoscenti, uomini industriosi, considerato questo punto, e persuasi che il recitare i componimenti propri sia uno de’ bisogni della natura umana, hanno pensato di provvedere a questo, e ad un tempo di volgerlo, come si volgono tutti i bisogni pubblici, ad utilità particolare. Al quale effetto in breve apriranno una scuola o accademia ovvero ateneo di ascoltazione; dove, a qualunque ora del giorno e della notte, essi, o persone stipendiate da loro, ascolteranno chi vorrà leggere a prezzi determinati: che saranno per la prosa, la prima ora, uno scudo, la seconda due, la terza quattro, la quarta otto, e così crescendo con progressione aritmetica. Per la poesia il doppio. Per ogni passo letto, volendo tornare a leggerlo, come accade, una lira il verso. Addormentandosi l’ascoltante, sarà rimessa al lettore la terza parte del prezzo debito. Per convulsioni, sincopi, ed altri accidenti leggeri o gravi, che avvenissero all’una parte o all’altra nel tempo delle letture, la scuola sarà fornita di essenze e di medicine, che si dispenseranno gratis. Così rendendosi materia di lucro una cosa finora infruttifera, che sono gli orecchi, sarà aperta una nuova strada all’industria, con aumento della ricchezza generale.

JAZZWRITER

Fulvio Caccia

Passing Moments
Michael Supnick
Roman
Altromondoeditore
Italia

Connaissez-vous la Gennet Record Company, Richmond, Indiana, Bix Beiderbecke, les flapper girls, le lindy hop, la shim sham ? Non ?! Ce sont pourtant les lieux, les personnages et les danses qui ont accompagné la légende du Jazz. Et c’est cette histoire passionnante que nous dévoile en italien Michael Supnick dans ce roman surprenant dont le titre, tiré sans doute d’une pièce de jazz, est déjà tout un programme : Passing moments. Tout commence par le plus banal des hasards : l’acquisition d’un vieux saxophone acheté sur Internet. Mais l’année de sa fabrication -1912- intrigue ce jazzman accompli, américain de naissance et italien d’adoption, qui a plus de 70 enregistrements à son compteur. Se pourrait-il que ce saxophone ait été le témoin de l’histoire du jazz ? Il n’en fallait pas plus pour allumer l’imagination de Supnick qui aussitôt s’enquiert du premier propriétaire de l’instrument. Les quelques éléments glanés lui suffisent pour brosser la trame d’une histoire qui se révèle par petites touches, comme un secret de famille. Et qui pour lever ce secret sinon un jeune garçon de huit ans dont la curiosité l’amène à découvrir dans le grenier de la maison un vieille malle obstinément fermée. Que contient-elle   et pourquoi la valise à ses côtes, remplie de robes de bal des années trente disparaît-elle aussitôt que Jimmy, c’est le nom du petit garçon, en parle à sa mère ? Nous sommes le 29 mars 1967 , à Richmond , Indiana, au cœur de la Bible Belt mais qui fut aussi un temps le cœur vibrant des Roaring Twenties : les années 20 américaines. Pour la raconter Supnick construira deux récits en parallèle : le premier est celle de l’histoire du jazz qui va de 1923 à la fin des années 60 ; le second part justement de cette période, celle de la redécouverte, jusqu’ à sa reconnaissance dans les années 80. Cette trame alternera et finira par se confondre comme les branches du caducée , le 13 mai 1980 dans un chapitre conclusif qui s’intitule justement « La réhabilitation ». Car cette entreprise est bien celle de la réhabilitation de la mémoire occultée où Jimmy découvrira la véritable histoire de son grand-père paternel, Boogie Windham, jazzman à ses heures, mais surtout de son grand oncle Windy, petit génie du saxophone et propriétaire de l’instrument.   C’est à travers lui, sa vie, ses espoirs mais aussi ses déconvenues que le narrateur va nous faire découvrir le jazz. Car Windy serait ce qu’on pourrait appeler « un petit maître » ; il aura joué avec les plus grands sans toutefois obtenir son moment de gloire ; moment qui lui sera volé… par un train dont le sifflet s’invite au beau milieu de son solo sur le point d’être gravé. Car le mythique studio d’enregistrement de Richmond se trouvait tout près de la gare de train, (directement connecté avec la Nouvelle Orléans par où remontaient le contingent de jazzmen noirs invités à se faire voir ailleurs par le nouveau maire d’alors). Et les prises d’enregistrement étaient calculées en fonction des horaires des trains.

Le train revient en boucle dans le roman. C’est l’aveugle instrument du destin. C’est lui qui tuera le meilleur ami de jeunesse de Windie dans un jeu aussi téméraire que stupide. C’est encore lui qui emportera la vie de Bonnie et de son partenaire de danse dans une collision frontale en 1941. Car Bunny, la grand-mère de Jimmy, est l’autre personnage de ce drame familial. C’est le personnage le plus attachant… et le plus énigmatique ; c’est elle qui détient la clef des mystères qui permettra au jeune garçon d’ouvrir la malle au secrets et d’y retrouver le mythique instrument. Car Bunny est une « flapper girl » autrement dit une femme libre, ante litteram. Elle aime le jazz, le swing et ses talents de danseuse, lui font croquer la vie à belles dents. C’est elle l’égérie du groupe ; les frères Windham en sont tous les deux amoureux (même si elle mariera le cadet) mais également Robert Ortiz, son partenaire de danse de dix ans son cadet qui périra avec elle dans l’accident de voiture ; trop pressé d participer à ces concours de danse qui fleurissent dans les dancing des USA et dont Sidney Pollock tirera un film fameux : They shoot horses, don’t they . Evidemment au cœur de la Bible Belt, cela fait mauvais genre. C’est pourquoi la famille s’empressera de refermer la malle à souvenirs.

Des années folles aux Golden eighties

La liberté dérangeante de ces années folles tant sur le plan de la création que des mœurs constitue le chiffre secret de cette Amérique qui découvre sa toute puissance créatrice et les angoisses qu’elle génère . La reconnaissance de cette période ne pouvait donc advenir qu’à une époque qui lui correspondait  : celle qu’ouvrent les années soixante et que concluent les Golden Eighties.   L’auteur qui fut un enfant de ces sixties y a mis beaucoup de ses souvenirs personnels en décrivant l’ambiance et le mode de vie de cette époque où le chrome des Chevrolet Impala rivalise avec les grands succès du rock qui emportent dans son raz de marée les grands manitous du jazz auxquels ils doivent tant. La mort de Louis Amstrong, en 1971 décrit avec beaucoup de délicatesse et d’affection, en constitue en quelque sort le nadir.

C’est la raison pour laquelle ce quatuor amoureux, tragiquement brisé par la collision de 1941, en évoque un autre immortalisé au cinéma en 1981 par Arthur Penn et qui porte lui aussi le titre d’une pièce de Jazz emblématique. C’est « Georgia » évidemment interprété par le grand Ray Charles. Et l’on se prend à rêver de ce qu’aurait pu faire de ce roman un cinéaste de la trempe d’un Penn car sa composition en une cinquantaine de courts chapitres, tous portant en titre un journée, sont autant de scènes de scénario de film. Bien sûr, on aurait un aimé un grain de folie, plus de jazz justement dans sa composition, plus de liberté et de profondeur dans ses personnages comme avaient pu su le faire en leur temps les écrivains de la Beat Generation. Mais l’auteur , en fondu de ce style de musique et dont c’est le premier roman, a sans doute voulu donner la préséance au Jazz lui-même ; ce qu’il fait avec une érudition époustouflante et une intuition étonnante de la médiologie, (cette discipline qui étudie l’effet des médias sur leur époque) qui n’aurait pas déplu à Marshall Macluhan. Mais il y a une autre vertu à cet texte qu’il me faut souligner en conclusion. En écrivant « testardamente » ce livre en italien, Supnick, qui est de langue anglaise, renonce à la facilité et rejoint sans le savoir, la cohorte grandissante des auteurs qui choisissent l’italien comme langue d’expression.  Cette traversée des langues qui est depuis toujours le fil rouge des diasporas et de la création demeure de façon têtue le signe de la transculture- Ce dont témoigne cette recension qui aurait due être écrite en italien.  Bienvenue au club !

 

Tableaux d’une exposition

Fulvio Caccia

Mia Lecomte, Al Museo delle relazioni interrotte (poésie. Côme, Lietocolle, 2016)

C’est à une étonnante exposition à laquelle nous convie Mia Lecomte qui, comme son nom français ne l’indique pas, est l’une des voix les plus sensibles du paysage poétique transalpin. Cette voix qui a été longtemps mêlée à celle d’autres écrivains, souvent étrangers, afin de soutenir leur singularité au point de laisser la sienne dans l’ombre, voilà qu’elle s’affirme pour prendre la place qui lui revient. Son dernier opus poétique l’illustre éloquemment. Intitulé Al Museo delle relazioni interrotte, ce recueil dont le titre mériterait à lui seul un long développement est une invitation à un rituel qui est devenu aujourd’hui presqu’impossible : le rituel de la séparation, qui est aussi en même temps celui de la profanation. Cette sorte d’impossibilité traverse l’ensemble de ces 44 tableaux qui cristallisent autant un état, un souvenir, un lieu, une circonstance d’un quotidien à la fois familier et curieusement décalé : … Non osi la luce separare ciò che il mio grande vuoto ha unito («  … N’ose la lumière séparer / ce que mon grand vide a uni »).

Un lecteur pressé serait tenté d’y lire l’épilogue d’une crise amoureuse et conjugale parvenue à son point de rupture. Plusieurs poèmes pourraient le suggérer. Dans « Mirabilandia » (p.18) « la voix qui tourne, tourne et tourne » c’est celle du père, du mari ? Dans « Post coitum » (p.28), la question demeure : « qui s’en est allé » de la grande cuisine attiédie par l’été – « Se n’è andato in silenzio alla fine/ Tu sei andato » –  laissant la couvée familiale désemparée ? Dans « Matrimoniale » (p.40), sans doute le nadir du recueil, on croit avoir trouvé la réponse : Ho confidato all’uomo che non c’era / Questo letto è troppo grande per me sola (« J’ai confié à l’homme qui n’était pas là / ce lit est trop grand pour moi seule »).

Le dispositif élégiaque célébrant le Grand Absent – l’homme à travers deux de ses figures- semble ici fonctionner à plein régime. Et pour cause. C’est d’abord le père disparu à qui la poète rend hommage sur ses cendres encore tièdes ( Imboscata, p.31) ; mais aussi le mari, le conjoint vers lequel semble tendre tout le rituel de cette cérémonie des adieux. Mais s’en satisfaire serait faire l’impasse sur l’essentiel, car ici tout se passe hors champs, entre les marges, en de déplacements subtils qui mettent hors jeu ce sens que l’on veut à tout prix assigner à résidence : soit dans la chaleur conviviale et feutrée de l’Oikos, comme l’épouse la mère, la jeune fille ou… le suspect ! Dès lors le vrai jeu peut commencer et le vrai « je » s’exprimer. C’est ainsi qu’apparaît la vraie nature du poème, qui n’est élégiaque qu’en apparence ; son fonctionnement est parodique. Car tel est bien l’enjeu : déconnecter le faisceau très dense des rôles des fonctions qui ont tissé des siècles durant l’identité humaine. Ce n’est pas rien, surtout lorsqu’on est femme et qu’il faut se déprendre de la valeur-refuge, le ciment qui a été si longtemps associé à l’univers féminin: l’amour.

Comment s’en défaire sans jeter, au sens propre et figuré, le bébé avec l’eau du bain. C’est tout le dilemme des femmes à l’égard de la création. Au lieu d’en faire fi, comme nombre de ses contemporaines, ou de la subsumer comme l’ont fait certaines écrivaines des générations précédentes, Mia Lecomte a emprunté une porte dérobée. Cette porte, c’est l’observation du travail du désamour qui s’opère en elle. Expérience restituée par touches fines, par fragments, qui rend « son drame plus puissant et plus évident », comme l’écrit très justement Carlo Bordini dans sa postface. Or ce drame si évident ne peut être que celui de la séparation.  C’est pourquoi on pourrait lire ce recueil comme l’avers symétrique des “Fragments du discours amoureux”. Alors que chez Barthes il s’agit d’exposer de l’impossibilité du discours amoureux, ici c’est précisément tout le contraire : l’impossibilité de tout discours sur le désamour.

Le christianisme aurait-il triomphé au point de rendre inopérant toute expression du désamour ? Non, affirme Walter Benjamin, c’est le capitalisme dans sa phase avancée  qui a pris la religion de l’amour dans ses rets rendant impossible son outrage véritable. Qu’est-ce à dire ? Dans son essai La profanation, où ces pensées de Benjamin sont extraites, Giorgio Agamben nous en donne l’explication. Pour les juristes romains, la profanation consistait à restituer au libre usage des hommes ce qui avait initialement consacré, c’est-à-dire séparé pour l’usufruit des dieux. C’est le sacrifice – et donc la victime sacrifiée – qui instaurait la césure entre l’usage sacré et l’usage profane. On sait le long travail du christianisme pour absoudre cette coupure où Dieu, par son incarnation, devient l’objet même du sacrifice dévoilant ainsi la contiguité entre nature humaine et nature divine. Aujourd’hui, le capitalisme avancé pousse jusqu’à ces limites extrêmes la logique chrétienne en démultipliant les séparations sans raisons. Bref en transformant tout en marché, tel Midas changeant ce qu’il touchait en or: ” Dans sa forme extrême, la religion capitaliste réalise la forme pure de la séparation sans plus rien séparer “.

Or de quoi est-il précisément question dans ce recueil ainsi que dans toute création authentique, sinon de séparer les diverses appartenances dont tout un chacun est constitué de leur finalité, et affirmer ainsi une identité renouvelée qui n’est plus simplement réduite à ces fins . Pour Mia Lecomte, cela passe par l’exposition du désamour au travers ses divers rôles –fille, mère, femme – et libérer ainsi le langage de ses assignations afin de retrouver l’acte pur de la création  que fonde la poésie.

Le lieu par excellence de l’exposition c’est le musée, c’est aussi au-delà de l’espace physique déterminé, nous dit toujours le philosophe italien, « la dimension séparée où est transféré ce qui a cessé d’être perçu comme vrai, décisif ». Dès lors titre du recueil prend tout son sens, car au musée les relations ne peuvent qu’être interrompues.