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IO SONO CANADESE

 Dans un ancien numéro  de  ViceVersa dédié à l’Italie, j’écrivais un texte intitulé  “l’altra riva”  où je faisais état  des “affinités électives” qui nous lient à une langues ou à une culture étrangère à la nôtre. L’ami  Jacques  Brisson nous en donne  ici une  belle démonstration.

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Jacques Brisson   Non parlo italiano. Toutefois, je le lis un peu.

Mais pour le parler, le parole non mi vengono facilmente.

Which is not the case in inglese.

Oui, je parle l’anglais.

Ce qui est normal since I live in North america.

As I am surrounded by inglese speaking people.

Pourquoi cet attrait pour l’Italie?

Pourtant, io sono canadese, io sono québécois.

Sinceramente non lo so.

Peut-être à cause du but de Roberto Baggio sur Zubizarreta.

Ou peut-être que ça en dit davantage sur moi que sur l’Italie,

I guess.

Un jour un ami, ciao Lamberto!

who teaches italian at the university,

m’a raconté que certains québécois se transforment littéralement en italiens pendant ses cours.

con le mani sempre in movimento.

Culture forte, culture faible,

he said to me.

a

J’ai toujours été attiré par les cultures étrangères.

Je ne me suis jamais totalement senti québécois.

Never totally canadian either.

I’ve grown up looking outside.

Nourri de musique et de littérature provenant d’ailleurs.

De culture provenant d’Italie.

Tabucchi, Benni, Gadda, Baricco, Moravia, Moretti, Ruggeri,

tels furent mes maîtres

Hanno costruito la mia Italia!

Et la Sicile!

Non so perchè.

Non parlo italiano. Toutefois, je le lis un peu.

Je le traduis un peu.

Lentamente, molto lentamente,

Giorgio Agamben, Francesca Borri, Alessandro Bertante.

Ma façon de m’approprier la culture, de fuir la mienne.

Ne pas aimer sa culture, est-ce ne pas s’aimer?

Fondamentalement, le québécois ne s’aime pas.

Son histoire est jonchée de défaites et d’échecs.

Il a été méprisé, châtié, humilié.

Ceci laisse des traces indélibiles, structurantes, permanentes.

Un peuple qui est pleutre au point de

se dire non à deux reprises,

ne peut pas exiger à hauts cris

qu’on le considère comme une nation.

Appelés au parloir de l’Histoire,

on a fait dans notre froc.

Alors on se replie sur soi et on se vautre dans le fric.

Désormais société qui bande au cash.

Mais il en restera toujours quelque chose.

Pour combattre cette aliénation impregnée dans nos gènes,

deux approches: gueuler une fierté factice ou regarder ailleurs.

Je regarde ailleurs.

Non parlo italiano. Toutefois, je le lis un peu.

Je le traduis un peu.

Je le suis un peu.

Mais io sono canadese. Io sono québécois.

Il me reste peut-être 10-15-20 ans à vivre.

Après ma mort, je veux qu’on m’enterre,

la tête à Ste-Flavie, mon nez hûmant l’air salin et le varech.

Le coeur à Agrigento, dans mes veines coulant pour toujours,

le nero d’avola et le pignatello.

I SEGNI

Giuseppe A. Samonà

Punti rossi e mucchietti di pietre che stanno in equilibrio l’una sull’altra: l’ultima volta che li ho visti è stato alla fine di questa estate, su per le montagne di un’isoletta all’estrema periferia orientale del Mediterraneo. E mi sono improvvisamente ricordato di quando li avevo visti per la prima volta, più giovane di una quarantina d’anni, su per le ben più alte montagne del Tibet e del Nepal, dove perdersi equivale a morire; o più a sud – era lo stesso andare – nelle foreste del Kerala e del Tamil Nadu, anche se là, mi sembra, furono piuttosto intrichi di ramoscelli, o tacche sulla corteccia degli alberi, o ancora graffi sulle rocce lungo il cammino. Visti, o forse dovrei dir meglio: riconosciuti – perché probabilmente li avevo già visti senza vederli, nelle passeggiate della mia infanzia attraverso i boschi siciliani, o sul Carso: per vedere vedendo, infatti, bisogna essere pronti. Poi, ho continuato a vederli, cioè a riconoscerli – che fossero punti, pietre, tacche, ramoscelli, o altri graffi sapienti – su per le Ande, in Etiopia, nel deserto d’Egitto, e in tanti altri luoghi.

Ma ecco: tutti mi sono sfilati davanti agli occhi questa estate, come raccontano succeda con l’intera vita quando si muore. (Lo raccontano gli eletti, che muoiono ma poi tornano indietro, appunto a raccontare…) Del resto, è proprio della vita che è questione, della vita nel senso più totale, profondo del termine: viverla sino al rischio di perderla, rischiare di perderla come unico vero modo per viverla. Chi intende il viaggio innanzitutto come lento spostamento a piedi – ma anche, pur servendosi di altri sistemi di segni, chi percorre i mari in battello – sa già di cosa parlo. Per gli altri, a mo’ di esempio, valga il breve resoconto della nostra recente avventura estiva. 

Dovevamo raggiungere la vicina Khoriò, ma un geologo incontrato per caso in cammino aveva proposto di condurci con la sua auto sino al Monastero, che si trova come ritirato all’estremità dell’isola, in fondo a una vallata – e avevamo accettato: cambiare improvvisamente piano è la prima grande libertà che si ritrova viaggiando. Da lì, il geologo si era diretto a piedi verso la costa per certi suoi rilievi, noi avevamo deciso di seguire il lungo sentiero montagnoso, visibile sulla cartina, che attraverso ben sette valichi ridiscende a mare dalla parte opposta, di nuovo sulla costa abitata: certo, era il tragitto più difficoltoso di tutta l’isola (segnalava una nota a margine della cartina), ma erano appena le undici del mattino, avevamo con noi tre litri d’acqua e qualche biscotto salato, e ci volevano più o meno quattr’ore. Potevamo – e abbiamo oltrepassato il varco che si trova proprio accanto al Monastero e seguito il sentiero che per qualche decina di metri ne fiancheggia il muro, per poi inerpicarsi su per la montagna, verso il primo valico.

La difficoltà principale, più che le salite o le discese a volte assai ripide, o gli intrichi di rovi, i cactus, le ortiche, i passaggi in cui bisogna arrampicarsi sulle rocce, il caldo, il vento – che pure esistevano, ed hanno avuto la loro parte – era quella comune a tutti sentieri che si allontanano dall’abitato. Evidenti sulle carte, continuamente ti mettono alla prova nella realtà, la traccia si confonde, scompare: a destra o a sinistra? A sinistra…: ma dopo un po’ ti rendi conto che non arrivi da nessuna parte, la vegetazione si fa troppo fitta, le rocce invalicabili, e torni indietro, era a destra… E così via: in continuazione ti perdi e ti ritrovi, ma attento, perché se ti smarrisci troppo a lungo rischi di non poter più ritrovare il punto da cui si diparte la giusta via. Sempre cammini sul filo: il rischio di perderti del tutto sta sempre là, in agguato. Ma sempre in agguato anche loro stanno là, visibili solo a chi conosce l’amore che unisce i cammini del selvaggio, proprio quando il sentiero si fa più confuso, o sparisce. I segni. Noi rallentiamo, a volte ci fermiamo, ci guardiamo intorno, lontano, vicino, ed improvvisamente – com’è possibile? un istante prima non c’era – appare: il punto rosso dipinto su uno spunzone di roccia, o il mucchietto di pietre in equilibrio, o entrambi… Ma se non si vedono né l’uno né l’altro, bisogna tornare indietro, ma con prudenza, perché forse invece è proprio là, non hai guardato bene, e l’errore sta proprio nell’abbandonare quel cammino che un attimo ancora ti rivelerebbe il segno amico. E, come spiegarlo? ogni volta che sul filo del rischio avvisti un segno, è un momento di gioia, una scarica di energia che inonda ugualmente cervello e gambe, e più grande è il brivido di non riuscire a vederlo più grande è la gioia di averlo infine trovato. Così, di segno in segno, di valico in valico, è scomparso il Monastero dietro di noi, poi è scomparso il mare che per un paio di ore buone ci ha seguito sulla nostra destra, e siamo arrivati alla fonte delle capre, tutta in altura, che si trova anche sulla cartina: ora è all’orizzonte, di fronte a noi, il mare. Proseguiamo: il punto, il mucchietto… Sono di nuovo, come in passato, il nostro progetto, il nostro obiettivo, il senso stesso della nostra vita… Perché indicano la via e la fanno rilucere d’amore: quello per cui, mossi da una sorta di solidarietà collettiva per tutti coloro che, più inesperti, si metteranno in cammino, altri anonimi camminatori li hanno adagiati là, e poi là, e poi là… – dicono dell’avventura umana in ciò che ha di più generoso, luminoso, umano. Riconoscendoli – ed ognuno di essi è conquista, ondata di felicità, conferma del nostro essere in cammino, cioè vivi – entriamo a far parte di un’invisibile eppur solida comunità che vive nel tempo: per quei segni, per quel filo d’amore e di sostegno che corre di punto in punto, noi, solo noi, siamo umani. Eccola, la libertà: poter scegliere, creare, cambiare in qualunque momento il proprio percorso, esser soli e nel contempo amati-amanti, insieme ai tanti altri che ci hanno preceduto o che ci seguiranno. Al contrario di quel che succede nei socials e nella società che su di essi si fonda, dove dentro la rumorosa super-visibile condivisione si nasconde una terribile, silenziosa solitudine, ora – pensavo mentre avanzavo nel cammino – ci ritroviamo amorevolmente, silenziosamente, durevolmente insieme, attraverso infiniti secoli, proprio perché coraggiosamente, istantaneamente, ontologicamente invisibili, soli: e non più gratuitamente schiavi, ma finalmente, veramente liberi. Vivi. Pensavo, o meglio, pensavano le gambe, come nella meditazione dei monaci zen: la testa è limpida, è un lago in cui tutti i pensieri stanno là in simultanea complicità, come fossero bolle, e sono mille i pensieri, e anche nessuno, sono un unico pensare, ma senza pensare, un pensiero che non è pensiero ed è più del pensiero, e che i radicali dell’ora-te-lo-spiego-io chiamerebbero delirio, sovreccitazione mistica dovuta al caldo, fatica, endorfine, droga da movimento (il che è senz’altro vero, com’è vero che l’innamoramento è una scarica di adrenalina nel sangue), insomma un pensiero leggero, spensierato, uno spensiero, ecco, che solo adesso, che sto qua bello seduto a scrivere, si srotola nel tempo, e temo che quel che appariva evidente alle mie gambe-cervello possa ora, sdipanandosi sulla carta, risultare incomprensibile, assurdo, o magari ridicolo.. E anche appunto spensavo: quei punti, quegli elementari agglomerati di pietre, sarebbero come corpuscoli di energia, atomi, ognuno di essi rappresenterebbe in sé l’intero universo anche rinviando al successivo, insieme al quale formerebbe una rete infinita, infinitamente grande e minuscola (le galassie, i sistemi solari, una lumaca che mangia una foglia, gli Improvvisi di Schubert, il muretto giallo nella Veduta di Delft di Vermeer, due vecchietti che ballano un tango, riincontrare una vecchia amica dopo quarant’anni…), inestricabilmente fragile e potente, proprio perché integralmente umana, una sorta di scheletrica dimostrazione, quei punti, quei mucchietti, de l’amor che move il cielo e l’altre stelle. (È irrisorio, minuscolo appunto, ma voglio ricordarlo: anche noi due, lungo il cammino, abbiamo qua e là amato, innalzato mucchietti di pietra nei faticosi passaggi in cui eravamo diventati più esperti…)

Ma che dico, il senso? Sono la vita stessa, quei segni, la vita dal di dentro. Non che ne abbiano l’esclusiva, ovviamente: ma hanno la capacità, in senso letterale, di contenerla, la vita, di aderirvi completamente, aspirando in se stessi tutto il tempo – non esistono più progetti, proiezioni, al di fuori del loro orizzonte. Un punto da raggiungere, raggiungerlo, una scarica: come creare, mattone dopo mattone, le mura della propria futura casa; come costruire un tavolo, o cuocere un pane. Come i bambini alle soglie della parola che giocano insieme nella sabbia, o dentro le pozzanghere, e la loro gioia, o quella dei matti, e la disperazione. Come sdraiarsi sul divano e aspettare, dopo aver fumato l’oppio. Come l’orgasmo. Come quando si lotta contro una malattia-mostro che ci divora da dentro, vuole ucciderci. Come quando si lotta a fianco di chi lotta contro quella malattia-mostro. Come tutte queste cose, con la stessa forza, splendida ma anche tenebrosa, quei segni, noi dietro a loro, sono quel che fra un’inquietudine e l’altra sempre ci affanniamo a capire: la vita… Tutto il resto – quel che ci agita, ci tormenta nel castello di responsabilità e lavori in cui si svolge la nostra esistenza, tutti gli abituali desideri – ci appare d’improvviso un insensato, un vano fardello: semplicemente camminare, robustamente e lentamente, trovare il prossimo punto rosso è ben più importante che vincere un concorso, un posto, un premio. Più sublime del più sublime capolavoro che si possa scrivere o dipingere. Mentre son passate un altro paio d’ore… il punto, il mucchietto… e, raggiunto il quinto valico, la vediamo, semisepolta nella verdura giù in fondo alla valle: la Chiesetta, anche lei sulla cartina. Con lei come punto di riferimento – cioè un punto rosso magicamente dilatato – scendiamo, incespichiamo, quasi rotoliamo a valle. Siamo giù – sosta alla solitaria Chiesetta, commovente –  il mare è di fronte che quasi sembra di poterlo toccare, anche se non è quello giusto, a sinistra dobbiamo andare, di nuovo su, un punto rosso, un mucchietto, un punto rosso, fino al largo spiazzo che sta a cavallo del penultimo valico, come un balcone cui fa da muro all’indietro la montagna, e di nuovo di fronte il mare, ma un altro, un’altra baia, che ancora non è quella giusta neanche questa. C’è infatti da aggirare la parete rocciosa, un punto, un mucchietto, e poi attraversare l’ultimo valico, il cammino è – sulla carta – molto più breve di quello già percorso, e – sembra – evidente. Insomma, è quasi fatta.

Quasi. Forse la più pericolosa delle trappole di chi percorre i sentieri della terra o dell’acqua. Quasi è come quando uno deve fare pipì e sta per arrivare a casa: più svelto dai, presto, e si allentano i muscoli, cala la concentrazione, sale l’eccitazione per l’obiettivo vicino, e si rischia di farsela addosso… Insomma, involontariamente (noi) ci si distrae, si smette di combattere, si procede in automatico. E d’un tratto – il sentiero è scomparso già da un po’, l’ultimo punto o mucchietto è lontano – … andiamo giù di qua, no aspetta torniamo indietro, è su che dobbiamo andare, ma cammina cammina ecco che arrampicarsi diventa troppo impervio, punti o mucchietti non se ne vedono, era l’altra la strada allora, torniamo indietro, ma dove? Era più giù, no, più a destra, a sinistra… e improvvisamente ci accorgiamo, con un brivido, che il mare è completamente scomparso, e che al suo posto intorno a noi da tutte le parti si sono moltiplicati i picchi montuosi. Si succedono rapidamente due o tre dispendiosi, rabbiosi tentativi in tutte le direzioni, ma niente, impossibile ritornare a orientarsi, il mare è scomparso, scomparso, solo montagne, sempre uguali ma anche diverse come se invece di avanzare o tornare indietro ci addentrassimo sempre di più in un universo sconosciuto – e nessun punto rosso, nessun mucchietto. Improvvisamente ci accorgiamo, che anche  occupa un tempo spaventosamente vasto: stiamo – com’è possibile? – girando in tondo da due ore. È chiaro, adesso: ci siamo irrimediabilmente persi. Perduti. Inzuppati di sudore, per il molto errare a vuoto e il gran caldo, con ormai neanche un litro d’acqua a due, ma meglio non toccarla, chissà cosa ci aspetta. Chissà? Noi, lo sappiamo, anche se non osiamo dirlo: il sole sta calando alla nostra destra, la luce cambia, la brezza che piacevolmente rinfrescava il sudore è diventata un robusto sempre più robusto meltemi, che ce lo ghiaccia addosso – e  a un certo punto lo dico, mentre come se ognuno di noi due leggendo nei pensieri dell’altro ci siamo fermati: passeremo la notte qui, ci rimetteremo a cercare alla prima alba. E – sempre il caldo, il freddo, la fatica, la chimica, certo… – ero di nuovo in Nepal, e con tutti i punti e mucchietti incontrati nella mia vita – perché non è stata una pausa, in cui distesamente si pensa, ma una sorta di trance, e il cielo cambiava di colore, il vento soffiava impetuoso, sorprendentemente sempre meno caldo. Ipnosi – e come quella volta in Nepal, ho sentito che potevo scomparire, cioè morire, anzi che già lo stavamo (morendo), come quando in mezzo alla neve ci si intorpidisce e si perde il senso del tempo e del proprio corpo. Ma più che alla troppa poca acqua, più che al freddo, oramai evidente, e sempre più intenso, più che alla notte violenta che ci aspetta, la morte è legata, come allora, alla radicale scomparsa dei puntini e dei mucchietti: ci muoviamo in un altro universo da cui, sembra, neanche la luce dell’alba potrà farci uscire. Eppure non c’é paura, non panico, né inquietudine, solo la sensazione condivisa – telepaticamente so quel che lei sta pensando, lei sa quel che sto pensando io – che la nostra solitaria scomparsa è l’altra faccia, necessaria, e non meno straordinaria, della straordinaria vita che abbiamo tramato sino a un attimo prima collegando puntini e mucchietti. E proprio come quella vita straordinaria, anche minuscola, irrisoria, fragile. Anzi, vita e morte sono una cosa sola, abitano lo stesso spazio, ma in un tempo diverso, come il giorno e la notte, anche se oramai noi sentiamo di esserci definitivamente dentro, in quella notte, in quel tempo: siamo già morti? Questa cosa dal di fuori immensa, la morte, da dentro sembra insomma del tutto banale, com’è banale la vita che abbiamo lasciato. Ed entrambe parlano carnalmente di sensazioni e di corpi: infatti, l’unica mancanza nel tempo freddo che ci avvolge è il sapere che nella vita ci sarebbero ad aspettarci l’orata che proprio quella mattina il nostro amico pescatore ha messo da parte per noi, con in fresco una bottiglia di retsina, che a noi piace come fosse champagne. Saremmo dunque, e per sempre, vivi e morti? Ma appunto, a differenza del Nepal, non ero solo, eravamo due: da soli, si può morire, in due, vien sempre voglia di salvare l’altro. E ho detto (eravamo sul valico, il vento soffiava tremendo): cerchiamo un riparo. E ho notato che il sole era oramai prossimo a sparire alla nostra destra, e quindi il sud sud-est, cioè la direzione della nostra destinazione, della vita, doveva essere perpendicolare, pendendo un poco a sinistra… Insomma, fra le montagne che ci circondavano da tutte le parti, come se il valico fosse infinito, perché non provare – appunto, salvare l’altro – anche noi a pendere a sinistra? Non che pensassimo di salvarci subito, ma forse ci saremmo avvicinati, e alla prima alba sarebbe stato più semplice ritrovare il cammino. E ci siamo inerpicati, aggirando e salendo, per raggiungere la cresta, aggrappati alle rocce, strappandoci i vestiti, fra rovi e spunzoni, sobbalzando in continuazione, perché quasi a ogni passo un piede scivolava, rischiando di trascinarci nel vuoto, e dappertutto sempre e solo montagne, anche una volta raggiunta la cresta. Ma avanti! ancora un passo, poi un altro, un altro, e d’un tratto, come un’esplosione, una luce violenta, eppure dolce: come calato dal cielo appare. Il punto rosso, con sopra il mucchietto: lo fissiamo, estasiati, come se fosse il monolite di 2001 o anche, più semplicemente, come se ci fosse apparso Dio, un dio. (Questo lo dico adesso, pensando; allora, spensando, era Dio, un dio d’amore messo là dall’umanità creatrice ed amica che ci aveva preceduti…) il punto, il mucchietto, e dietro, come d’incanto, immenso c’è il mare, quello giusto, che cercavamo da ore.

In À bout de souffle (Godard et Truffaut…), Patricia, la deliziosa Jean Seberg, intervista un famoso-insopportabile scrittore, e gli chiede: Quelle est votre plus grande ambition dans la vie? E lui, dopo un attimo di riflessione: Devenir immortel, et puis… mourir! Ecco, oggi mentre scrivo di quella avventura mi sembra finalmente di afferrarne tutto il senso: per essere immortali bisogna passare attraverso la morte, o più precisamente essere insieme vivi e morti, quel puis sarebbe in realtà un anche, una contemporaneaità. In quelle ore ore fra le montagne greche, saremmo forse diventati dèi?

Sobre el arte de hacer novelas en el siglo XXI: meditaciones en torno a Seda Araña de Antolina Ortiz

Ángel Mota Berriozábal

En 1988 ediciones Garzanti, en Milán, editó el libro Lezioni Americane del autor Ítalo Calvino. El libro concibe las nociones sobre lo que la literatura de nuestro milenio puede ser. Seis propuestas que el italiano escribió para una serie de conferencias en la Universidad de Harvard, con motivo de las prestigiosas lecturas Charles Eliot Norton. Se trata de una obra póstuma, siendo que Calvino falleció poco antes de ofrecer las lecturas. En ellas podemos leer un libro que previó, con sumo cuidado y exactitud, lo que sería nuestra literatura y sobre todo el modo en que la literatura, de nuestro siglo XXI, puede hacer frente a las vicisitudes y realidades con las que se enfrenta y vive.

Es así como, en nuestro milenio, justo antes de la pandemia del Covid-19, leí una novela corta de nombre: Seda Araña, de la autora mexicana-canadiense Antolina Ortiz. Lo primero que me llamó la atención fue el nombre “Seda” como título de novela, ya que inmediatamente me remitió a la novela corta de Alessandro Baricco “Seta”. Descubrí, de hecho, que la obra estaba dedicada al autor italiano y, como me lo confirmó Antolina después en una conversación que tuvimos en el pintoresco café Vasco da Gamma, en el centro de Montreal, su novela la escribió luego de leer a Baricco. Aún más, Antolina me comentó en una de varias conversaciones que hemos tenido en torno a su libro, que Seda Araña nace bajo la gran impresión que le causó Seta. Me explicó que “le encantó lo conciso de la novela, la brevedad y profundidad de esta, así como todo el tema en torno a la seda. En específico, el aspecto histórico y científico. Las reflexiones de Antolina, la relación con la obra de Baricco y sobre todo la lectura de su propia novela, me llevaron entonces a las Lezioni Americane.

No es ningún misterio que Ítalo Calvino, maestro literario de la generación de oro de la literatura italiana, junto con Elsa Morante, Pier Paolo Pasolini o Alberto Moravia, entre otros, tuvo una gran influencia en los escritores de generaciones futuras, entre ellos en Baricco. De hecho, Alessandro Baricco, junto con otros autores italianos como Antonio Tabbuchi o Maurizio Mauggiani, se constituyen como la generación que sigue en importancia a la de Calvino. Otra generación de oro. Con esto infiero que Baricco retoma, desde su propia originalidad y estilo, nociones literarias de sus antecesores. Siendo así, al inspirarse de la estética, tema y forma literaria de Baricco, Antolina lo hace indirectamente de Ítalo Calvino. Un tipo de palimpsesto involuntario. Con lo cual observo que Antolina, dentro de Seda Araña, escribió un libro en donde podemos leer casi como espejo Le lezioni americane. Sei proposte per il prossimo milenio. Es decir, su obra de ficción muestra, de una manera muy hábil lo que Calvino, en los años 80 del siglo pasado, concibió como lo que podría ser la novela de nuestro milenio. Antolina nunca ha leído Las lecciones americanas, por lo que su novela no es una obra que obedece a un dictado escolar, sino a una meditación profunda, a reflexiones que coinciden con lo que Calvino pensó en su tiempo y espacio, con algo del estilo de Baricco.

Seda Araña es el relato de Elsa. Una adolescente a la que se le obliga a elaborar tejidos con la seda hecha de la tela de las viudas negras: “una cosechadora de seda araña”. Elsa es así enviada a vivir a un faro, en Holanda, durante la invasión y ocupación de la Alemania Nazi, junto con un tal Luuk. De esta manera, la novela transcurre en tres espacios principales: el físico, esto es; el faro donde Elsa teje y vive la guerra, el mental, como son las evocaciones por ella del pasado y los sitios imaginados en el encierro, y el tercero son las cartas que escribe. Se trata así de una novela contada desde el aislamiento por medio del monólogo y el sistema epistolar. Lo que Antolina vincula con el proceso mismo de escritura en Canadá. Sí, la autora redacta en español y difunde su obra hacia México desde el país de acogida, bajo el dominio del francés y el inglés, de otro modo de vivir, y escribe bajo la necesidad de vivir en Montreal como refugio de la violencia vivida en su país de origen.

A este respecto, en una conversación telefónica que tuvimos me comentó que vivir la violencia en México es equiparable a vivir la violencia en una guerra, como la que describe en su libro, el aislamiento de Elsa en un faro es como ella siente muchas veces vivir en Canadá. De hecho, en la portada de su libro vemos la pintura de un faro. El cual, según lo que me respondió en una entrevista virtual para la librería el Sótano, en México, es un faro de las islas marítimas de Canadá del que se inspiró su hija para pintar lo que a la postre se volvió la portada de la novela.

Sobre la anécdota, la narración en primera persona nos cuenta la infancia de Elsa con la abuela y sobre todo cómo trabaja con seda de las arañas, así como su vida angustiante dentro del faro. Además, se nos narra las características de las viudas negras, la importancia de la seda que producen y cómo se ha empleado a través de la historia. A la serie de preguntas que le hice para el Sótano, Antolina me comentó que para redactar su novela se basó en datos científicos muy precisos. Por ejemplo, narra cómo empleando la tela araña se puede producir ropa, chalecos antibalas, hilos para paracaídas, siendo que la seda de araña es más resistente que el acero. Su novela se basa entonces en datos científicos e históricos muy rigurosos. Contó que, de hecho, durante la segunda guerra mundial y en Holanda, se dio este proyecto de trabajar con la seda de las viudas negras. Por lo que la obra de Antonlia se inscribe, por principio de cuentas, en una de las seis propuestas de Calvino.  Esta es, la de la Esatezza. Algo que el italiano explicó como “una obra bien definida y calculada, con imágenes nítidas, incisivas y memorables con un lenguaje muy preciso.” (Lezione Americane, Sei proposte per il prossimo millenio, Oscar Mondadori, 1993, pág.65) Todo lo cual concuerda con el estilo de la novela y el objetivo que se ha dado la autora de buscar en la ciencia, en la exactitud, conciso de la palabra y la frase el modo de hacer novelas. Leemos de este modo:

“Con la Nephila era distinto. Su seda era tan delgada que tenía primero que ser hilvanada junto a otras fibras: torciéndolas juntas para crear el espesor adecuado. El olor de la seda se pegaba a mis dedos. (59)”

“La seda de las arañas es un líquido que, al entrar en contacto con el aire, cobra la consistencia de un filamento. (82)”

La minuciosidad con la que se describe el trato a la seda, la descripción con paciencia del método y la precisión científica, y no lo general, develan el arte de la exactitud de la información, la limpieza narrativa y lo preciso de las palabras. Todo lo cual nos demuestra la necesidad de la autora de buscar la precisión y por lo mismo la de extraer ese líquido de información de todo el componente informativo con el que somos invadidos por el mundo digital y televisivo en nuestro mundo actual. Con ese líquido de la seda, Antolina confecciona el filamento de su novela. Es decir, la descripción de la confección de la seda para crear un objeto, dentro de la novela, es el reflejo del proceso de escritura del libro. Un espejo en donde la narradora conversa con la escritora y viceversa. Aún más, donde la trama de la novela devela el proceso mismo de escritura de la autora y sus deseos de hacer de las letras un objeto que resista, como la seda araña, al acoso exterior, a la violencia en México y a otros elementos antagónicos en el mundo.

“La fibra de araña se fue haciendo más resistente: una proteína compleja que absorbía el caos y el mundo, sin romperse” (51).

Con ello, y como leemos en la cita, Antolina se acerca a otra noción de Calvino y esta es la de la: Legerezza. La legerezza para el italiano es el arte de narrar un drama, la complejidad de nuestros mundos contemporáneos o incluso la muerte, bajo la ligereza de las imágenes escogidas para contar la historia, “Souplesse” del lenguaje y el modo de abordar el tema. Como ejemplo, Calvino nos recuerda el mito de Perseo en donde, gracias a lo ligero del vuelo del Pegaso, el héroe puede volar y hacer piedra por medio de la cabeza de la medusa al Kraken. La sangre misma de la Gorgona, ligera, se vuelve el caballo alado.

De la misma forma, Antolina, por medio de la historia de Elsa, quien trabaja día y noche con la seda, le quita con la imagen de lo ligero de la tela la pesadez narrativa al horror de la segunda guerra mundial, al “caos y al mundo.” Al mismo tiempo, para lograr la ligereza, como en el caso de la historia de Perseo y la Medusa, la historia de Elsa nos remite al mito: la jovencita encerrada en una torre como Rapunzel, como la jovencita que vive, oye a las viudas negras y se convierte en una. Como Aracne, quien, según Ovidio en sus metamorfosis, Libro VI, 21-159, siendo una gran tejedora de tapices se consideró la mejor en su arte incluso mejor que Minerva, por lo que la diosa, airada, convertida en anciana, la desafió a un duelo para ver quien hacía la imagen más hermosa. Aracne creó las imágenes de las vejaciones cometidas por los dioses contra los mortales, como el robo y violación de Europa cometido por Júpiter. Minerva tejió la imagen de los dioses Marte, Júpiter y Neptuno y su poder sobre la tierra, así como el castigo a todos aquellos que se han medido o insultado a las deidades (76-105). Al ver que efectivamente la imagen tejida por Aracne era más bella que la suya, y sobre todo al notar la acusación a los dioses con el tejido, la diosa de la sabiduría y las artes convirtió a Aracne en araña, origen del insecto que conocemos. De esta suerte, Elsa es Aracne condenada a tejer objetos por la Alemania nazi y Antolina, como espejo de su personaje, tejerá de por vida novelas, al haber vivido la violencia y sigue viéndola desde lejos. El mito remplaza a la historia oficial como modo de contar el pasado o las memorias del pasado. De esta forma, el peso del caos de la guerra es sostenido por la ligereza de la mitología en la vida de Elsa, de las arañas y de sus funciones. En este sentido, todo el fardo de la historia, de las masacres, de Auschwitz, de los bombardeos, de lo incontrolable, es sostenido por la imagen científica y fantástica de la tela de las viudas negras. La seda araña es manufacturada precisamente como resistencia a la violencia, como chaleco antibalas, como hilo para salvar a los paracaidistas y como ropa.

“Experimentamos con seda de Nephila y otras fibras naturales plásticas, como el nailon, que entonces era una novedad y también era resistente a la humedad. Buscamos la mayor ligereza para garantizar un descenso estable a los paracaidistas” (84)

“Las telarañas de la Nephila son cinco veces más resistentes que el acero.”  (64)

Mas, como toda tela de araña, en su ligereza, puede ser a la vez sitio de muerte, de espera a la violencia de la muerte, la seda araña puede ser y es la violencia misma.

“La maraña de cuerdas de su paracaídas fue una telaraña. Se torció. La tela lo cubrió. Lo seguí observando. El paracaídas se sumió con él en el océano.” (97)

“Lo vi flotar completamente relajado desde los binoculares. Vi como las balas los perforaron. Creo que no sintió la muerte tan de prisa que llegó.” (98)

Observamos en estas citas que los disparos, muerte y desaparición en el mar del soldado, son representados con lo ligero del vuelo, de los hechos vistos desde la distancia, es decir por la mediación de los binoculares, lo ligero del aire que hace descender despacio al militar, lo ligero del agua que porta el cadáver. En este sentido, la ligereza es tanto la mediación para observar la violencia, como la manera de describir el asesinato y luego la suerte del cuerpo. Lo que nos remite al hecho de que, en nuestro milenio, podemos ver una guerra en vivo, por medio de la televisión, las redes sociales o noticieros en el Web. Nunca como ahora tenemos la capacidad de ver la muerte de alguien, su asesinato en vivo o en retrospectiva por medio de las cámaras de uso común o de los teléfonos móviles. Medios que ya no son propiedad o de uso exclusivo de un medio de comunicación oficial de algún gobierno o de una compañía de difusión privada. Ver la muerte a través de los binoculares es como verla desde un IPhone, desde la seguridad del encierro, de nuestro faro. Nos volvemos testigos de la historia desde el aislamiento. Con ello la seda araña es un modo narrativo que evidencia el proceso y modalidad subjetiva y personal de concebir la historia, aunado al hecho de que la historia se lee y se observa, ahora, en una era digital.

“La telaraña que tejieron los alemanes se hilvanó ese otoño como un error en el tiempo (…)” Nos atrajo el rocío de su tela, como joyas, como algo imposible, pero deseado. Un orden que pudiera acabar con el caos y que pudiera dar sentido a todo: una formación de moléculas, una armonía de voces.” (65)

Como leemos en la cita, la telaraña es una metonimia que aligera y sintetiza. La tela encierra toda la filosofía de la razón en la historia, según Hegel, las promesas de un futuro redentor, que necesitaba de actos y hechos para realizarse, tal y como lo ofreció Hitler. Discursos y actos que dieron cabida a que el tercer Reich llegara al poder y más aún que legitimara todas las atrocidades que cometió. Vemos así que la narradora en primera persona emplea no sólo la metonomia como una función de ligereza y ahorro narrativo que da rapidez al discurso, como la necesidad de ir rápido y sintético en la era Facebook, sino, aún más importante, refleja la subjetividad en la concepción de la historia.

En este sentido, como lo menciona Sören Kierkegaard en Postcriptum aux miettes philosophiques, la objetividad en la historia, la que pensó Hegel, con la cual se afirma una razón en la historia con un fin determinado, es un sistema sin ética que busca un fin por todos los medios. La subjetividad es la manera de ver esa historia como algo en devenir constante, afirma el filósofo danés, es decir, que se hace y deshace constantemente, fruto de la subjetividad de quienes escriben o piensan la historia. La historia no es algo fijo ni determinado que va a alguna parte y a un fin, es algo que concebimos y esa concepción cambia con el tiempo, es decir no existe el fin determinado, porque la historia se entiende, se piensa y se escribe desde la subjetividad y el contexto de quien la concibe, además de que la historia es infinita. Por ello, la imagen de la seda para entender la historia es tan relevante. La tela de araña no es buena o mala, no es sólo vida o muerte, es las dos cosas, como la historia, dependiendo del uso que le demos. Y esa historia, como la seda, la podemos hacer y volver hacer cada vez que se deshace, la podemos emplear para nuestro uso y beneficio, como defensa y arma de ataque. Kierkegaard escribe:

Le savoir historique est une illusion de sens. Rien d’historique ne peut devenir absolument certain ( Gallimard, París, 1990, 81).

La idea de la historia y el modo cómo se concibe es fruto del pensamiento de un cierto período del tiempo, de una época y filosofía en boga, por lo cual el concepto de historia surge de un pensamiento subjetivo, el cual cambia de perspectiva con el tiempo, con los siglos, las épocas. La historia no es, nos enseñan cómo es y cómo entenderla en un cierto tiempo. Vemos así en la novela que la narradora asemeja y vincula esa subjetividad a las moléculas y a los átomos. Con ello, el monólogo de Elsa muestra una noción de historia de nuestro milenio: la fractura de la historia, el que cada ser, como átomo y molécula autónomo mas dentro de un cuerpo, crea la historia o lee una versión diferente de la historia en las redes sociales, en Facebook o Youtube. No se ve certidumbre en el futuro. Nosotros tejemos la historia al infinito, de mil modos distintos, como infinitos son los átomos y las moléculas, esperando salvarnos en el tiempo con la tela que tejemos y no ser víctimas de la misma, como Penélope tejía un barco para eludir el matrimonio con sus detractores y en espera de Ulises. Antolina no espera a nadie, pero sí teje historias para conservar la vida, luego del trauma vivido en México.

Lo hace con rapidez, como rápidas son las arañas cuando tejen. Por rapidez infiero lo corto de las frases, lo corto de los capítulos, párrafos, como la novela misma. Antolina evita las didascalias, las grandes descripciones, la narrativa totalitaria. Así, su novela refleja otro postulado de Calvino para la novela de nuestro milenio, precisamente el de la rapidez. Una rapidez necesaria en nuestro mundo del software, de la rapidez de la información, del modo de comunicar, de los medios de transporte mismos. La literatura se adapta a la tecnología y al modo de vivir de nuestras sociedades. En una conversación por teléfono me comentó precisamente que: “escribo con un lenguaje depurado, de la escuela de Juan Rulfo, con la frase exacta, precisa y al punto.”

“Algunos insectos intentaron escapar. Algunos se dejaron matar sin resistencia. La trampa era perfecta. Los observé con ganas de huir de aquel lugar, pero sin poder dejar de ver las telarañas. La resistencia fue inútil. Aún así siguieron peleando” (146)

En el encierro, con el trabajo constante en el tejemaneje de la seda, Elsa acaba por oír a las arañas, conversar con ellas y convertirse en una, como Gregorio se volvió insecto en la metamorfosis de Kafka. Se da así lo que Gilles Deleuze en su libro Kafka pour une littérature mineure (Flammarion 1975) denomina como: “devenir animal”, “une ligne de fuite.” (63) Esto es, volverse animal, como huida de una situación adversa, en este caso la segunda guerra mundial. Se trata de una metamorfosis en donde el ser humano territorializa el espacio del animal para encontrar medios de salida, de sobrevivencia, “des moyens de fuite auxquels l’homme n’aurait jamais pensé” (64). Volverse araña es poder esconderse de los bombardeos en un resquicio del faro, poder vivir en la oscuridad, poder observar con muchos ojos el mundo circunvecino como modo de prevenir el peligro. Volverse araña es tejer historias, hacer un nido en el faro. Como en el caso de Antolina hace un nido en el faro de Montreal. La metamorfosis es una huida y una manera de ir más allá de los límites corporales. Es así como, nos dice Deleuze, se da una desterritorialización del ser humano para territorializar el reino animal, hacerlo suyo, como modo de entender de otra manera el mundo y a nosotros mismos. Asistimos a la escritura de lo mágico y lo onírico. A mi pregunta de si su novela se inscribía en la temática del realismo mágico de América Latina, Antolina me contestó que no. De hecho, para la autora:

“A veces los límites entre la cordura y la locura no me son tan evidentes. La imaginación es ese espacio entre la una y la otra. Yo idolatro ese espacio de imaginación que me parece mágico y subvaluado por nuestra sociedad. La imaginación, lo onírico, son espacios “válidos” donde podemos indagar en la locura sin perdernos en ella.”

De este modo, el elemento mágico en Seda Araña lo podemos vincular a lo que Ítalo Calvino denominó en su quinta propuesta como: la visibilitá, esto es, el hacer visible la imaginación a través de lo fantástico. Se trata de hacer visual lo imaginado. El italiano lo explica de este modo:

“L’osservazione diretta del mondo reale, la trasfigurazione fantasmatica e onirica, il mondo figurativo trasmesso dalla cultura ai suoi vari nivelli, e un processo d’astrazione, condensazione e interiorizzazione dell’esperienza sensibile, d’importanza decisiva tanto nella visualizzazione quanto nella verbalizzazione del pensiero” (106)

Por lo que, para este milenio, el nivel onírico, lo fantástico, como lo dice Antolina, es una representación de la imaginación y sueño que nace de ella misma, en esa frontera entre la locura y la razón, como medio necesario, precisamente frente al miedo que vivió en México y más que nada para narrar su sensibilidad. La imaginación y lo fantástico es el medio de sobrepasar los hechos adversos y fatales. Como hizo Cervantes en don Quijote, o Kafka en todos sus libros.  Volverse animal, los sueños de su personaje son su salvación, la línea que no puede ser alcanzada, la seda que se teje en múltiples direcciones y cuando se deshace se puede volver a tejer. Antolina como Elsa se puede volver viuda negra pero no permanece como tal, es un devenir transitorio, por lo que puede tomar otras formas, y de esa manera no puede ser atrapada, usado en un laboratorio, pero sí se protege:

“Tejes como nosotras”, dijeron las arañas, “pero no eres una de nosotras. El vestido de envuelve en nuestra tela (…) (172).

“Las balas no traspasaron la seda araña. Caí de rodillas junto a la prenda. Las balas no la habían penetrado.” 173.  

La imaginación desde lo onírico, al margen de la locura, es un medio de partir desde la subjetividad del ser. Lo onírico es el poder que se da a la imaginación en el mundo del mercado liberal, la locura y la creación son el medio de salvación de nuestra sicosis, lo cual nace desde la sensibilidad de la autora. Modo de resistencia pacífica, modo de mostrar otra experiencia, nueva, que no pueda ser metida en un frasco, más bien nos atrapa en su telaraña: la del poder de la imaginación. Una imaginación que se expresa en una multiplicidad de modos, sexta propuesta de Calvino, por medio del texto científico, la narración de la historia, el monólogo, la locura. Tácticas narrativas con las que el libro intenta contar el mundo, sin la arbitrariedad de un solo discurso, modo que se acopla a la variedad y fragmentación de discursos que vivimos ahora, provenientes de diversos tipos de pensamiento y no ya de una sola ideología, filosofía o utopía política. La imaginación es lo que da coherencia al caos mundo, la que ordena el caos, lo teje y le da la forma que desea, lo vuelve su salvación y su defensa, se lo apropia, territorializa el caos, con lo mágico y lo sintético, la ciencia y la rapidez, la multiplicidad de modos de imaginar, tal como pensó Calvino podría ser la novela en nuestro Milenio.

 

Heureux qui comme Ulysse

Au coeur de la pandémie un ami poète nous envoie son chant.

 

Heureux qui comme Ulysse est rentré de voyage

sans répandre la peste autour de sa maison.

Heureux qui s’en revient d’Asie et ne propage

aucun virus, même au plus fort de la saison…

Heureux le croisiériste échappant au naufrage

sans subir des punaises les démangeaisons.

Heureux celui qui court librement sur la plage

et peut se déplacer sans donner de raisons.

Quand reverrai-je, hélas ! mon tout petit village,

ma campagne éloignée où nul ne se rend plus,

interdite d’accès, dans les herbes sauvages ?

Et quand reverrons-nous la Méditerranée

dont la fréquentation, à présent condamnée,

au citadin rappelle un paradis perdu ?

Chaunes