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A un giovane poeta,

„Briefe an einen jungen Dichter“

Jean-Charles Vegliante

Photo Mia Lecomte

 

 

 

Per cominciare a scrivere, se scrivere vuoi, devi leggere e leggere ancora, non solo poeti ma letteratura varia il più possibile, con una certa preferenza data a testi cosiddetti poetici. Poi, non devi mai sentirti in obbligo di niente, nemmeno di scrivere alcunché – tipo: cascasse il cielo, tre pagine al giorno –, se non ti credi spinto quasi tuo malgrado all’atto temerario di scrivere. Ogni vera scrittura è necessaria, e a rischio. Deve perciò servire a qualcosa – o perlomeno a qualcuno (il famoso “almeno un lettore”). Questa sarebbe la cornice o gabbia, per così dire etica, del tuo futuro mestiere.

Non ti lasciare irretire da pezzulli creduti à la mode come:

Vivi ora, fallo subito, la vita è breve. Vissima. Sima. Ed è subito pera. Avvocato accoltellato alla gola dalla ex compagna; è morto. Spreco di cibo, gravissimi due centauri. Per vivere col sorriso la stagione del foliage. Il sindaco di Sant’Agata parla di “rammarico per quanto avvenuto”. Rumori di fondo, sciame elettronico. E quando ci lascerà questo brusìo insensato e noioso? Mellie Pinco, selfie sexy su Instagram in lingerie nera e tacchi: l’ex modella stupisce e fa subito il pieno di like. Niente di personale, sia chiaro, a me sta a cuore il futuro del paese se prima di morire lascia un milione di euro al comune. Il giovane ha cercato di avere rapporti con un cumulo di foglie secche cadute in strada: arrestato. Ovviamente lo scatto è stato fatto in modo tale da non mostrare le intimità né della madre e né del figlio. Per me sei incommensurabile detto ciò. Posa nuda a 46 anni: lieve ischemia. Il codolo è la parte terminale di una lama andata molto storto se la soluzione è di tenere un coltello alla gola. Sono single e felice ma voglio innamorarmi. Ne ho il sacrosanto diritto oddio. Resta impigliata al cancello di casa: muore a 18 anni. Totalmente WTH cioè.

In tempi di Internet e di social, diffida innanzitutto dell’allusività, dei sottintesi, del “va da sé” fra amici (anzi friends). Pensa che molti interventi commenti accidenti hanno là una durata di vita molto breve, e dopo due o tre mesi non vengono più compresi da chi volesse (per caso) ancora leggerli – ma perché, mi chiedo? – Tu devi scrivere come se fossi convinto di diventare, bene o male, un classico; un classico moderno, s’intende, o addirittura ipercontemporaneo. Ossia uno che, al momento della stesura, si sia posto “en avant” (Rimbaud). Vale a dire: rivolto a lettori possibili, “a venire” (Fortini), sempre e ovunque. E magari pure in quanto autore postumo, non importa.

Diffida pure di quelle sensazioni che ti saranno parse sicuramente profonde e poetiche, ma diventate incomprensibili addirittura a te stesso, dopo un certo intervallo. Così alcuni brandelli di frasi o quasi versi regalati nel sonno o dormiveglia, deludenti quando non siano già cancellati al risveglio. Come: Dammi forte la mano per entrare nel bosco. Brivido del crepuscolo. Mi stimolava osservare il modo bizzarro in cui alla luce del sole si aggregava la polvere, nei posti meno prevedibili poi. Il pomeriggio opprime chi è nell’attesa di un qualche evento. Vagava il pensiero del nulla per conto suo, mentre ero circondato dal ronzio di molte mosche, invisibili fuori della finestra, fuse nell’aria. La luna dicotoma lucentissima quasi posata sul tetto richiamava il profilo di lei, impenetrabile e pregno di un’indefinibile rancore, provocandogli uno strazio quasi doloroso. E se fosse partita Penelope? Un’angustia da cui non usciva se non precipitando di colpo in un sonno greve, serrato come una canna di pozzo. Come galleria profonda di talpe timide. E musica sommersa calamitata dalla gravità intorno. Ballavamo lentamente, appiccicati aaah.

Dire quell’alba era indimenticabile non basta; tanto, nessuno l’avrà vista come te. Ma pure l’alba di albedine (allitterazione + figura etimologica e quasi dittologia) sarebbe insufficiente a fare di un vago “poetico” poesia. Questa è in genere restia ai sentimenti. Anzi, rifugge dalle emozioni (T.S. Eliot), senza negare pertanto che “senza emozione non si dà poesia” (Max Jacob). La poesia è di per sé paradossale. Perché dovrei subire quegli ombelichi infossati fra onde sovrapposte di ciccia – eppur denudati – solo in omaggio (pregiudiziale) alla moda dell’anno? Così come il “so romantic”, neanche l’invettiva di per sé fa poesia. E nemmeno l’apparentemente “semplice” quotidianità (Andreas Becker insegna: “Parole come bigodini, come mollette, parole come popolari”). L’antica definizione di Dante non contemplava niente di tale (bensì: invenzione – la fictio –, costrutto con retorica, musicalità) e insisteva sull’unità o sintesi dell’insieme (il poiein, alla fine, quale atto, azione compiuta). La stessa invenzione assoluta è merce rara, si trova sì e no una volta ogni secolo (Rimbaud), e si limita sovente al riciclaggio di buon livello, ossia a riletture e riscritture continue (di qui la necessità di leggere, affermata d’acchito e da ribadire ancora, senza limiti). Non è da escludere l’esercizio antico dell’imitazione, delle “à la manière de”, dei “pastiches” (Proust). Il tutto complicato, all’occorrenza, dall’adozione di una determinata gabbia metrica – poi da distruggere tranquillamente se si vuole scorrazzare liberi per altre spiagge. Alla fine, cancellare tutto ciò che vien detto “romantic” dagli amici anglosassoni. Conservare l’osso.   

Ma allora, tanto vale affidarsi agli algoritmi poetici, poco inclini alla sentimentalità, come in effetti pretendono alcuni brillanti teorici attuali? Occhio però alle conseguenze, anche immediate. Se l’I. A. consente di pensare ormai per così dire “umanamente” – o “razionalmente” in senso lato –, prevedendo all’istante la parola che stai per scrivere (ad es. se cominci a digitare spia- ti si propone spiaggia, o spiare, o spiazzato; mentre volevi scrivere magari spiaccia o spiallato, meno prevedibili) col pericolo di farti perdere il filo della tua propria, esitante espressione… Ma l’I. A. ti può anche, in altre forme programmate, offrire una bella figurina illustrativa: come un tramonto sulla città se hai digitato sera; ma tu, quasi come Rimbaud diceva dell’alba, volevi tentare “la sera mi bacia con lenta tenerezza”, magari senza ombra di abitazioni umane in giro, o addirittura invece in un vano vuoto nudo e chiuso, in una stanza, chissà. Chissà. I risultati suggeriti dall’I. A. potrebbero impoverire presto, anziché arricchire l’espressione, rendendola “spontaneamente” sempre più conforme a quanto passa il convento: ossia la doxa comune. E difatti, il linguaggio che si orecchia in giro, o si legge in rete è via via sempre più scontato, stereotipo, prevedibile appunto dall’I. A. (o viceversa?)… Abbiamo già in noi tale tendenza all’espressione invalsa, alle visuali banali, non aggiungiamo acqua fredda all’acqua calda – o pulci al mercatino.

Il poetico può essere sì, tra le sue cento o mille definizioni possibili comunque insufficienti, proprio “imprevedibile” – come del resto è sempre stata la semantica profonda di un discorso umano, al di là della mera lettura semiotica invalsa verso la fine del Novecento. In questo campo, le scienze cognitive, velocissime e in costante progressione, hanno ancora parecchio da fare. Sia pure, come sembra acquisito ormai, aggiungendo un granello di “fantasia” o meglio forse di azzardo (ché “fantasia prevedibile” mi sembra un ossimoro strambo) agli algoritmi. E, come di fatto dicono, cominciano a programmarlo. Ce la faranno? Potrebbe essere una pura illusione sia la “razionalità” della metafora informatica, sia il suo potere creativo; e una truffa la pretesa maggiore libertà dei social media (in parole povere, ampiamente monitorati come tutti sappiamo). Torniamo anzi al lapis, alla biro, al gessetto – non sempre magari, ma ogni tanto utili – appunto per migliorare le nostre capacità cognitive: questo, soprattutto per i più giovani (e fin da piccoli) non è affatto uno scherzo. Né un nostalgico appello ai “bei tempi passati”. Ma una misura preventiva minimalista per non incrementare il cretinismo e la dimenticanza spaventosa che incombono su di noi in ogni regione del mondo unificato. Sconsigliabile invece la penna d’oca, per ovvi motivi di praticità ed ecologia (lo stesso s’intenda della pergamena). Il ritmo e la forma sono dati anche dalla mano scrivente, polso e dita, e battere sui tasti o premere pulsanti non basta a sviluppare né il pensiero né l’espressione, né tantomeno la varietà visiva, spaziale dei testi prodotti (non stiamo parlando solo di calligrafia).

Codicillo, tornando all’indispensabile pratica della lettura: da privilegiare, anche lì, testi non pre-digeriti dai filtri elettronici, ma possibilmente integri e meglio se cartacei. La dispersione del “cerca trova” ipertestuale distrugge la qualità primaria di ogni discorso umano “naturale” (ossia, va da sé, culturale): la sua coerenza e dinamica interna, e il suo rapporto globale, non frammentato, con un insieme complesso quanto indefinito di altri discorsi prodotti prima e dopo di esso. Capillarità del sangue vivo, non pulverulenza accumulata dal big data. Insomma, prova a leggere opere complete, inserendole ma a modo tuo e con le tue capacità cognitive proprie nell’arcitesto che via via andrai costruendoti. Nessuno, né maestro né strumentazione artificiale, potrà mai farlo al posto tuo e con economia di sinapsi neuronali tue. Purtroppo sì, ci vuole tempo, ma è il tempo medesimo del testo, il suo spazio-tempo letterario: e non abbiamo altro. Amen(te). 

 

 

Quʼest-ce que jouer ?

«Lettre à une jeune actrice avant son examen»

Serge Ouaknine en nous envoyant sa “Lettre a une jeune actrice avant son examen” nous a écrit ceci:

J’ai écrit le texte ci-dessous il y a une vingtaine d’années à Montréal dans un blog de théâtre… je répondais à une jeune actrice qui demandait conseil avant son examen. 
Quelques années plus tard Catherine Cyr mon assistante prit l’initiative de l’envoyer à la Revue Jeu de Montréal qui l’a publié.
(…) Je ne sais s’il a bien vieilli et s’il peut toucher encore un artiste contemporain…

Nous avons décidé que sa lettre touche encore, la voici:

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Dessin de L.Tassinari

La fiction doit l’emporter sur la didactique. Brûlure de toujours… Double visage de lʼartiste de dire et de laisser parler… Il faut faire avec ses démons…

Ce qui est important pour vous, c’est de savoir « nuancer » votre jeu par des ruptures claires et parfois abruptes. Quand et où la voix est très rageuse et quand se perd-elle dans une fluide nostalgie (dans la même phrase). Ne montez pas la voix à la fin des phrases, défaut des débutants. Ne criez pas les mots « importants ». La vérité est un énoncé du silence.

Dites à contresens, à contre-courant, les mots que vous croyez importants. La vérité est un paradoxe, pas une thèse… quand elle tombe dans le grave et puis le silence et puis quand elle s’accélère.

Ce qu’on doit croire, c’est vous, pas les mots. Jouez vite, furtivement, pour effacer le sens des mots qui est déjà là, dans le texte. Mettez l’accent sur un détail du corps. Un détail. Ne vous agitez pas. Faites rire et pleurer en même temps une phrase. Le théâtre est le lieu où se répare un deuil, où se confirme un ressentiment de dépossédé ou lʼurgence dʼun désir… Soyez « vulgaire » ou détrônée, mais avec élégance.

Ne cherchez pas l’intelligence, c’est le rôle de l’auteur pas le vôtre. Vous devez demeurer musique et vibration des organes… Seules de bonnes ruptures de jeu font entendre la continuité du personnage… Le jeu est une « démesure », un excès non télévisuel, une amplitude qui doit émouvoir le ciel. Soyez droite et souple…

Regardez loin et parfois faites sentir que c’est à vous-même que vous parlez, comme une confession intime, et, dʼautres fois, que c’est une adresse à la salle entière, simple métaphore de l’humanité entière…

 Les mots sont une danse, une rage ou une prière… et parfois une déclaration d’amour. Toutes les déclarations d’amour ne sont pas des prières mais des appels et des revendications terribles et parfois des soupirs de honte.

Cherchez le héros chevaleresque et impatient et en même temps le vaincu errant et qui accepte la défaite… On ne fait pas deux fois le même cadeau. Aussi, ne vous enfermez pas dans la monotonie du grand flux où vous croyez vous fondre en votre personnage. Même les litanies ont des nuances et des stances qui altèrent le cours du réel.

Ne comptez pas sur votre « partenaire » mais sur ce que vous lui offrez. Certes, un bon partenaire participe de la poésie de la rencontre, mais dites-vous que vous êtes le timon du poème à lʼécoute du vent. Et que parfois vous êtes le vent, briseur de cargaison…

Une chose est certaine, l’art a une fonction « réparatrice » si c’est le langage qui est honoré. Je dis réparatrice et non thérapeutique. Notre époque confond tout. La réparation concerne le monde. La thérapie concerne le moi seulement. Si ces phrases dont vous êtes lʼambassadrice sont la nécessité du poète, il faut les laisser aller à leur vide naturel par une vacuité intérieure. Votre absence aussi est féconde, une absence attentive – car elle exprime un état du monde, l’heure juste d’une vie.

Lʼart n’est pas moral. Il faut savoir dire « non » par le rôle, dans la situation, mais pas à votre partenaire à qui vous adressez en permanence un « oui ». Un « oui » inaudible. Vous nʼêtes pas le personnage mais son hôte salvateur, son avocat, partie prenante et lointaine en même temps. Cʼest cette distance bienfaisante qui permet le flux du vrai.

Dans un rôle, ce qui est « juste » se limite à un excès de rigueur, au pire à un excès de contrôle. Mais ce qui est « vrai », cʼest un abandon dont vous gardez la maîtrise. La maîtrise offre, le contrôle retient. Enfin la technologie est un pont ce n’est pas une finalité. Restez à l’écoute pudique et sensible de la violence du monde !

 Votre voix, cʼest votre tête qui descend vivre au ventre, cʼest votre sexe qui remonte en un déchirement aigu, c’est ce qui dénoue lʼamplitude pour le bonheur dʼun silence collectif. Et puis « rentrez le menton », chassez la voix de tête en tirant par la nuque vers le ciel pour laisser descendre ce Dieu qui illumine votre présence charnelle. Mais résistez toujours à la pesanteur, demeurez en tension, même avachie comme un clochard ivre…

Repoussez le sol et ne vous fondez pas à lui. Marchez comme un fantôme énergiquement lent. Comme un dragon qui veut vaincre et que lʼamour peut enivrer. Vos ancrages intimes doivent subvertir le rôle, casser lʼénonciation usuelle. Et parfois le texte vous ordonne dʼêtre un souffle lent et soutenu comme une agonie de lʼâme… une agonie sans cesse  recommencée…

Amitiés,

Serge Ouaknine

SPAESE MIO: Cronache dell’ora berlusconiana ovvero Note su una società in frantumi

Lamberto Tassinari

PREMESSA

Se io dirò alcune cose circa questi presenti costumi (tenendomi al generale) colla sincerità e libertà con cui ne potrebbe scrivere uno straniero, non dovrò esserne ripreso dagli italiani, perché non lo potranno imputare a odio o emulazione nazionale, e forse si stimerà che le cose nostre sieno più note a un italiano che non sono e non sarebbero a uno straniero, e finalmente se questi non dee risparmiare il nostro amor proprio con danno della verità, perché dovrò io parlare in cerimonia alla mia propria nazione, cioè quasi alla mia famiglia e a’ miei fratelli?

Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli Italiani.

Giacomo Leopardi, 1824

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A una società in frantumi si addice questo testo in frantumi, appena salvato dal naufragio del tempo. Avrebbe potuto essere un libro, un libretto, un pamphlet. All’epoca in cui cominciai a scriverlo, Giuseppe mi disse: “Questo devi finirlo e pubblicarlo”.

Ecco fatto.

[…] Il fatto vero è che è costume italico diffuso, magari al 50%, quello di fottere il prossimo, le istituzioni, il supermercato, l’INPS, l’INAIL, le ASL, giocherellare con l’ICI, con le assicurazioni, acquistare cose tarocche, percepire in nero che più nero non si può, non fare lo scontrino fiscale, la ricevuta, magari non fare la fila, farsi raccomandare, voto di scambio, separarsi per finta, prendere residenze fasulle, beccarsi contributi europei e via andando così. Mi piacerebbe che qualcuno scrivesse sulle tante piccole e grandi nefandezze pubbliche e private dell’italica gente, vera e propria casta di sòla [furbi, disonesti] non appena se ne offre l’occasione. Poi però tutti appassionatamente sosteniamo che la politica è fatta da emeriti sola. Perchè noi che siamo ? Ormai un sola al governo ci sta bene perchè rappresenta benissimo la repubblica dei  sola. (Da un forum di  La Repubblica)

A cui aggiungo:

L’Italia non è stata ridotta così da Berlusconi ma essendo ridotta così, ha prodotto e riconosciuto Berlusconi, necessariamente. Così il “berlusconismo” si identifica con l’essere italiano e ciò che dovrebbero combattere gli italiani è una parte di noi.

Assioma

Quanto grande si possa immaginare un caso di corruzione politica in un paese qualsiasi, è sempre possibile trovare in Italia un caso di corruzione maggiore.

Salvare l’Italia?

Tutto ciò che è pubblico è per gli italiani sgradevole: si va dal rifiuto totale, anarchico e selvaggio delle regole e degli ordinamenti pubblici, al fastidio e all’imbarazzo. Lo so che la cosa è risaputa ma vale la pena ripeterlo e non darlo per scontato perché si tratta di un’affermazione pesante dalle conseguenze drammatiche.

Inoltre: il capitalismo italiano, anomalo come tutti sanno, è stato da sempre neoliberista, o meglio neoliberal che è la denominazione del recente capitalismo d’assalto, spregiudicato, che appare alla metà degli anni 80 con la Thatcher e Regan e si afferma negli anni 90 su tutto il pianeta, quello arrogante che negli Stati Uniti ha partorito i neocons, Bush, Enron, il trionfo del privato e gli Sport Utility Vehicules .

Firenze, inizio del Ventunesimo secolo.

Nessuno di quelli che incontro in città sa che vivo da quasi trent’anni dall’altra parte dell’Atlantico. Non si vede nè si sente niente. L’aspetto, fisico-frenologico-vestimentale, è decisamente conforme al costume nazionale. Linguisticamente impeccabile, fornito anche della giusta inflessione dialettale, mi presento come un fiorentino o almeno come un toscano a tempo pieno. Solo che non lo sono e mi muovo per la città come un agente segreto che mai abbandona il terrore di essere smascherato. Questa, evidentemente, non è la mia prima missione. Nel corso delle dieci o quindici precedenti ho già raccolto molti documenti e prove che sarebbero certo sufficienti alla redazione del Saggio finale sullo stato presente dei costumi degli italiani. Solo che la raccolta dei dati in questo 2010 ha il vantaggio, ai fini della ricerca, di svolgersi all’apice dell’ora berlusconiana, nel momento penoso in cui l’incerta democrazia si è trasformata definitivamente in una solida videocrazia che ora sembra vicina al tracollo. Sembra. So, e qualche amico me lo ripete ogni tanto, che almeno uno su quattro degli italiani che incontro per la strada, ha votato Forza Italia nel 2001 e ora, nove anni dopo sono due su quattro quelli che sostengono il Partito della Libertà. Non mi sorprende che nel 2001 Berlusconi abbia avuto un tale successo perché tanti italiani non ne potevano più di quello che lui stesso aveva efficacemente definito il « teatrino della politica » : teatrino della chiacchiera e della retorica, del politichese nella forma e nella sostanza. E hanno votato per lui, alcuni prendendolo per un industriale serio, operoso e fortunato, diverso dai grigi e inconclusivi politici tra Dc e PCI, un a-politico che prometteva efficienza e modernità per l’azienda Italia. Altri, la maggioranza, prendendolo per quello che è, un imprenditore abile e spregiudicato, nato e cresciuto al culmine dell’affarismo craxiano. A loro, Berlusconi piaceva e piace così, per quello che era, per quello che dice e per come lo dice. Dopo tanti anni di governo è logico concludere che sia abilissimo nella comunicazione. Abilissimo almeno nel comunicare agli italiani, a oltre la metà di loro che devono necessariamente pensare come lui : la stessa volgarità, lo stesso «buon senso», lo stesso spirito, tutte qualità proprie dell’antica cultura contadina e della provincia italiana, ma trasformate, massacrate da mezzo secolo di consumismo e di televisione. Quello che all’inizio ha sedotto tanti  italiani sono state le convinzioni di capitalista liberista, di anticomunista, di arrogante affarista di successo, convinzioni che per loro erano sinonimo di «modernità». Ma se fino a qualche anno fa molti si illudevano che potesse cambiare le cose, oggi sono in meno a crederci e a capire invece che Berlusconi non ha trasformato né trasformerà l’Italia, non la trasformerà nemmeno in quello che gli riesce meglio, nel paese del perfetto mercato e dello spettacolo. Nemmeno in questo.

 

Io non riesco a seguire la scena politica di questi anni e degli ultimi mesi del 2010 con la rivolta di Fini…Confesso che non ho letto un solo quotidiano nelle mie ultime tre settimane di soggiorno e una sola volta ho guardato una di quelle trasmissioni insopportabili che tutti gli italiani prendono per «dibattiti». Dunque, se mi manca la conoscenza della cronaca ho visto e sentito abbastanza per concludere che molto probabilmente Berlusconi non finirà questa sua quarta legislatura. Anni fa Indro Montanelli era stato profetico: lasciatelo governare, ci penseranno gli italiani a scaricarlo. È quello che sta succedendo : i commercianti, bottegai e imprenditori che l’hanno votato sperando nella cuccagna si stanno accorgendo che questo affarista fa tutto per sé e il resto non sa fare. La destra, malgrado abbia molta più coscienza di classe della sinistra, dunque più coesione e intenzione, non riesce a far funzionare quello che ora chiamano il sistema Italia, semplicemente perché  non esiste nessun sistema.

Cammino per le strade, entro nei negozi e nei ristoranti, salgo su autobus e treni, parlo con gli italiani, incontro parenti e amici. E mi accorgo che gli italiani sono stanchi, delusi, tristi.

È vero che non hanno mai creduto alla politica, ai politici. Ma cinquant’anni fa la situazione era più semplice, la diagnosi a cui giungeva una buona parte di loro era il risultato di una visione cinica del mondo : i politici sono disonesti per definizione, stanno lì per il potere e per l’interesse personale, per mangiare alle spalle della gente. Oggi le cose sono molto più complesse : finita da vent’anni la politica dei due blocchi che tanto ha derminato gli equilibri politici, finita la crescita economica, in crisi il prestigio del «made in Italy», in crisi l’idea dell’unità territoriale e culturale del Paese, in crisi la lingua italiana destabilizzata dall’inglese, in crisi la solidarietà europea, in crisi la mai consolidata identità nazionale nel confronto con la recente e caotica ondata immigrante, in crisi anche il cinema italiano…

Molti se non tutti questi elementi di crisi sono comuni a altre società europee e occidentali ma il caso italiano è più grave e possiede una specificità che va indagata, va capita. Se è davvero possibile «salvare l’Italia» come pensa o spera Paul Ginsborg bisogna prima riuscire a capirla come si deve.

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Il solo vantaggio a parlare dell’Italia, a cercare di farne un ritratto è che si può fare con calma perché la modella non si muove, è completamente immobile. Possiamo alzarci, andare in bagno, farsi anche una doccia, uscire addirittura e tornare dopo un giorno o un anno o quando si vuole perché quando si tornerà si troverà che non si è mossa di un millimetro, perfettamente immobile, ci si accorgerà che niente, assolutamente niente è cambiato. Oggi, 28 luglio 2010 (due mesi prima del mio programmato soggiorno in Italia) riprendo a scrivere a tre anni dall’ultimo intervento in queste pagine effettuato diciotto mesi dopo la vittoria di Romano Prodi, dopo che Berlusconi era stato mandato a casa. Ora Berlusconi è ritornato già da quasi tre anni e effettivamente niente è cambiato. Non importa che questo personaggio sia ancora al potere o no perché Spaese mio non è un altro libro contro o su Berlusconi. Non è nemmeno un libro sul «carattere degli italiani» né sulla nostra identità nazionale anche se i due argomenti torneranno più volte. È un libro sul potere o meglio sugli italiani e il potere, su questa iperumanità che è la nostra, un’umanità senza «polis», senza comunità. Letteralmente una società in-civile. Però è vero : a far scattare il bisogno di scrivere è stato il secondo, vero arrivo di Silvio Berlusconi al potere. Ho voluto provare a capire perché quest’uomo è riuscito a imporsi agli italiani e soprattutto trovare le ragioni della sua permanenza al potere. Corollario di questo racconto è un’interrogazione sul ruolo e il senso della sinistra in Italia. Perché, chiedo, l’abbondanza, in questi ultimi sessant’anni, sia di «teoria e prassi di sinistra», di illuminanti interventi critici sulla società e la politica italiana come di esperienze e esperimenti sociali concreti, non ha impedito che la situazione precipitasse totalmente non solo a destra, a un punto di penosa drammaticità ? Sono stati pensati i giusti pensieri, scritti i buoni libri, sperimentate le giuste esperienze per capire e salvare l’Italia ? Questa è forse la questione che più ha fatto da molla e alla quale cercherò di rispondere anche se, a prima vista, sembra davvero troppo tardi, tanto che verrebbe voglia di lasciar perdere e di vivere ciascuno il proprio esilio ( esterno o interno, secondo i casi). Un pensiero, subito, a freddo sulla nostra sinistra, un tentativo di estrema sintesi: le straordinarie fortune della sinistra furono l’effetto dell’arretratezza economica e sociale dell’Italia. Il nostro sistema capitalistico si è sviluppato tardi e male: ossia non ha prodotto, per tante ragioni, quella socialità, quella relativa giustizia economica che altrove ha contentato e addormentato la gente. In un paese rimasto per secoli senza Stato, dominato da aristocrazie, élites e mafie, questa anomalia non poteva non produrre una compensazione. La sinistra è stata questa compensazione. Le fortune della sinistra, con la parentesi del fascismo (che ha compensato altrimenti, appunto con il nazionalismo sociale), sono durate dal 1890 al 1990, un secolo esatto. Con la fine dell’URSS ogni idea o meglio ideologia sociale è stata abbandonata e l’Italia è passata APERTAMENTE e FEROCEMENTE, dal comunismo astratto al consumismo concreto.

Tuttavia il sospetto o la speranza, è che l’Italia sia stata e rimanga, in qualche modo, sempre un modello. A qualcosa del genere alludeva Leopardi, a questo si riferiva esplicitamente Giulio Bollati quando, analizzando il «trasformismo», scriveva «  (…) che dietro quella parola infelice, introdotta dall’ ‘evoluzionista’ Depretis, si nascondeva qualcosa di importante (una nuova scoperta italiana?), ed era un’arte di governo capace di controllare in modo ‘dolce’ la violenza di un’età dominata da una schizofrenia crescente tra principi e interessi.  (…) Dove il trasformismo (che è violenza mascherata) fallisce, subentra la violenza aperta : la nostra breve storia nazionale è come un laboratorio sperimentale del procedimento. »  In effetti a trent’anni da quella diagnosi, al momento dello sfascio, la verità italiana  sembra ormai realizzarsi, in forme analoghe, nella gran parte degli stati democratici dell’Occidente. Ci riveliamo quasi come un modello o almeno come il «caso» capace di descrivere la putrefazione di una forma di governo, la democrazia parlamentare.

Vale dunque la pena continuare a parlare d’Italia.

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In Italia, le opinioni sono la merce più diffusa, e i primi a saperlo sono quelli che riempiono i nostri media. Quantità, ma anche qualità : perchè gli italiani colti, i produttori di letteratura e di informazione, hanno scritto e scrivono ancora bene. Spesso, scrivono troppo bene. La bravura che si ritrova nelle opere di saggistica e sulle pagine letterarie, di cultura e di opinione dei quotidiani e di certe riviste, cozza con la volgarità e la banalità del resto della comunicazione. Uno scarto che non ha pari in altre società, un contrasto che deve pur essere il sintomo di qualcosa di serio. Ogni volta che osservo la nostra abbondanza di stili e di belle forme, ripenso a Riccardo Felicioli  – sottile e lucido intellettuale d’azienda della linea Ottieri-Volponi, oggi scomparso –  il quale parlava spesso con perfida ironia delle  ‘belle penne’ nostrane. Decenni dopo, il flusso non si arresta. Nel 2004, in un’intervista concessa in occasione della celebrazione dei vent’anni dall’ultimo numero della rivista Quaderni piacentini (1961-1984), il fondatore e direttore Piergiorgio Bellocchio ha detto : « Forse in questi anni avrei potuto scrivere di più. Ma se anche molti altri avessero seguito il mio esempio, vivremmo meglio. Meno oberati da carta inutile. ». Perché allora non comincio io col tacere ?  Forse perchè in quei decenni io ho seguito il suo esempio e poi perché ora  mi propongo di scrivere poco e, mi auguro, diversamente.

Vorrei riuscire a portare una cosa sulla scena italiana, invece di parole ! Mai come ora sarebbe necessario dire : « Guardate questa cosa. È così ». E tutti vedrebbero. E invece, ho il sospetto che l’Italia non possa chiarirsi, né con le parole né con le cose. Che non possa risolversi che sparendo : nell’Europa, forse (in moltissimi l’hanno sperato). Ma il paese, mi dico poi, che fu definito un’espressione geografica, oppone una resistenza, giustamente geografica, oggettiva, al suo assorbimento in un corpo più vasto. La stessa natura peninsulare impedisce alle sue regioni di farsi assimilare da corpi sociali e politici vicini, il « mare nostrum » non lo consente. L’Italia si disfa, ma non sparisce. Allora, se è condannata a restare, proverò a raccontarlo questo Paese ostinato in un altro periodo drammatico della sua storia in cui, come in una vita, il momento di un tracollo sempre annunciato, infine arriva, i nodi finiscono tra i denti del pettine. Racconterò l’Italia facendo di tutto per portare uno sguardo calmo e descrittivo, corsivo. Se non una cosa, uno sguardo da fuori, sull’Italia. Chi emigra, come ho fatto io, è costretto a guardare e seguire l’Italia da fuori. Se partendo si perde il polso del paese, si acquista però una nuova prospettiva riuscendo a vedere, spassionatamente, tutto il bosco. Nel Gange di scritti e di opinioni che l’Italia ha prodotto e produce su se stessa c’è certamente già quello che serve a capire, a interpretare questo paese strano. È un’antologia bizzarra, con una dozzina di autori in sette secoli di storia. È affascinante ma, infine, deprimente constatare come, malgrado da secoli si producano regolarmente, da parte di italiani, analisi e diagnosi acutissime sulla società italiana, nessun movimento politico se ne sia mai veramente servito rivendicandole o ispirandosene. Eppure, da Dante, Machiavelli, Gramsci fino a Agamben e il meteco Ginsborg, sono tanti gli scrittori  che avrebbero potuto animare e alimentare la rinascita civile e politica dell’Italia. E invece no, perché la nostra società è stata unanime nel rispetto rigoroso della separazione dei generi e delle competenze o delle corporazioni ! Dunque anche se l’assassinato Pasolini e l’ostracizzato Sciascia e qualche altro hanno genialmente fuso letteratura e politica, i politici di professione, i dirigenti industriali, i leader d’opinione, i media, insomma la «razza padrona», sono riusciti a vanificare ogni tentativo di trasformazione, di rivoluzione culturale, contribuendo infine a mantenere la società civile fondamentalmente immutata. Io proverò a riaprire alcuni casi significativi, perché voglio cercar di capire le ragioni di questo nostro scialo di intelligenza e di cultura che riassumo nella questione : perché la cultura alta non ha mai alimentato la politica ?

Proverò a rispondere, leggendo testi emblematici di grandi e meno grandi eretici e protestanti, rivoluzionari, ma anche della stragrande maggioranza di coloro che scrivono libri e articoli, per tentare di scoprire perché niente e nessuno, malgrado la forza e la bellezza di tanti pensieri e gesti, sia mai riuscito a cambiare questo Paese.

Salvare l’Italia da se stessa

Gli italiani, oggi più ancora che nel passato, non riescono a ammettere collettivamente la gravità delle proprie condizioni, si illudono, si nascondono. Se uno straniero li giudica, la sua critica viene negata e imputata a malanimo, gelosia, complessi di chi attacca. Se è un altro italiano, allora la sua critica viene definita dura, ingenerosa e l’autore e l’opera, se possibile, ignorati. È successo a tanti, da Leopardi in poi e, negli anni 90, a Franco Ferrucci, scrittore che da decenni vive fuori d’Italia. Tra i suoi numerosi saggi e romanzi pubblicati da editori italiani, il più politico, quello che più acutamente affronta il soggetto delicato dell’anomalia italiana, Nuovo discorso sugli italiani (Rizzoli 1993) snobbato dalla critica e ignorato dal pubblico, è oggi scomparso dagli scaffali di tutte le librerie d’Italia. Parlerò più oltre di questo breve e assai fine saggio letterario-politico-antropologico che se fosse stato recensito come si deve e letto diffusamente, avrebbe credo lasciato il segno, contribuendo a avviare un dibattito serio nella società italiana. Ma i casi di rigetto di ogni parola critica che vada alla radice del male profondo e che rischi dunque di cambiare qualcosa, sono numerosissimi. Un esempio minimo ma significativo lo offre questa banale nota de Il Foglio del 26 maggio 2005 : L’appello di Ciampi alle forze politiche sulla crisi economica: “Bisogna affrontare questo ultimo anno della legislatura come se fosse il primo della nuova legislatura”, perché “non possiamo lasciar trascorrere dodici mesi senza agire con determinazione”, dice il capo dello Stato, “ne conseguirebbe un ulteriore deterioramento delle condizioni presenti”. Anche un passaggio duro nel discorso di Ciampi: “Quali siano le cose da fare è noto a tutti. Il problema è che non si fanno o si fanno stentatamente”.  

«Passaggio duro», capite ? Ma questo è il minimo che un presidente della Repubblica, come ogni persona intellettualmente onesta, possa dire sulle esitazioni e inconcludenze della politica italiana dal dopoguerra a oggi e un giornalista avrebbe semmai il dovere di rincarare la dose, abbandonando quella che a me sembra essere stata discrezione invece che durezza da parte del presidente della Repubblica.

Vista la tendenza dominante del mondo mediatico e culturale a bloccare tutto ciò che disturba, temo che il mio tentativo, e non solo per le deboli forze dell’autore, nutra poche speranze di smuovere qualcosa in Italia. Tuttavia l’indagine è così vitale e scrivere, per me, il solo modo di conoscere e di capire, che non posso rassegnarmi al silenzio. Come in natura, a rilievi presso specchi d’acqua corrispondono, sui fondali, depressioni di identiche dimensioni, così in Italia all’altezza di certi intelletti e sensibilità corrispondono abissi di trivialità e leggerezza. Il fenomeno è universale ma si tratta, appunto, di cogliere la specificità italiana. Io mi ci sono allenato vivendo fuori d’Italia già dai primissimi mesi del mio volontario esilio. Allora, per questi miei esercizi usavo quasi esclusivamente il quotidiano La Repubblica che già nei primi anni Ottanta del secolo scorso aveva cominciato a derapare verso un sempre crescente stile consumistico e sensazionalista, preparandosi a diventare il giornale televisivo, ambiguo, schizofrenico e schizogeno che è divenuto poi negli anni Novanta  e ora paradossalmente antiberlusconiano. Il caso di Repubblica è emblematico, poichè si trattava, agli inizi,  di un prodotto sano, di un medium laico, con idee sociali moderate ma lucide, progressiste come si diceva, con intenzioni e scelte programmatiche serie in politica e in cultura. Non se ne sospettava allora la vocazione commerciale e consumistico-populista che con gli anni ha preso il sopravvento senza eliminare appunto, e questo alibi è un aspetto della specifità italiana, una venatura di cultura alta e  de gauche, ma fondendola in un ibrido malinconico di vuoto e volgarità. Preceduta su questa via infelice dal settimanale L’EspressoLa Repubblica è diventata, ai miei occhi, lo specchio della degenerazione della società italiana in questi ultimi trent’anni. Tutto e tutti hanno lasciato scivolare questa società verso il profondo degrado attuale : solo singoli hanno profetizzato, parlato, e anche agito, ma senza esito.

Per la mia ricerca manderò una sonda nel passato a tre profondità : a diciotto anni, alla discesa in campo di Berlusconi; a una quarantina d’anni, intorno al 1975, quando fu ucciso Pier Paolo Pasolini; a duecento anni, quando Leopardi definì una volta per tutte l’Italia  e Manzoni l’ immaginò nazione; a quattrocento anni, al Seicento, l’epoca che più ci ha marcati e della quale produciamo collettivamente solo varianti.

Non vorrei scrivere un bel saggio. Vorrei che questo «sondaggio» avesse, se non la forza della scoperta, almeno quella dell’ onestà e della sincerità. Vorrei che fossero parole utili, liberatorie, contributo tanto umile quanto inadeguato alla conoscenza di sé, un esame del quale, come collettività, abbiamo un bisogno vitale. È per questo d’altronde che scrivo : perchè l’Italia, standoci, agisce su di me come una continua provocazione dolorosa. Standone fuori, come un oggetto di attrazione morbosa, insopportabile, che chiede di essere affrontato.

Dicembre 2010, all’indomani dall’ennesima affermazione di Berlusconi che alla Camera al Senato è riuscito a respingere la sfiducia contro il governo.

Zoom out : chi è Berlusconi ? Molti pensano, la quintessenza di noi italiani. Meglio, metafora del nostro degrado civile, culturale e politico. No, non solo della nostra parte peggiore. Questo lo dicono quegli antiberlusconiani ideologici che in fondo hanno assistito disgustati ma distratti alla sua resistibile ascesa, incapaci di contrastarlo perchè, in modo e misura che restano da determinare, condividevano più o meno incosciamente la sua cultura. Questa verità è stata detta da tanti, prima e dopo l’avvento di Berlusconi. Ma se qualche intellettuale e giornalista la può affermare in un saggio o su giornale, lo stesso non accade ai politici : né un partito né un movimento hanno mai preso atto davvero della profondità del nostro degrado. Del fatto che Berlusconi è chiaramente un punto d’arrivo nazionale, colui che, questo sì come Mussolini, ci ha svelati e compromessi tutti. Ciò che mi interessa non è tanto Silvio Berlusconi, il presidente del Consiglio su cui si scrive anche troppo, quanto le condizioni che l’hanno reso possibile. Mi intriga il berlusconismo ante litteram, quello sistemico che precede i berlusconi in carne e ossa. In quest’ ultima fase del declino, ripeto, non siamo precipitati con la sua comparsa sulla scena politica che è piuttosto il prodotto ultimo del deterioramento del clima etico-politico che la causa. Fenomeni formativi, strutturanti della società italiana del dopoguerra sono stati il calcio e la televisione che sono poi l’essenza della “politica” di Berlusconi. Il fatto stesso che Berlusconi sia riuscito all’inizio della sua avventura nel 1994 a mettere insieme apparentemente dal nulla e nello spazio di pochi mesi un partito come Forza Italia, dimostra che, questa volta, gli italiani erano già fatti!

Qui sta la tragedia, il berlusconismo da sconfiggere o meglio, da guarire, è quello che avendo preceduto Berlusconi, rischia di sopravvivergli. Di questo, ripeto, i nostri spigliati politici e intellettuali di sinistra che non sanno essere contro, che attaccano un Berlusconi che pare alle corde, non vogliono parlare, forse perchè sanno di aver iniziato tardi e male la resistenza. Perchè sanno, anche se non lo ammettono, di aver fatto poco o nulla negli anni ‘90 ai tempi dei governi dell’Ulivo quando la nuova sinistra era al governo.

Ma certo le responsabilità della sinistra vanno oltre quest’ultima fase della prima Repubblica e datano già dal primo dopoguerra: onestamente va ammesso che, al di là delle sigle d’origine, tutti i fatti – azioni, scelte, decisioni, comportamenti di singoli come di partiti – della nostra vita politica, prima di essere appunto di destra o di sinistra, sono espressione di una identica cultura, di una identica mentalità italiana. Ad esempio, quando si parla di trasformismo, fenomeno che tutti riconoscono come specificamente e tipicamente italiano, nessuno oserebbe affermare che riguardi solo la destra. Insomma se evidentemente negli ultimi sessant’anni in Italia sono state attuate, in certi periodi, dalla destra come dalla sinistra, politiche serie che hanno dato risultati socialmente positivi, queste politiche quanto riuscite fossero, sono state poi sempre negate e nullificate, come tutti abbiamo potuto constatare, da azioni sconsiderate e irrazionali dettate da logiche di gruppi, correnti o fazioni che poco o nulla avevano a che fare con idee di destra o di sinistra. Così, perchéle Regioni, la cui istituzione è stata sancita dalla Costituzione nel 1948, sono state attuate solo nel 1970? Si tratta di un ritardo di destra o di sinistra? Insomma, la verità è in questo caso evidente e forse è bene affermarla, accettarla e assumerla collettivamente e in modo ufficiale: in Italia i politici, di destra come di sinistra, sono stati incapaci di riformare a causa del fatto che la maggioranza degli italiani NON VUOLE CAMBIARE. Questa non è un’opinione qualunquista come si diceva una volta, è un dato tristemente obiettivo: i fatti sono sotto gli occhi di tutti, in libri, rapporti, articoli, discorsi, nero su bianco. Il bravo e volenteroso Paul Ginsborg storico dell’Italia di sempre, da generoso pedagogo com’è, si ostina a credere nei propri allievi vagabondi. Nel 1998 dava credito agli italiani e riteneva che « (…) non esisteva alcun handicap permanente che gravasse sulla storia recente del Paese.» (P.G., p.X), Dodici anni più tardi non ha cambiato opinione e scrive “Naturalmente non attribuisco a nessuno di essi [quattro grandi pericoli da cui l’Italia moderna deve essere tutelata] valore di tara, non li tratto come componenti irremovibili, ‘antropologiche’ o permanenti”. (P.G.Salviamo, p.85-86) Ma da dove nascono allora quelle che lui stesso individua come le più gravi «carenze strutturali» di cui soffre l’Italia se non da tare? Giacomo Leopardi lo sapeva già nel 1824 e così Giulio Bollati che nel 1972 ce lo ridice e lo ripete nel 1983 in quello splendido libro che è L’italiano

Berlusconi in campo

Nel 1994, all’arrivo di Silvio Berlusconi, la crisi politica e etica del Paese è già avanzatissima e l’uomo di Arcore non fa che spingerla verso il climax. La rilettura di un dibattito a tre voci fra Giancarlo Bosetti, Norberto Bobbio e Gianni Vattimo sulle sorti della Sinistra realizzato, a qualche mese dall’avvento di Berlusconi, dalla rivista Reset, ce ne offre una prova drammatica. La scelta di questo libriccino di Reset non è il risultato di una ricerca condotta secondo criteri scientifici, ma un puro caso. Avrei potuto trovare altri testi, forse anche più illuminanti, ma a me è capitato questo per le mani e da lì ora parto. D’altronde, una cosa è certa : da qualsiasi luogo del magma si affronti il caso Italia, con qualsiasi pre-testo, si arriva comunque alla medesima conclusione. Allora scrive Bosetti nell’introduzione…

[Qui il manoscritto si interrompe]

A quarant’anni di profondità

Dagli anni Settanta alla metà dei Novanta, il più acuto e onesto contributo a capire il caso italiano, a mio parere, è stato il saggio di Franco Ferrucci che, proprio per questo credo, è stato ignorato da tutti (…)

In Italia la Sinistra è stata un’esagerazione, dall’inizio alla fine. È stata una finzione nel senso che dice Bollati quando descrive un proletariato immaginato dalle avanguardie socialiste verso la fine dell’Ottocento in un paese che  non possedeva ancora le condizioni di capitalismo maturo, dunque in cui un proletariato ancora non esisteva.

I cosiddetti errori della sinistra appena considerati, quelli recentissimi, quanto gravi e penosi siano tuttavia non bastano a spiegare questo disastro: bisogna andare alle radici dell’Ulivo, della Quercia e di tutta la flora nata dalla putrefazione della sinistra storica. E di lì discendere senza esitazione fino al dopoguerra, poi agli inizi del secolo scorso e giù senza timore, fino al Risorgimento e oltre, fin dove il passato d’Italia serve a capire il presente. Lo so che “tutti lo sanno” ma non se ne prende atto collettivamente. Per farlo basterebbe tener conto di quello che sta scritto in comuni libri di storia e in molti saggi e articoli che rimangono confinati nelle biblioteche, sugli scaffali delle belle librerie, in una teoria e una coscienza astratte, riservate ad uso privato di intellettuali e lettori alieni dalla società.

Dopo Reset, continuerò a farmi guidare da altri libri perché sono convinto che tutto quello che serve a capire, è stato detto. Porterò queste idee e giudizi di tempi anche molto lontani sulla scena di oggi, certo che serviranno a comprendere almeno una parte dell’anomalia e dei misteri dell’Italia. Bisognerà soprattutto leggere alcuni scritti censurati, repressi, dimenticati o mal letti perché è in questi che si nasconde, credo, una chiave di lettura: rimettere in contesto intere pagine, interrogare tutto questo pensiero a scopo apertamente politico, non letterario o accademico. Da Dante e Machiavelli a Manzoni, Leopardi soprattutto, Ascoli fino a Gadda, Chiaromonte, Pasolini, Bollati e Sciascia e più tardi Bobbio, Sartori, Ferrucci, Agamben e Perniola. Non si tratta di comporre una bella antologia, ma di usare sincronicamente quegli scrittori che hanno l’Italia a cuore, tutti nostri contemporanei, per vedere come siamo arrivati a questo sfascio.

Con un’idea debole della Storia mi accingo dunque a evocare il passato scendendo a circa quarant’anni di profondità.

Nel 1972 è uscito da Einaudi L’italiano di Giulio Bollati.

Nel 1979, è uscito da Laterza un libro sull’Italia intitolato «Dal ’68 a oggi. Come siamo e come eravamo». Oggi rileggerlo fa l’effetto di una spietata e drammatica moviola.  Riflettere su quelle pagine in cui osservatori di professione e intellettuali reputati come Antonio Gambino, Giorgio Galli, Lucio Colletti, Tullio De Mauro e Giorgio Ruffolo, tentavano un bilancio degli anni 70, è un esercizio molto più utile che guardarsi le due puntate televisive della “Meglio gioventù” di Marco Tullio Giordana che molti in Italia salutarono come una coraggiosa presa di coscienza delle tragiche vicende di questi ultimi quarant’anni. Il passato è a portata di mano, è cronaca.

[Il manoscritto si interrompe ancora e da qui in poi appaiono solo brevi frammenti.]

(…) per gli italiani la patria è sempre stata ideale, e virtuale. Per quattordici secoli, dalla caduta dell’impero romano d’Occidente al 1861, l’Italia è stato un simbolo caricato di significati diversi ma comunque una cosa senza riscontro preciso nella realtà civile e politica. Il carattere simbolico destinava quest’idea a divenire patrimonio di tutti coloro, e erano pochi, che utilizzavano i simboli nel loro lavoro, gli artisti, in particolare i poeti e i musicisti. L’Italia è stata vissuta così, letterariamente, da una piccola minoranza di italiani appartenenti, dal Trecento in poi, ai ceti privilegiati.

Una patria comunque lontana : perduta nel tempo e poi, per le masse degli emigranti, lontana anche nello spazio. Perché questo è un altro dei tanti paradossi che si incontrano percorrendo la storia : nel momento in cui l’idea si è realizzata ossia, tra il 1861 e il 1870, quando l’Italia è diventata reale, proprio allora, per necessità o per scelta, la gente ha cominciato a partire.

(…) Il Seicento, vero Rinascimento italiano, è il secolo che ci ha formati.

Scrive Niccolò Machiavelli agli inizi del Cinquecento:

«Specchiatevi ne’ duelli e ne’ congressi de’pochi, quanto li Italiani sieno superiori con le forze, con la destrezza, con lo ingegno. Ma, come si viene alli eserciti, non compariscono (Il Principe, capitolo XXVI).

Ossia, intende Machiavelli, agli italiani non preme tutto ciò che è collettivo, sociale dunque, “non compariscono”.

(…) Vale la pena soffermarsi sugli osservatori stranieri dell’Italia :  dai classici, da Goethe a Lamartine, Suarez, alla Radcliffe (di cui parla Franco Ferrucci)

 (…) La cattiva gestazione risorgimentale, sulla scia di Leopardi, Manzoni, Gadda.

In un recente rapporto del CENSIS si trova scritto che l’Italia è un sistema «di popolo senza leadership e di leaders senza popolo». Sono d’accordo, ma da quando è così ? Io credo da sempre. Almeno da quando è stata compiuta la leopardiana «strage delle illusioni» : una strage, va detto che, come il miracolo dell’eucarestia si rinnova incessantemente  fuori dal tempo e le illusioni non fanno che morire.

Gli italiani, prima che aerei americani pilotati da musulmani addestrati negli Stati Uniti andassero a abbattersi sulle torri di Manhattan, erano convinti che tutto l’Occidente fosse come loro : edonista, consumista, cinico. Questa convinzione si è rivelata l’ennesima illusione, caduta la quale, gli italiani si sono trovati gli imbarazzati osservatori di un mondo di gente che crede. Loro che avevano fatto piazza pulita, o meglio loro che mai avevano collettivamente, come Nazione, accolto dei valori, una fede, insomma il Sacro, si sentono diversi, eternamente emarginati.

Siamo avanti perché indietro : è una perfetta verità. Ancora Giulio Bollati situa lo scollamento degli italiani dalla realtà all’inizio del Ventesimo secolo.               

(…) La questione della lingua: da Dante al similinglese.

Rammentare e tener presente la storia, le grandi linee degli avvenimenti marcanti – socio-economici, politici, militari – verificatisi nella penisola a partire dalla costituzione dei comuni intorno al mille. Importante è prestare attenzione alla nascita e ai modi dell’affermazione particolare della lingua volgare, il fiorentino. Come dicono Ascoli, Dionisotti e Vitale, la lingua di Firenze non conquista l’Italia ma è il resto dell’Italia a progressivamente derubare e impossessarsi, trasformandola, della lingua di Firenze. Come è noto la mancata affermazione politico-militare di una delle maggiori Signorie sul resto degli stati della penisola nel corso del Quattrocento, ha reso impossibile la nascita di una grande Capitale quale Parigi, Londra o Madrid per i rispettivi paesi, in grado di trasformare con la costituzione di uno Stato la lingua municipale in lingua nazionale. Senza considerare inoltre che già nel Quattrocento, con la ripresa umanistica del latino, l’evoluzione del volgare rallenta il ritmo. In seguito si affermerà, non come lingua parlata ma come lingua scritta e colta di un’infima minoranza di gente appartenente alle classi alte, aristocratici e borghesi. Il popolo è tagliato fuori: il disprezzo per la plebe è una costante nella cultura italiana. Si tratterà di verificare l’ipotesi secondo cui due momenti della storia d’Italia in cui il Potere si appoggia al popolo e – strategicamente, demagigicamente – accoglie questa spinta dal basso sono il Fascismo, momento nazionalista e populista, e la nascita di Forza Italia di Berlusconi come momento populista anch’esso ma televisivo e edonisticamente triviale.

Torniamo alla lingua e alla “questione della lingua” che occuperà le classi colte e dirigenti per oltre cinque secoli. Sottolineiamo che da Dante a Manzoni, nel trasferirsi della lingua letteraria all’uso comune dominerà sempre una preoccupazione estetica e letteraria invece che sociale, una preoccupazione ossia, per cui la lingua non è considerata strumento sociale ma retorico. Questa è la differenza radicale e drammatica del caso italiano rispetto alle altre grandi culture europee, la francese, l’inglese, la tedesca e anche la spagnola, questa la più vera e tragica manifestazione e causa precoce dell’anomalia italiana. Dunque alla base dell’esclusione sociale sta l’esclusione linguistica da cui discende l’imperfezione necessaria della democrazia italiana.

In secondo luogo, una volta rintracciate le cause profonde della disunità negli sconvolgimenti rinascimentali, con il consolidamento del dominio delle varie dinastie straniere e con il crescente peso esercitato dalla Chiesa a partire dalla Controriforma, va studiata in dettaglio l’evoluzione sociale e culturale, addirittura letteraria (tutto ciò che si scriveva e si faceva in Italia era “letteratura”)  , dell’Italia, dal Risorgimento fino all’arrivo della televisione e dell’inizio folgorante dell’omologazione diagnosticata da Pasolini che ha trasformato il paese agrario e antico nell’orrore consumista ora fatto proprio e  “valorizzato” da Berlusconi.

(…) sulla democrazia in Italia: con in mente Pasolini, Sciascia, Bollati, Bobbio, Sartori.

(…) Nel maggio 2006 dopo la sconfitta di strettissima misura Berlusconi è fuori dal governo ma non fuori dalla politica. In questo momento si manifesta lo scandalo del campionato di calcio – non si può dire scoppia perché gli intralazzi e gli illeciti erano da anni sotto gli occhi di tutti. Il calcio è quasi tutto in Italia. In quest’occasione il giornalismo italiano offre un’ennesima dimostrazione della sua cinica creatività pubblicitaria , una creatività che è una dote di tutta la nostra società ma che è posseduta al massimo grado da giornalisti e comunicatori. Alludo al genio nazionale che ci ha dato “tangentopoli” e “mani pulite” e ora ci allieta con “piedi puliti” e “la peggio juventus” due slogan raccolti sul Manifesto. In fondo ci potremmo risparmiare ogni commento sulla leggerezza e superficialità di questa cultura della battuta e ricitare l’affermazione di Leopardi secondo cui gli italiani sono cinici al punto di non credere nemmeno nel proprio cinismo, che di più non si può.

Ma accanto a questo cinismo ci sono anche esempi di comportamenti seri, serissimi, anzi patetici. Per esempio sui risultati delle elezioni. Prendiamo i messaggi inviati da Ornella De Zordo, LabDem-Un’altra città un altro mondo appena avuta la certezza della vittoria di Prodi :

Berlusconi a casa. Adesso una sinistra unita per ricostruire il Paese, per vincere anche il berlusconismo -10 aprile 2006 – E’ finita. Silvio Berlusconi e Casa della libertà non sono più al governo. Sono stati puniti dagli elettori, nettamente. L’ultimo tassello del disegno eversivo della destra non è andato a buon fine. Berlusconi non sarà presidente della Repubblica e Fini non guiderà il nuovo governo. Adesso tocca a noi. Abbiamo il compito immane di ricostruire un Paese devastato economicamente e socialmente. Noi della sinistra dell’Unione abbiamo anche un compito in più. Stare insieme organicamente per fermare la deriva del berlusconismo che in questi anni ha avvolto la cultura politica italiana, non solo dentro Forza Italia.

(Qui si interrompe definitivamente il manoscritto).

Art, combien d’étoiles?

Lamberto Tassinari

Ce texte m’accompagne depuis bientôt vingt ans, autrement dit, il s’agit d’idées esthético-politiques qui fondent, qui constituent ce que je suis (…ou ce que je crois être). Les trois premiers paragraphes sont les mêmes qui se trouvent en Art, euthanasie de l’aura, texte publié dans l’ouvrage collectif “Utopia. De quelques utopies à l’aube du 3e millénaire” (PUL, Syllepse, 2001) et dans ce même site.

Le quatrième et dernier paragraphe est d’aujourd’hui, énième variante d’un texte que j’aimerais indéfini.

Tout est lié

Tout est lié. Aurions-nous oublié que le battement d’ailes d’un papillon en Chine produit un ouragan dans les Antilles? Ou, peut-être, n’avons-nous jamais cru que cette image poétique illustrant la théorie du chaos possède valeur de vérité. Pourtant, nous avons tranquillement reçu l’idée de globalisation sans pour autant comprendre que l’économie globalisée est le dernier des phénomènes qui nous relient, manifestation galvaudée d’une liaison beaucoup plus profonde, cosmique, laquelle nous donne la certitude que nous sommes faits de la même étoffe que les étoiles. Si accueillie et comprise cette vérité a des conséquences décisives autant sur notre façon d’interpréter le monde que d’y vivre. Il nous faut avouer que la matière n’est plus ce qu’elle était. Peu à peu, elle nous a révélé son esprit, le principe caché du monde physique, de la réalité qui s’est révélé de façon partielle tout au long de l’histoire humaine. De cet esprit, c’est-à-dire du fonctionnement secret de la matière, l’expérience sensorielle, la religion, la science et l’intuition nous ont permis de cueillir quelques manifestations. Mais depuis un siècle, nous avons commencé à porter un regard de plus en plus aigu à son intérieur. Maintenant, le meta  de la métaphysique devrait avoir cessé de nous apparaître comme un au-delà, une transcendance, pour devenir une présence profonde, une immanence, un dedans, et la métaphysique finalement se montrer pour ce qu’elle est, la partie cachée du monde physique. Le monde certain et solide de Newton et du sens commun est  devenu un bizarre et paradoxal mélange d’ondes et de particules, gouverné par les lois de la probabilité plutôt que par celles rigides de la causalité. Ainsi, nous pouvons voir les manifestations abstraites, invisibles et «intérieures» – la pensée, l’inconscient, le rêve, l’imagination – comme des infiltrations du monde quantique dans le quotidien des objets et des faits… L’art est l’immense espace d’activités et d’œuvres créé par cette énergie interne, invisible de l’être humain. Plus que d’autres capacités l’art, sous toutes ses formes, constitue le portrait, la projection fascinante et mystérieuse de notre richesse et de notre puissance. Les artistes ont su, de tout temps, regarder au fond de l’être humain et des autres phénomènes de la nature. Les mots de William Blake «si les portes de la perception étaient toutes ouvertes les choses nous apparaîtraient telles qu’elles sont, c’est-à-dire dans leur infinité», et de Goethe «si nous étions capables de regarder la nature dans son ensemble, elle nous mènerait, sans aucun doute, jusqu’à la pensée», sont plus que jamais éclairants à l’époque numérique quand ces portes ont commencé à s’ouvrir et le regard porté sur la nature à y pénétrer quasiment  jusqu’à la pensée. Karl Nierendorf, dans l’introduction au livre de photographies du botaniste allemand Karl Blossfeldt, écrit en 1928: «Tout comme la nature qui est l’incarnation d’un grand secret obscur, dans la monotonie du devenir et du disparaître, l’art est une deuxième création, pareillement insaisissable. Elle a germé dans l’intellect et dans le cœur  de l’homme, du point de vue organique. C’est au désir de durée et d’éternité qu’elle doit la lumière du jour.». A propos de l’invention Goethe écrit dans ses Maximes et réflexions : «Que signifie inventer, et qui peut affirmer avoir inventé ceci et cela? De la sorte, s’entêter sur un droit de propriété, c’est de la véritable folie, et ne pas vouloir honnêtement se reconnaître comme des plagiaires, c’est un acte de présomptueuse inconscience.» Kafka, quant à lui, en réfléchissant sur la création, observe dans son Journal  le 25 février 1918:

 « Les inventions nous devancent comme la côte n’est sans cesse à la rencontre du vapeur sans cesse secoué par sa machine. Les inventions produisent tout ce qui peut être produit. On a tort à dire par exemple: l’aéroplane ne vole pas comme l’oiseau, ou bien, jamais nous ne serons en état de créer un oiseau vivant. Certes non, mais l’erreur réside dans l’objection (…) L’oiseau ne peut pas être créé par un acte originel, car il est déjà créé, il est sans cesse recréé en vertu du premier acte de la création et il est impossible d’entrer de force dans cette série (…) Mais – et c’est cela qui importe – la méthode et les tendances de la création n’ont pas besoin d’être différentes pour l’oiseau et l’aéroplane, et l’explication des primitifs qui confondent un coup de fusil et le tonnerre peut contenir une part restreinte de vérité».(1) Les formes inventées par les êtres humains ont un lien profond avec les formes purement naturelles. L’artiste crée  en trouvant, en «plagiant », en jetant son filet dans le magma de ce qui est pour en tirer une œuvre, grande ou petite, représentation fictive d’un des infinis mondes possibles. Aujourd’hui, cette vérité, que n’est plus seulement l’artiste ou le scientifique visionnaire à être capable de voir, est encore plus évidente. Tout le monde commence à se sentir libre et capable de regarder au fond de la matière et de découvrir aussi sa propre capacité à «composer»  de l’art. En ce sens la révolution informatique aura des effets qu’iront bien au-delà de la technologie. À la fin des années 1920 Paul Valéry avait préconisé avec une extraordinaire lucidité ce bouleversement révolutionnaire: « Il y a dans tous les arts une partie physique qui ne peut plus être regardée ni traitée comme naguère, qui ne peut pas être soustraite aux entreprises de la connaissance et de la puissance modernes. Ni la matière, ni l’espace, ni le temps ne sont depuis vingt ans ce qu’ils étaient depuis toujours. Il faut s’attendre que de si grandes nouveautés transforment toute la technique des arts, agissent par là sur l’invention elle‑même, aillent peut‑être jusqu’à modifier merveilleusement la notion même de l’art.».(2)  En procédant de ce constat de Valéry et en particulier des mots que j’ai souligné, je mettrai en relief le rapport essentiel existant entre esthétique et politique. Repenser d’une façon radicale la signification de l’art me semble être l’une des rares chances que nous avons de reprendre la route vers la cité, vers le politique à la suite de la faillite des disciplines sociologiques traditionnelles. Si la notion de l’art et l’invention elle-même peuvent être merveilleusement  modifiées, cela signifie que cette possibilité a toujours existé en puissance, sous forme de tendance, d’utopie.

De l’art

Aujourd’hui, les problèmes de l’art révèlent un malaise profond qui va au-delà des polémiques entre historiens, critiques et artistes. La distance aussi entre l’art «difficile»chargé d’aura, et la majorité des gens exige une révolution esthétique dont nous voyons depuis longtemps les prémisses mais que notre temps est encore incapable d’achever. L’art du vingtième siècle n’a pas réussi à transformer la société, même si les technologies de production et de diffusion de l’art ont provoqué des changements profonds, quantitatifs et qualitatifs. Tout l’art est en cause, pas simplement l’art visuel contemporain, le plus exposé et scandaleux des arts, car il révèle mieux le caractère commun et facile de l’expression artistique. C’est la signification même de l’art, sous toutes ses formes et dans tous les temps, qu’il faut redéfinir. Tout d’abord, qu’est-ce que l’art? On pourrait répondre avec Goethe que «l’art c’est l’art», évitant ainsi tout risque de banalité. Pourtant ce n’est pas autant sa définition que son sens et surtout son rôle qui font problème. L’art, c’est la capacité de regarder et de donner une forme à des idées, des images, des sons, selon des critères spontanés et appris. Capacité commune à tout être humain, comme celle de parler, de courir ou de se reproduire. Au-delà de la distinction de nature anthropologique et culturelle existant entre l’art «actif» préhellénique, magique ou primitif et l’art post-hellénique de plus en plus esthétisant, dans les arts de tout temps et lieux – autant dans les peintures d’Altamira, dans les statues grecques et les dialogues de Platon, dans la Gioconde de Léonard, dans l’ Olympia  de Manet, dans le Décameron  de Boccace, dans l’Ulysse  de James Joyce que dans la Croix, 1950  de Joseph Beuys on retrouve la même capacité de connaître, de saisir le langage de l’univers. C’est toujours nous, qui, par notre regard parlant , réussissons plus ou moins  à entrevoir le pli caché dans les choses de la vie, à en deviner a poco a poco le secret, la vérité cachée en elles que nous essayons de révéler, depuis que nous sommes communauté parlante, par des formes, des signes.  A un certain moment de l’Antiquité, cette habileté a été appelé Tekne à Athènes, ars  à Rome et, pendant la Renaissance, art, qui était synonyme de science. Capacité de comprendre le monde des phénomènes, la nature des choses et, par conséquent, technique, habileté dans la construction d’objets, machines, fabriques, œuvres en accord avec la nature et ses lois. Art signifiait aussi d’abord la reconnaissance de l’humanité dans la Nature, dans ce qui existe hors de soi. Par la suite, à l’époque moderne, surtout après sa séparation de la science et de la technique destinées à asservir la nature, l’art est devenu communication privilégiée de la part de l’artiste, du Génie, de la découverte de formes et de valeurs «nouvelles», il est devenu la sphère esthétique  gérée et administrée selon les principes de la société capitaliste naissante. L’art du vingtième siècle a fini pour coïncider avec «ce qui est artistique», avec les produits, avec l’univers des artistes, des historiens de l’art, des critiques, des marchands, des entrepreneurs.

De la marchandise

Avec une rapidité extraordinaire se sont élargies, à partir des avant-gardes du début du siècle, les frontières de ce qui est considéré artistique. Quand on a consenti d’appeler art toute œuvre  réalisée sans les habiletés traditionnelles, sans la maîtrise des artistes du passé, les portes de l’art se sont entrouvertes. Les avant-gardes historiques d’abord ont passé puis, dans l’espace de quelques décennies, avec le Pop Art et les autres innombrables mouvements, tout est devenu art: le corps, la terre, tout ce que l’Artiste peut toucher. Cela a été le moment crucial de la crise de l’art moderne, car les frontières de l’art ont été justement poussées à l’infini mais sans que cela n’amène à une nécessaire, logique et officielle démocratisation de l’art. La révolte a été vite contenue, maîtrisée et récupérée d’une façon complexe par le système. Les langages, les idées, les formes, les médias, promus par les vagues avant-gardistes dans tous les champs artistiques, des surréalistes aux situationnistes à Fluxus jusqu’aux années soixante-dix, ont été acceptés. Au lieu de subvertir le réel, cet art a eu libre accès aux galeries, aux musées, aux maisons d’édition etc., et il a été investi de l’aura par l’establishment  critique, par les médiocrates et totalement récupéré comme marchandise de luxe. Une véritable contre-révolution qui a amené, en même temps, à la coupure définitive des élites artistiques avec 90 pour cent de la société. Pris dans le tourbillon du triomphe capitaliste, l’art vit, depuis, entre la subversion et la subvention. Soudainement tous les grands phénomènes de la modernité que la civilisation capitaliste a suscités et qui lui ont fait cortège à travers sa crise sans fin, se présentent aujourd’hui sous une lumière nouvelle. L’art est finalement en train de recevoir le traitement qu’il mérite: il est négligé, à l’avantage d’autres activités plus utiles au public. La culture marchande représente désormais, pour l’humanité du Nord de la planète, la nature dominante  et la démocratie s’avère plus que jamais un ballet pénible de corporations, de lobbies, non pas un espace de communication et de partage. Et pourtant, en même temps, les limites de ce système en tant que créateur de liberté, de démocratie et de beau commencent à se révéler aux yeux des gens. Le cas de l’art, comme celui d’autres activités civiles essentielles, montre en fait avec une clarté grandissante les contradictions pénibles surgissant entre les intérêts du capital et ceux de la société. C’est dans l’art lui même, dans sa puissance subversive, laquelle demeure intacte, dans le fait qu’il est la négation subtile mais obstinée de la valeur d’échange, de la valeur marchande du temps et de la vie, que se trouvent les raisons et les énergies pour le refondre. La crise actuelle nous apprend quelque chose de nouveau sur un phénomène très ancien: que l’art est, sinon hostile, à tout le moins profondément étranger à l’esprit du capitalisme. Si la modernité naissante a soustrait les arts de la sphère religieuse en les employant progressivement comme outil d’humanisation  et de laïcisation, il a fallu par la suite à la société capitaliste presque trois siècles pour les transformer en marchandise. Mais l’art ne meurt pas. Les têtes imaginatives non seulement existent mais elles sont plus nombreuses qu’auparavant, malgré que le marché aplatisse et uniformise les talents qui ne coïncident pas avec ce qu’on voit célébré en peinture, musique, cinéma, écriture, etc. Ce qui doit être profondément transformé, ce sont les critères de l’interprétation et de l’emploi de l’art. Aujourd’hui, au moment même de la plus grande confusion et d’une crise généralisée, il est possible et nécessaire d’affirmer que la créativité artistique et ses produits (l’art) ne doivent plus être perçus comme exception individuelle mais plutôt comme normalité de la vie humaine commune.

Au quotidien

Essayez (vous l’avez sûrement déjà fait) de suivre chaque semaine les chroniques littéraires et artistiques dans les pages de votre quotidien ou revue. Si vous parlez plus d’une langue, faites le même exercice dans vos autres langues.

Vous remarquerez alors que chaque semaine il y a des nouveautés « extraordinaires » concernant des « premiers romans » écrits par des auteurs « de grand, très grand talent » souvent comparés à des classiques proches ou lointains : un Houellebecq rappelle Ferdinand Céline, cet autre a du Franz Kafka, etc. La même chose se produit pour des peintres, sculpteurs et artistes d’autres disciplines. Que veut dire tout cela ? Cela veut dire, je crois, que le talent artistique est chose commune et qu’avec l’éducation de masse, à partir des années 1950, le nombre des artistes n’a fait que croître. L’intérêt et l’activité, l’enthousiasme que suscite cette créativité commune, je les considère par le biais de l’éclairante, à mon sens, métaphore du sport. S’intéresser et s’animer pour ces « chefs-d’œuvre » annoncés au grand public chaque semaine par les médias, c’est comme se promener dans des parcs publics pour assister à des matchs de tennis, de basket ou de foot joués par des gens ordinaires. Il arrive, bien sûr, qu’on voit de très belles choses, parfois même extraordinaires, et vous êtes là, le seul spectateur de ces exploits mémorables – pas de journalistes, ni radio, ni télévision pour en témoigner et consacrer tant de beauté. Toutefois, après dix minutes d’un match de tennis entre joueurs ordinaires (c’est-a-dire médiatiquement inconnus) vous vous en allez et continuez votre marche dans le parc sans ressentir le moindre intérêt pour l’identité des ces joueurs ni d’envie de retourner les voir la semaine suivante. Si l’industrie culturelle ne vous proposait pas, par des annonces qui résonnent dans un cellulaire au fond même de vos poches, cette série sans fin de génies inouïs et talents sublimes, vous ne leur accorderiez pas plus de temps et d’argent que ce que vous faites avec les joueurs du parc public. La conclusion de tout ça?

La conclusion, c’est que toute activité ludique-artistique nous fait plaisir, indépendamment de la valeur (essentiellement économique) que lui accordent ceux qui ont le pouvoir de le faire. L’art qui vraiment nous atteint, nous émeut et nous transforme, est rare et il ne se manifeste pas ponctuellement chaque semaine. Malgré ce don, il faudrait pas en faire un objet de culte ou d’adoration, il suffit de le reconnaître. Le reste n’est que du jeu commun.



1 Ces deux citations, dans Percorsi dell’invenzione (1993) de Maria Corti, historienne de la langue italienne et écrivain, qui procède à un intéressant et érudit compte-rendu de l’invention dans la culture occidentale.

2 Paul Valéry, La conquête de l’ubiquité , Pièces sur l’art, 1929.

Under The Sign of Capitalism

Notes on a never ending decline

Lamberto Tassinari

Everything that has been said and done from Cervantes to Philip Roth, from Alessandro Volta to Steve Jobs, from Linné to Kandel is under the sign of capitalism. Our times, modern and postmodern, should rightly be called the Capitalist Civilization. There are many variants of capitalism of course (with more or less state involvement)  and there is not on Earth the ideal form of it. But now that real-socialism is dead and buried, market-financial capitalism is the reigning form of governance in all countries. Our democracy is indeed a “market democracy” where the management is committed to representatives chosen by the “people” in a quasi-farcical election process and the power given to the market forces and their tamers.

The Industrial Revolution

Democracy is a word, at the best, a “work in progress”. But no one is at work on it!

Clearly, capitalism has been the driving engine of progress, material and intellectual for two centuries. Real, effective, swift if ferocious progress such as no other economic system couldn’t ever have afforded. Market, in principles, means freedom for goods to circulate and ideas, and later people also. Because capitalism is incompatible with the political-economical system from which it has progressively emerged, feudalism. Men have to be freed in order to consume the goods that they are obliged to produce. It is a historical evidence that democratic forms weren’t never developed in a non capitalist society. At a certain extent we witness to the equation between capitalism and democracy. Consider that feudal and “socialist” societies like Japan and China had no choice but to adopt the capitalistic  way of production in the 20th century because capitalism is the fastest way to develop economically. But in the fully “developed “ countries of ours, capitalism has completed its “democratic” mission and it is now exhausting our bodies and souls. As you know we reached the limit in the mid 1970 when it became clear that the “capitalistic civilization” could not produce any more progress, freedom nor liberties. Fifty years since that limit, its never ending decline shows the magnitude of the disaster. Not just the ecology. Look around. All IT touches become capitalistically infected:

health, science, education, art, food, sport, everything.

The mainmise or the stranglehold …..

Visual arts and the novel

The cultural industry: the fate of art and the necessary, inevitable euthanasia of its aura. What is the destiny of novel? Masterpieces and the printing business.

Industry

Why the electric car was killed back in the Thirties?

Tesla well before being a fashionable car was a mad Serbian genius who emigrated to the United States at the beginning of the last century and in the Thirties had already developed several electric devices, essential to the progress of our modern life among which a perfectly functional electric car.

Health

Why the immunotherapy in cancer research has been discouraged?

Tutto o quasi quello che sappiamo e facciamo è tinto di capitalismo. Per capitalismo intendo quella forma di produzione di merci e di rapporti sociali cominciata con la nascita della civiltà borghese intorno al Mille e poi lentamente evoluta, per così dire, fino alla rivoluzione industriale e al decollo pienamente capitalistico verso la metà del 19° secolo.

Photo: Pierlucio Pellissier

The spinning Jenny, il telaio a vapore del 1770 in Inghilterra e Germania poi, questo è l’avvio ruggente del Kapitalismus  ma preceduto da secoli di lento building up, esattamente come un cancro, piano piano, la rinascita delle città con i Carolingi e i comuni e la società borghese, dei borghi, e da noi Boccaccio, tutto questo lavorio è proto-proto capitalista, Marx si occupa del fenomeno in fase adulta, compiuta e pensava che si potesse hegelianamente rovesciare con la logica! Il capitalismo puro, ideale è assolutamente senza Stato, il Mercato è lo Stato, che con mano invisibile aggiusta, regola tutto.

ANOTHER BODY

Nella modernità, dal proto al tardo capitalismo, sono nate e cresciute le idee e le cose che realmente pensiamo e facciamo. Compreso l’atavico, il primitivo, l’animale, ogni pensiero e ogni pratica è modellato dalla logica capitalistica del consumo e del profitto. Nella fase senile del capitalismo, come in ogni senilità, i difetti originari del sistema appaiono magnificati.

And death shall be no more, death, thou shalt die

Credo che con questo stesso nostro corpo non si potrà avere un altro “corpo sociale” vedi La Pharmacie de Durkheim di Sophie Jankélévitch.  Ci vuole tempo, ma di tempo ce n’è infinitamente. Quando il corpo sarà altro, corpo astratto, immateriale-informatico, proprio come un’anima – tanti di noi umani l’hanno immaginato, compreso Platone – allora avremo un altro corpo sociale, un’ altra società.

MORE TIME

Ora, esistendo noi in questa fase, per così dire… lunga, non vale la pena darsi da fare anche perché la Morte che ci insidia e ci spinge a Fare, non esiste, è la curva della strada, è non essere visti, come dice Pessoa…ma è difficile crederci per più di un minuto!

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