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I SEGNI

Giuseppe A. Samonà

Punti rossi e mucchietti di pietre che stanno in equilibrio l’una sull’altra: l’ultima volta che li ho visti è stato alla fine di questa estate, su per le montagne di un’isoletta all’estrema periferia orientale del Mediterraneo. E mi sono improvvisamente ricordato di quando li avevo visti per la prima volta, più giovane di una quarantina d’anni, su per le ben più alte montagne del Tibet e del Nepal, dove perdersi equivale a morire; o più a sud – era lo stesso andare – nelle foreste del Kerala e del Tamil Nadu, anche se là, mi sembra, furono piuttosto intrichi di ramoscelli, o tacche sulla corteccia degli alberi, o ancora graffi sulle rocce lungo il cammino. Visti, o forse dovrei dir meglio: riconosciuti – perché probabilmente li avevo già visti senza vederli, nelle passeggiate della mia infanzia attraverso i boschi siciliani, o sul Carso: per vedere vedendo, infatti, bisogna essere pronti. Poi, ho continuato a vederli, cioè a riconoscerli – che fossero punti, pietre, tacche, ramoscelli, o altri graffi sapienti – su per le Ande, in Etiopia, nel deserto d’Egitto, e in tanti altri luoghi.

Ma ecco: tutti mi sono sfilati davanti agli occhi questa estate, come raccontano succeda con l’intera vita quando si muore. (Lo raccontano gli eletti, che muoiono ma poi tornano indietro, appunto a raccontare…) Del resto, è proprio della vita che è questione, della vita nel senso più totale, profondo del termine: viverla sino al rischio di perderla, rischiare di perderla come unico vero modo per viverla. Chi intende il viaggio innanzitutto come lento spostamento a piedi – ma anche, pur servendosi di altri sistemi di segni, chi percorre i mari in battello – sa già di cosa parlo. Per gli altri, a mo’ di esempio, valga il breve resoconto della nostra recente avventura estiva. 

Dovevamo raggiungere la vicina Khoriò, ma un geologo incontrato per caso in cammino aveva proposto di condurci con la sua auto sino al Monastero, che si trova come ritirato all’estremità dell’isola, in fondo a una vallata – e avevamo accettato: cambiare improvvisamente piano è la prima grande libertà che si ritrova viaggiando. Da lì, il geologo si era diretto a piedi verso la costa per certi suoi rilievi, noi avevamo deciso di seguire il lungo sentiero montagnoso, visibile sulla cartina, che attraverso ben sette valichi ridiscende a mare dalla parte opposta, di nuovo sulla costa abitata: certo, era il tragitto più difficoltoso di tutta l’isola (segnalava una nota a margine della cartina), ma erano appena le undici del mattino, avevamo con noi tre litri d’acqua e qualche biscotto salato, e ci volevano più o meno quattr’ore. Potevamo – e abbiamo oltrepassato il varco che si trova proprio accanto al Monastero e seguito il sentiero che per qualche decina di metri ne fiancheggia il muro, per poi inerpicarsi su per la montagna, verso il primo valico.

La difficoltà principale, più che le salite o le discese a volte assai ripide, o gli intrichi di rovi, i cactus, le ortiche, i passaggi in cui bisogna arrampicarsi sulle rocce, il caldo, il vento – che pure esistevano, ed hanno avuto la loro parte – era quella comune a tutti sentieri che si allontanano dall’abitato. Evidenti sulle carte, continuamente ti mettono alla prova nella realtà, la traccia si confonde, scompare: a destra o a sinistra? A sinistra…: ma dopo un po’ ti rendi conto che non arrivi da nessuna parte, la vegetazione si fa troppo fitta, le rocce invalicabili, e torni indietro, era a destra… E così via: in continuazione ti perdi e ti ritrovi, ma attento, perché se ti smarrisci troppo a lungo rischi di non poter più ritrovare il punto da cui si diparte la giusta via. Sempre cammini sul filo: il rischio di perderti del tutto sta sempre là, in agguato. Ma sempre in agguato anche loro stanno là, visibili solo a chi conosce l’amore che unisce i cammini del selvaggio, proprio quando il sentiero si fa più confuso, o sparisce. I segni. Noi rallentiamo, a volte ci fermiamo, ci guardiamo intorno, lontano, vicino, ed improvvisamente – com’è possibile? un istante prima non c’era – appare: il punto rosso dipinto su uno spunzone di roccia, o il mucchietto di pietre in equilibrio, o entrambi… Ma se non si vedono né l’uno né l’altro, bisogna tornare indietro, ma con prudenza, perché forse invece è proprio là, non hai guardato bene, e l’errore sta proprio nell’abbandonare quel cammino che un attimo ancora ti rivelerebbe il segno amico. E, come spiegarlo? ogni volta che sul filo del rischio avvisti un segno, è un momento di gioia, una scarica di energia che inonda ugualmente cervello e gambe, e più grande è il brivido di non riuscire a vederlo più grande è la gioia di averlo infine trovato. Così, di segno in segno, di valico in valico, è scomparso il Monastero dietro di noi, poi è scomparso il mare che per un paio di ore buone ci ha seguito sulla nostra destra, e siamo arrivati alla fonte delle capre, tutta in altura, che si trova anche sulla cartina: ora è all’orizzonte, di fronte a noi, il mare. Proseguiamo: il punto, il mucchietto… Sono di nuovo, come in passato, il nostro progetto, il nostro obiettivo, il senso stesso della nostra vita… Perché indicano la via e la fanno rilucere d’amore: quello per cui, mossi da una sorta di solidarietà collettiva per tutti coloro che, più inesperti, si metteranno in cammino, altri anonimi camminatori li hanno adagiati là, e poi là, e poi là… – dicono dell’avventura umana in ciò che ha di più generoso, luminoso, umano. Riconoscendoli – ed ognuno di essi è conquista, ondata di felicità, conferma del nostro essere in cammino, cioè vivi – entriamo a far parte di un’invisibile eppur solida comunità che vive nel tempo: per quei segni, per quel filo d’amore e di sostegno che corre di punto in punto, noi, solo noi, siamo umani. Eccola, la libertà: poter scegliere, creare, cambiare in qualunque momento il proprio percorso, esser soli e nel contempo amati-amanti, insieme ai tanti altri che ci hanno preceduto o che ci seguiranno. Al contrario di quel che succede nei socials e nella società che su di essi si fonda, dove dentro la rumorosa super-visibile condivisione si nasconde una terribile, silenziosa solitudine, ora – pensavo mentre avanzavo nel cammino – ci ritroviamo amorevolmente, silenziosamente, durevolmente insieme, attraverso infiniti secoli, proprio perché coraggiosamente, istantaneamente, ontologicamente invisibili, soli: e non più gratuitamente schiavi, ma finalmente, veramente liberi. Vivi. Pensavo, o meglio, pensavano le gambe, come nella meditazione dei monaci zen: la testa è limpida, è un lago in cui tutti i pensieri stanno là in simultanea complicità, come fossero bolle, e sono mille i pensieri, e anche nessuno, sono un unico pensare, ma senza pensare, un pensiero che non è pensiero ed è più del pensiero, e che i radicali dell’ora-te-lo-spiego-io chiamerebbero delirio, sovreccitazione mistica dovuta al caldo, fatica, endorfine, droga da movimento (il che è senz’altro vero, com’è vero che l’innamoramento è una scarica di adrenalina nel sangue), insomma un pensiero leggero, spensierato, uno spensiero, ecco, che solo adesso, che sto qua bello seduto a scrivere, si srotola nel tempo, e temo che quel che appariva evidente alle mie gambe-cervello possa ora, sdipanandosi sulla carta, risultare incomprensibile, assurdo, o magari ridicolo.. E anche appunto spensavo: quei punti, quegli elementari agglomerati di pietre, sarebbero come corpuscoli di energia, atomi, ognuno di essi rappresenterebbe in sé l’intero universo anche rinviando al successivo, insieme al quale formerebbe una rete infinita, infinitamente grande e minuscola (le galassie, i sistemi solari, una lumaca che mangia una foglia, gli Improvvisi di Schubert, il muretto giallo nella Veduta di Delft di Vermeer, due vecchietti che ballano un tango, riincontrare una vecchia amica dopo quarant’anni…), inestricabilmente fragile e potente, proprio perché integralmente umana, una sorta di scheletrica dimostrazione, quei punti, quei mucchietti, de l’amor che move il cielo e l’altre stelle. (È irrisorio, minuscolo appunto, ma voglio ricordarlo: anche noi due, lungo il cammino, abbiamo qua e là amato, innalzato mucchietti di pietra nei faticosi passaggi in cui eravamo diventati più esperti…)

Ma che dico, il senso? Sono la vita stessa, quei segni, la vita dal di dentro. Non che ne abbiano l’esclusiva, ovviamente: ma hanno la capacità, in senso letterale, di contenerla, la vita, di aderirvi completamente, aspirando in se stessi tutto il tempo – non esistono più progetti, proiezioni, al di fuori del loro orizzonte. Un punto da raggiungere, raggiungerlo, una scarica: come creare, mattone dopo mattone, le mura della propria futura casa; come costruire un tavolo, o cuocere un pane. Come i bambini alle soglie della parola che giocano insieme nella sabbia, o dentro le pozzanghere, e la loro gioia, o quella dei matti, e la disperazione. Come sdraiarsi sul divano e aspettare, dopo aver fumato l’oppio. Come l’orgasmo. Come quando si lotta contro una malattia-mostro che ci divora da dentro, vuole ucciderci. Come quando si lotta a fianco di chi lotta contro quella malattia-mostro. Come tutte queste cose, con la stessa forza, splendida ma anche tenebrosa, quei segni, noi dietro a loro, sono quel che fra un’inquietudine e l’altra sempre ci affanniamo a capire: la vita… Tutto il resto – quel che ci agita, ci tormenta nel castello di responsabilità e lavori in cui si svolge la nostra esistenza, tutti gli abituali desideri – ci appare d’improvviso un insensato, un vano fardello: semplicemente camminare, robustamente e lentamente, trovare il prossimo punto rosso è ben più importante che vincere un concorso, un posto, un premio. Più sublime del più sublime capolavoro che si possa scrivere o dipingere. Mentre son passate un altro paio d’ore… il punto, il mucchietto… e, raggiunto il quinto valico, la vediamo, semisepolta nella verdura giù in fondo alla valle: la Chiesetta, anche lei sulla cartina. Con lei come punto di riferimento – cioè un punto rosso magicamente dilatato – scendiamo, incespichiamo, quasi rotoliamo a valle. Siamo giù – sosta alla solitaria Chiesetta, commovente –  il mare è di fronte che quasi sembra di poterlo toccare, anche se non è quello giusto, a sinistra dobbiamo andare, di nuovo su, un punto rosso, un mucchietto, un punto rosso, fino al largo spiazzo che sta a cavallo del penultimo valico, come un balcone cui fa da muro all’indietro la montagna, e di nuovo di fronte il mare, ma un altro, un’altra baia, che ancora non è quella giusta neanche questa. C’è infatti da aggirare la parete rocciosa, un punto, un mucchietto, e poi attraversare l’ultimo valico, il cammino è – sulla carta – molto più breve di quello già percorso, e – sembra – evidente. Insomma, è quasi fatta.

Quasi. Forse la più pericolosa delle trappole di chi percorre i sentieri della terra o dell’acqua. Quasi è come quando uno deve fare pipì e sta per arrivare a casa: più svelto dai, presto, e si allentano i muscoli, cala la concentrazione, sale l’eccitazione per l’obiettivo vicino, e si rischia di farsela addosso… Insomma, involontariamente (noi) ci si distrae, si smette di combattere, si procede in automatico. E d’un tratto – il sentiero è scomparso già da un po’, l’ultimo punto o mucchietto è lontano – … andiamo giù di qua, no aspetta torniamo indietro, è su che dobbiamo andare, ma cammina cammina ecco che arrampicarsi diventa troppo impervio, punti o mucchietti non se ne vedono, era l’altra la strada allora, torniamo indietro, ma dove? Era più giù, no, più a destra, a sinistra… e improvvisamente ci accorgiamo, con un brivido, che il mare è completamente scomparso, e che al suo posto intorno a noi da tutte le parti si sono moltiplicati i picchi montuosi. Si succedono rapidamente due o tre dispendiosi, rabbiosi tentativi in tutte le direzioni, ma niente, impossibile ritornare a orientarsi, il mare è scomparso, scomparso, solo montagne, sempre uguali ma anche diverse come se invece di avanzare o tornare indietro ci addentrassimo sempre di più in un universo sconosciuto – e nessun punto rosso, nessun mucchietto. Improvvisamente ci accorgiamo, che anche  occupa un tempo spaventosamente vasto: stiamo – com’è possibile? – girando in tondo da due ore. È chiaro, adesso: ci siamo irrimediabilmente persi. Perduti. Inzuppati di sudore, per il molto errare a vuoto e il gran caldo, con ormai neanche un litro d’acqua a due, ma meglio non toccarla, chissà cosa ci aspetta. Chissà? Noi, lo sappiamo, anche se non osiamo dirlo: il sole sta calando alla nostra destra, la luce cambia, la brezza che piacevolmente rinfrescava il sudore è diventata un robusto sempre più robusto meltemi, che ce lo ghiaccia addosso – e  a un certo punto lo dico, mentre come se ognuno di noi due leggendo nei pensieri dell’altro ci siamo fermati: passeremo la notte qui, ci rimetteremo a cercare alla prima alba. E – sempre il caldo, il freddo, la fatica, la chimica, certo… – ero di nuovo in Nepal, e con tutti i punti e mucchietti incontrati nella mia vita – perché non è stata una pausa, in cui distesamente si pensa, ma una sorta di trance, e il cielo cambiava di colore, il vento soffiava impetuoso, sorprendentemente sempre meno caldo. Ipnosi – e come quella volta in Nepal, ho sentito che potevo scomparire, cioè morire, anzi che già lo stavamo (morendo), come quando in mezzo alla neve ci si intorpidisce e si perde il senso del tempo e del proprio corpo. Ma più che alla troppa poca acqua, più che al freddo, oramai evidente, e sempre più intenso, più che alla notte violenta che ci aspetta, la morte è legata, come allora, alla radicale scomparsa dei puntini e dei mucchietti: ci muoviamo in un altro universo da cui, sembra, neanche la luce dell’alba potrà farci uscire. Eppure non c’é paura, non panico, né inquietudine, solo la sensazione condivisa – telepaticamente so quel che lei sta pensando, lei sa quel che sto pensando io – che la nostra solitaria scomparsa è l’altra faccia, necessaria, e non meno straordinaria, della straordinaria vita che abbiamo tramato sino a un attimo prima collegando puntini e mucchietti. E proprio come quella vita straordinaria, anche minuscola, irrisoria, fragile. Anzi, vita e morte sono una cosa sola, abitano lo stesso spazio, ma in un tempo diverso, come il giorno e la notte, anche se oramai noi sentiamo di esserci definitivamente dentro, in quella notte, in quel tempo: siamo già morti? Questa cosa dal di fuori immensa, la morte, da dentro sembra insomma del tutto banale, com’è banale la vita che abbiamo lasciato. Ed entrambe parlano carnalmente di sensazioni e di corpi: infatti, l’unica mancanza nel tempo freddo che ci avvolge è il sapere che nella vita ci sarebbero ad aspettarci l’orata che proprio quella mattina il nostro amico pescatore ha messo da parte per noi, con in fresco una bottiglia di retsina, che a noi piace come fosse champagne. Saremmo dunque, e per sempre, vivi e morti? Ma appunto, a differenza del Nepal, non ero solo, eravamo due: da soli, si può morire, in due, vien sempre voglia di salvare l’altro. E ho detto (eravamo sul valico, il vento soffiava tremendo): cerchiamo un riparo. E ho notato che il sole era oramai prossimo a sparire alla nostra destra, e quindi il sud sud-est, cioè la direzione della nostra destinazione, della vita, doveva essere perpendicolare, pendendo un poco a sinistra… Insomma, fra le montagne che ci circondavano da tutte le parti, come se il valico fosse infinito, perché non provare – appunto, salvare l’altro – anche noi a pendere a sinistra? Non che pensassimo di salvarci subito, ma forse ci saremmo avvicinati, e alla prima alba sarebbe stato più semplice ritrovare il cammino. E ci siamo inerpicati, aggirando e salendo, per raggiungere la cresta, aggrappati alle rocce, strappandoci i vestiti, fra rovi e spunzoni, sobbalzando in continuazione, perché quasi a ogni passo un piede scivolava, rischiando di trascinarci nel vuoto, e dappertutto sempre e solo montagne, anche una volta raggiunta la cresta. Ma avanti! ancora un passo, poi un altro, un altro, e d’un tratto, come un’esplosione, una luce violenta, eppure dolce: come calato dal cielo appare. Il punto rosso, con sopra il mucchietto: lo fissiamo, estasiati, come se fosse il monolite di 2001 o anche, più semplicemente, come se ci fosse apparso Dio, un dio. (Questo lo dico adesso, pensando; allora, spensando, era Dio, un dio d’amore messo là dall’umanità creatrice ed amica che ci aveva preceduti…) il punto, il mucchietto, e dietro, come d’incanto, immenso c’è il mare, quello giusto, che cercavamo da ore.

In À bout de souffle (Godard et Truffaut…), Patricia, la deliziosa Jean Seberg, intervista un famoso-insopportabile scrittore, e gli chiede: Quelle est votre plus grande ambition dans la vie? E lui, dopo un attimo di riflessione: Devenir immortel, et puis… mourir! Ecco, oggi mentre scrivo di quella avventura mi sembra finalmente di afferrarne tutto il senso: per essere immortali bisogna passare attraverso la morte, o più precisamente essere insieme vivi e morti, quel puis sarebbe in realtà un anche, una contemporaneaità. In quelle ore ore fra le montagne greche, saremmo forse diventati dèi?

Harriet’s Beloved

Patricia Vergeylen Tassinari

“Here, take this shirt and this nice grey sweater. Oh, wait, I have a nice pair of trousers to go with them, they’re here somewhere.”

Harriet was going through the drawers and cupboards of her bedroom. She was giving John clothes away. The woman from Salvation Army shoved the clothes into green garbage bags. Harriet’s mouth would quiver slightly as she saw John’s clothes turn into little balls before disappearing. She had always  looked after his clothes so well. Only her dresses now were hanging in the cupboard and a few of John’s hand- kerchiefs  had been left in the drawer with Harriet’s underwear. Harriet accompanied the woman to the door, wished her well and fondled the bags gently. Somehow this was the last of John. She closed the door and turned to examine the living room. John’s pipes, his collection of magazines, tennis trophies, favourite chair had all been giving away.  Only John had smoked so she had gotten rid  of all ashtrays in the house. The only photographs left on the wall were those of the boys, now grown up and gone. Harriet had done the same in the bathroom and kitchen: all traces of John were gone.

Harriet went into the bedroom, the only room which remained unchanged, closed the door and began to undress slowly. John had loved black underwear and Harriet, standing in her black panties and bra, examined her fifty year old body. She thought she was sagging fast since John’s death two weeks ago.

Harriet sat down on her side of the bed and tried to remember the night John died. She knew he had died in a car accident because she could remember arriving at the site of the accident. In the past two weeks whenever she closed her eyes she would keep on seeing those red lights flashing and men ushering her to a stretcher by the side of the road. They had told her it was John but even now she still couldn’t recognize the face she saw. One thing she knew though was that she would never see John again and she wondered whether pain could kill. She lied down on the bed and stiffened her body so as to keep the pain from spreading. It was dark outside when the phone rang. Harriet slowly picked up the receiver without changing her position.

“ Mom, it’s me Tom, how are you?”

“Oh Tom “ Harriet answered after a few seconds “I’m exhausted but I guess I’ll survive.”

“Listen Mom why don’t you come and stay with Mary and I? I don’t think you should be staying in the house by yourself now without Dad. It must be so painful for you.”

Harriet this time answered without any hesitations

“ No, listen Tom, you’re right but I’ve decided to go and stay at that cottage we used to rent by the lake, remember?”

Harriet was surprised at the ease with which she had lied to Tom. She had been dreading this lie.

Harriet went on: “Tel your brother too and Il’d call you both when I come back.”

“ Mom, I miss Dad so much” Tom whispered slowly.

“Me too” Harriet answered.

She hung up fast. Harriet didn’t want to hear about Tom’s pain now. She couldn’t help him anyhow. She felt slightly relieved as now she could go ahead with her plan.

Tom and Mark had been the last persons to call. Harriet had told her neighbours  and friends at work the same lie. It had been easy, everyone had been so sympathetic.

She would finally be left alone. And Harriet for one week didn’t want to be reminded of the John everyone else knew: the man who had been a father, a fine neighbour  and friend.

She wanted to be alone to mourn John, her lover, her marvellous lover.

Harriet slowly edged her body towards the middle of the bed, outstretched  her left arm and began to draw John’s body beside her. She closed the light on the night table, turned to John and wrapped her arms around him.

Avant que l’orignal n’arrive

Giuseppe A. Samonà

Les paumes des mains s’emboîtent l’une dans l’autre, pour former une cavité, tout en ménageant une sorte d’entrée, une ouverture petite, mais suffisante pour que les lèvres puissent la recouvrir, en s’y appuyant, et la fermer, comme si elles serraient un bec invisible; la lèvre inférieure doit être tirée, tendue – l’embouchure, c’est tout, c’est ce qui permet d’aller vers le son, une sorte de pouet-pouet prolongé (cfr. l’intraduisible napolitain pernacchio) – jusqu’à se coller, jusqu’à que les paumes encastrées l’une dans l’autre avec la bouche, la gorge, les joues qui se gonflent, forment une seule caisse de résonance puissante; et l’air pour s’échapper a seulement une sortie minuscule, bien plus petite que l’entrée, une porte, une fissure plutôt, à l’autre extrémité des deux paumes qui s’emboîtent, comme un entonnoir avec son cône et son trou au bout du tube, comme pour laisser partir l’air mais à travers un fil invraisemblablement subtil, presqu’une valve de décompression… le souffle à l’entrée doit être tonnant, en revanche… vous voyez l’engin ? Presque, plus qu’une trompette – les paumes arrondies : et un son, un rappel déchirant emplit la forêt.

Nous attendons.

Que c’est beau la forêt, la magie de ses bruits. Chaque craquement, chaque grincement, qui est une poésie, un monde, pourrait être le bon.

Mais l’orignal n’arrive pas.

De nouveau, les mains se positionnent, et les lèvres, et la gorge. Le son de rappel est plus long, beaucoup plus long, et plus déchirant que le premier.

Nous attendons.

Le Maître, selon son habitude, jette la tête en arrière, ferme, ou presque, les yeux. Il faut de la patience, c’ est indispensable.

Je l’imite. En arrière, presque fermer les yeux, patienter – attendre… Mais pourquoi, au fond ? Il fait froid, aussi, c’est humide.

Nous avançons à travers un sentier, ils sont épouvantables les bruits de la forêt… mais la forêt est devenue jaunâtre – et ce n’est plus  forêt, c’est un paysage de fantômes et de lune. Il y a une détonation soudaine. Un camarade tombe. Une autre détonation. Un autre camarade tombe. D’où? D’où viennent les tirs? Le sentier est devenu route, c’est un village. Nous avançons à travers des ruines. Invisible, un bowman, un archer, nous attaque dans le dos. Depuis une astronef jusqu’au Vietnam. Ce n’est peut-être qu’un cas d’homonymie, et pourtant… : Kubrick ne fait jamais rien par hasard. Le capitaine Bowman toutefois est archer comme Ulysse : il frappe de face, et explore. Le sniper est archer comme Paris : il frappe de derrière – est-il lâche ? Mais est-ce vraiment ainsi ? Nous le découvrons, nous le frappons, à l’aveugle, nous nous jetons enfin sur son refuge ! le bowman est une bow-woman, une jeune, très jeune Vietcong agonisante : Shoot me, murmure-t-elle (abats-moi), et ses yeux sont pleins de haine, mais peut-être est-ce de l’amour, ou les deux, désir de mort et de vie, elle respire avec difficulté, et dit, semble-t-il (elle est si haletante) : fuck me (baise-moi, prends-moi – mais en français, même au-delà de l’assonance, c’est intraduisible). Et le Jocker se donne du courage et tue. Mais peut-être rêve-t-il – le rêve… – de lui faire l’amour: elle est tellement belle !

Le son de rappel me transperce les oreilles. L’orignal n’est pas encore arrivé et le Maître sonne encore.

(Mais où suis-je ? Bien sûr… elle est sniper et pas orignal, elle n’arrive jamais de face, cependant, comme tous les archers de Kubrick, on ne peut pas la considérer comme méchante, pas plus que l’orignal…)

Le son est encore plus long, prolongé, insistant, l’image finit pas se dissiper, le Maître sonne pour la troisième fois.

(♫ Se uno squillo intenderà, tosto Ernani morirà, même s’il n’est pas question ici d’un comte bandit, mais de  l’orignal.)

Nous attendons.

(Mais quand arrive-t-il ce putain d’orignal ?). Shhhhhhhhhhhhhhhhhhut.

Nous sommes les uns, le Maître et moi, en face de l’Autre, l’orignal. Qui, à notre grande surprise, est une orignale. Peut-être devrais-je l’inviter à danser, un tango serré, en la regardant dans les yeux, mais à peine. Elle est tellement belle. Non, éloigne-toi, de dix pas, soutiens son regard, lâche ! – mais pour tuer. Ombres de forêt, royaume de rêves.

Le cor sonne-t-il à nouveau? Oui, oui, c’est le cor de Hagen, ♫ Hoiho ! Hoihohoho, Siegfrid, deinen todten Mann, c’est-à-dire l’orignale, est tombée, son cercueil va arriver, le tumulus défie le ciel, les flammes, serait-ce la fin du monde ? …

Le cor, encore le cor, le son est déchirant… Mais ce ne sont pas des funérailles, c’est de nouveau le Maître, implacable, il est de nouveau en train de jouer de son cor à lui. Malédiction, ce son est insupportable, la forêt, cette attente sont insupportables. Ne savez-vous donc pas qu’un orignal, on peut l‘attendre pendant une vie entière? Et que la plupart du temps il ne vient jamais ? Malédiction – oui, malédiction ! je ne suis pas fait pour la chasse au maudit, sublime orignal, qu’il soit « il » ou « elle ».

Shhhhut shuuuuuuuuuuut.

Nous attendons.

Et le voilà, maintenant ce doit être vrai… Un craquement, mais différent de tous les autres, l’orignal est en face de nous. Il nous regarde, il nous regarde à travers, il regarde à travers nous l’horizon, mélancolique, avec ses grands yeux – Dieu, qu’il est beau, qu’elle est  belle : car certes, ses bois puissants parlent de sa virilité, et pourtant… (n.b. Orignal, nom masculin, n’est que la variante canadienne d’élan, masculin lui aussi, dont le nom scientifique est Alces, nom latin qui en revanche est féminin et tire lui-même son origine du grec ἄλκη, féminin lui aussi. De là,  entre autres, vient le nom italien alce, qui significativement est en même temps masculin et féminin… Is it the same ?). Ne le regarde pas dans les yeux, son regard est insoutenable. Fais dix pas en arrière, mais sans le regarder, sans la regarder : l’Alces.

Vise, et tire.

Mais clac, le fusil se grippe, seulement un clac, qui toutefois suffit à casser le silence. L’orignal s’enfuit, disparaît dans la forêt.

Mais est-ce le fusil qui s’est grippé ? Ou le chasseur?

Le camp

Karim Moutarrif

Le camion roulait vers le nord dans un bruit assourdissant.

Le Bureau du Socle planifiait la répartition des avatars hors de la ville pour entretenir l’image de netteté. Ils dérangeaient le regard dans une cité que le Socle avait mis des années à nettoyer et (au XIX siècle déjà …. . Il avaient pensé épurer ). Il y avait l’armée d’aiguillage qui orientait les avs , raccourci d’avatar qu’on appelait aussi les zavs. Pour les rabattre sur les Convergences, mot poétique pour désigner les lieux de concentration avant de les envoyer hors de la ville. Ces lieux étaient d’une architecture soignée avec beaucoup de verre par des architectes du Système, vague confrérie des gens au Pouvoir.

Photo: Pierlucio Pellissier

La soha qui assurait l’opération séduction à l’accueil, avait la voix suave pour attendrir, pour transporter les êtres vers une projection de leur manque. On les contrôlait par leur sexualité. Il n’y avait que des sohas pour les zavs au masculin, les plus nombreux…. Entre les mains de ces femmes ils se faisaient déshabiller, éplucher. Identifier. C’était scientifique. Ils quittaient les sohas après avoir tout décliné pour rejoindre les autres. Après avoir regroupé les zavs dans une place du centre de la cité on les convoyait vers le camp.

Le redem principal qui reçoit a un rictus qui exprime toute sa haine envers les derniers humains. Il peut difficilement le cacher. Il ne contrôle pas son langage corporel.

Ce n’est pas un langage que j’avais inventé, j’avais déjà du mal avec ceux que j’avais appris et dont la perfection était encore loin d’être atteinte. Non, c’était le nouveau langage de ces gens qui nous recevaient et qui voulaient que nous soyons convaincus qu’ils nous voulaient du bien.

C’est pour ça qu’on l’avait choisi. Il était descendant d’un peuple qu’on avait soumis et dont on avait fait des mercenaires redoutables, une fois retournés. Comme les janissaires par exemple.

Le pacte du désespoir, lien secret entre tous les zavs fut la confrérie virtuelle que nous créâmes spontanément. Elle servait à canaliser notre cynisme. Elle dura le temps d’un séjour pendant lequel on finit par disséminer la plupart d’entre nous. Nous perdîmes nos traces mutuelles. Mais elle nous permit de résister, de rêver pendant tout ce temps là.

Le Camp, les hautes grilles, le projet financé par le Conseil Suprême de la Cité, tout cela semblait juste irréel. Le camp était disposé pour tout voir, pour ne pouvoir rester nulle part.

La nuit dans le camp, les lumières étaient partout, j’avais écris ça il y a longtemps dans un poème, dans une dictature. Au-delà de vingt-deux heures, la fermeture électronique de la porte s’effectuait.

Les grilles au dessus de la tête qui surplombait cette fausse allée couverte avec le fantôme du sourire cynique de l’architecte, laissaient passer l’eau. Les consignes avaient été claires, la pluie devait nous chasser dès la sortie des chambrées qui donnaient de plain pied sur l’extérieur. Les chambrées étaient constituées de trois box étroits. Le placard individuel n’avait qu’une porte qui s’ouvre et qu’une étagère. L’autre étant vissée. Les noms tournoient dans ma tête, Didr, Hub, Rikh, Heik, Khal et Maik et les autres. Mais combien de cohortes avaient déjà transité par ce lieu. Et Virgi l’égaré de la vie, à qui on administrait de la dope légalisée en comprimés et qui cachait sa bonbonne de vin dans son placard, derrière la porte vissée. Une substance illicite selon le règlement qui nous avait été dicté par Rictus, au moment de notre arrivée.

Photo: Pierlucio Pellissier

Errant dans la cour, clignant des yeux bizarrement chaque fois qu’il voulait parler et même quand il ne parlait pas, il avait fini là après la mort de sa dulcinea avec qui il avait vécu quarante cinq ans de sa vie. Dans d’autres lieux, il aurait été vénéré comme un sage, mais ça c’était il y a longtemps.

Joph l’enfant candide à jamais, perdu depuis ces colonies de vacances en pleine campagne où on en profitait pour exploiter les enfants, était un « entre-deux », terme qui qualifie les rejetons de couples « mixtes », comme dans mixer. Il n’est rien sorti de concret du mixage et l’enfant se perdit à vie. Joph avait quand même gardé un éternel sourire candide accroché à sa face, c’était sa carte de visite.

Le camion roulait vers le nord dans un bruit assourdissant.

Reimi, l’éternel réfugié dandy, coincé là, évadé d’une dictature, tentant d’aller ailleurs, soignait sa personne, se pavanant comme un prince. J’appris plus tard qu’il avait prêté main forte à l’horreur. Avec des habits luxueux.

Mizal et Ton avaient échappé à un génocide pour leur religion. D’autres avaient échoué là au bout d’une sélection redoutable qui les a disqualifiés. Ils venaient d’autres villes où le Socle les avait refusés.

Tant qu’il faisait beau, on ne sentait rien, le camp ressemblait à une colonie de vacances. La salle de télé et l’autre, deux espaces qui ne pouvaient même pas nous contenir, nous narguaient. Pendant les beaux jours, après la fermeture du camp, nous restions dehors tard a parler.

Touperdre la belle, cette ville où pour la première fois de ma vie des rues, des bâtisses, des pierres et des briques rouges m’ont parlé. Les humains eux, étaient plus fluides.

Nous les zacotés, nous avions le droit de nous y promener le jour, pour y améliorer notre quotidien. Entre une multitude de formalités qui nous laissaient sous la vigilance des différents appareils de contrôle disséminés dans cette cité du passé.

J’ai fait grève, j’avais toute la latitude pour le faire

Toutes ces pensées se bousculaient dans ma mémoire et j’avais ce papier roulé en boule au fond de ma main que je tenais serré. Ton me l’avait glissé dans les mains juste avant d’embarquer il y a deux semaines. Ton était très nerveux pendant tout son séjour. Nous avions tout de suite sympathisé mais il devait être transféré ailleurs, il ne savait pas où. Il n’avait pas confiance, tout était opaque ici, comme si la moindre information claire pouvait perturber l’ordre établi.

Ils étaient les seuls à connaître les destinations. Ils nous habituaient à ne pas nous en préoccuper. Ça c’était quand le camion venait récupérer les désignés pour un autre camp, on savait jamais lequel.

Ils traquaient la matière insolite, la matière illicite. C’était écrit en gras et souligné dans ce qu’ils appelaient l’ « engagement », papier au bas duquel nous avons tous signé sans vraiment tout comprendre. Ils savaient de quoi ils parlaient mais c’était insaisissable. Tous les zavs, dès qu’ils pouvaient s’en procurer, s’évadaient virtuellement. Le redem avait beaucoup de mal à contrôler cela, d’un autre côté, il savait que cette évasion permettait de tenir un peu plus les zavs.

J’ai émergé avec la gueule de bois dans cette chambre que je ne connaissais pas. Je me suis levé paniqué et j’ai pivoté vers la table de nuit. J’ai ouvert le tiroir pour vérifier si le papier défroissé y était toujours. Hier avant de m’écrouler, j’avais fermé la porte à clé et j’avais déposé cette tranche d’arbre maintenant blanchie puis jaunie et froissée.

Je voulais remettre en place la cohue des événements qui avait assaillie ma tête au cours de ces derniers mois. Comment je m’étais fait prendre dans l’engrenage.

Je me souviens de l’accueil par cette soha, aimable et belle et des yeux d’un bleu à vous endormir toute méfiance. Il y avait beaucoup de séduction dans son échange, elle me dorlotait presque après m’avoir installé et offert une boisson chaude. Elle me parla avec douceur pendant qu’elle enregistrait mes réponses sur son Takefive, la dernière génération la plus sophistiquée, pour faire le suivi des Zavs, selon leur terminologie sidérale, clientèle avec laquelle elle traitait exclusivement.

Le Socle avait élaboré une nouvelle politique pour garder la ville dans une esthétique irréprochable. C’est vrai que tous ces nouveaux termes nous faisaient tourner la tête, mais nous fûmes assurés que cela était pour une efficacité meilleure, à notre avantage.

La première fois que je fus convoqué au Camp, je crus me tromper en voyant ces hautes grilles peintes en blanc et le reste de l’immense enclos avec des hangars très hauts et des camions alignés là bas au fond. Une autre grille séparait cet espace là de celui où nous fûmes confinés. Parfois la nuit dans des moments d’insomnie, j’ai marché le long de l’enclos, comme un robot, en suivant ses angles sans pitié. Le grillage était suffisamment haut pour décourager d’éventuelles extrusions. L’été, il faisait beau et nous restions tard le soir à blaguer où à jouer de la musique mais l’hiver venu, le dehors devint hostile à tout regroupement.

Ils nous avaient réunis dans une salle étroite pour nous demander de faire le bilan de notre vie et nos projections pour le futur. A la suite de quoi nous passerions par un interrogatoire individuel pour nous aider à redevenir productifs et rejoindre la cohorte des consommateurs, le chemin du bonheur.

Dans l’intitulé il y avait discrètement, en sous titre, écrit « rééducation ». J’avais tiqué mais on m’a dit qu’il y avait des avatars qui étaient des cas plus lourd, nécessitant d’autres techniques d’intervention. Le propos tenait du martial. Tout cela était bien compliqué pour ma petite tête, j’ai dit d’accord pour avoir la paix et voir la suite. Nous aurions une rencontre par mois pour rendre compte de l’évolution de nos projections. Ils seront trois : un homme, le capo au rictus, que nous avons fini par baptiser Rictus, et deux femmes. C’est lui qui menait la valse des questions. Il était assis sur le fauteuil le plus confortable proche de l’écran. Les deux autres étaient assises sur des chaises. L’une était son ombre et l’autre était une apprentie redem. Il ne se gênait pas parfois pour être indiscret voire même franchement inquisiteur. Si l’évolution de nos projets personnels ne leur plaisait pas nous encourions d’être exclus, renvoyés dans la lande. Comme celle du roi Lear.

Le camion roulait vers le nord dans un bruit assourdissant.

Le jour de la rencontre était toujours appréhendé. J’avais entendu ses collègues le railler en l’appelant le « sélectionneur », à mon oreille cela a sonné comme exterminateur. Il nous avait confié qu’il prenait à cœur sa tâche. Il avait été recruté pour faire un « nettoyage social dans la structure », devant quelques uns d’entre nous fasciné : nous ne comprenions pas ce qu’il voulait dire. Ou peut être était il sous acide ? Ou peut être « nous » n’avions rien compris. Il avait tous les pouvoirs et ses yeux verdoyants n’étaient pas clairs. Tout passait par lui et l’Organisation, considérait qu’il faisait un excellent travail. En même temps, il savait trop de choses, c’était sa force et sa faiblesse et il pouvait disparaître, lui aussi, du jour au lendemain. Il serait broyé par la logique de la machine qu’il aura soutenue avec tant de zèle. Pour cette raison là, son choix professionnel faisait pitié tant il était aléatoire. En attendant il se la jouait.

Il se trouvait que Rictus ne m’aimait et cela ne présageait rien de bon.

Cela se révéla le jour où il me convoqua pour m’annoncer que ma conduite n’était pas conforme au Plan d’Ajustement du Socle et que mon transfert était imminent. Il voulait « avoir ma peau », comme on disait et il savait de quoi il parlait. Nous aussi, dans ses moments de tentative de rapprochement, il se laissait aller à décrire des bribes de son travail.

Il opérait à la machette.

Photo: Pierlucio Pellissier

Le camion s’était ébranlé à la tombée de la nuit et le bruit infernal de son moteur qui couvrait tout, interdisait tout échange avec les autres transférés. Nous étions assis sur des bancs encore faits de bois, très inconfortables, encadrés par des redems.

C’est au moment où l’engin s’est arrêté, pendant que les redems étaient parti vers l’avant pour discuter du plan de route avec le pilote. Celui-ci s’était trompé. C’est à ce moment que, poussé par une violente envie de liberté que je me suis déclenché. Comme un singe, je sautais du camion, dévalais le fossé pour remonter et disparaître dans la nuit. Ils n’avaient eu le temps de rien voir, cela m’avait pris quelques secondes. J’avais quelques minutes devant moi avant qu’ils ne réalisent. Quelques minutes précieuses pour sortir de leur champ d’action. Je savais qu’ils avaient peur de la lande et qu’ils ne prenaient aucun risque. En plus des transférés dont ils avaient la garde. J’ai couru au jugé pendant un temps interminable, j’avais les poumons en feu. Quand je me suis arrêté pour souffler, assuré que personne ne m’avait suivi, j’entendis au loin, dans la nuit, le camion repartir. Cette fois j’étais sûr qu’ils ne me chercheraient plus, j’avais le reste de la nuit pour trouver un refuge.

De ma fenêtre je regardais les flocons s’accumuler et la neige couvrir tranquillement la terre. J’avais le regard perdu. Je m’en souviens. Je revoyais ça de loin. Je venais d’échapper à une machine impitoyable. J’avais réussi à embarquer sur un bateau, en trompant les détecteurs et à la vigilance des gardes.

Quand je repensais à eux, j’avais toujours un pincement au cœur. Ils étaient si braves, si généreux. Nous étions beaucoup, nous nous reverrions jamais. Nous nous étions perdus. Mais la confrérie avait entretenu un rêve.

Nous nous retrouvions au restaurant, dans la ville civilisée, où Didr travaillait, nous dépensions nos quelques écus dans quelques bons repas bien arrosés. Les dernières jouissances sur lesquelles nous avions encore un contrôle.

Con tus besos

Giuseppe A. Samonà

Photo: Sophie Jankélévitch

Tienen el mismo olor, las mismas expresiones, incluso las mismas características físicas – sucede a quienes comparten la existencia cotidiana por muchos años, quizás desde el principio. (Viven muy cerquita del monte donde Moisés recibió sus palabras de piedra). Por la mañana, cuando se despierta – duermen el uno al lado del otro –, el hombre es la primera cosa que ve. De rodillas, la cara peluda hacia adelante, los labios salientes entreabiertos, los ojos medio cerrados, el animal huele al humano, reconociéndose a sí mismo, y espera; el humano, de rodillas, los labios, la barba hacia adelante, hace lo mismo. Esperan – en el cielo están todavía las estrellas. Luego, suavemente se acercan, el hocico del uno y el rostro del otro, sus labios se rozan, se demoran, las puntas de sus lenguas se levantan temblando en el aire, inmensa como el desierto es la lengua del camello, pequeña y sin embargo idéntica la lengua del hombre, y aquí está… contacto: delgadamente forman un puente, como si fuera un juego, o tal vez para renovar el pacto, la alianza – antes que el sol apenas nacido por el horizonte pase por encima de la gran piedra y resucite las dunas.

(¿El universo sería un único y repetido movimiento? Mientras un nuevo día empieza en el reino desierto del hombre y del camello, en el momento exacto en que las puntas de sus lenguas se levantan, en la plaza central de un pueblito en el centro de otro desierto, donde el nuevo día todavía no ha llegado y no se sabe si jamás llegará, un hombre y una mujer se levantan de sus sillas de piedra, y se acercan el uno a la otra como si fueran ellos mismos lenguas – acaso sean dos hombres, dos mujeres, en la noche no se puede ver, no importa… Y aquí está… contacto: las lenguas del hombre y del camello, el abrazo que de dos hace uno, la aguja que cae sobre el vinilo y empieza a producir las notas de un vals ♫…)[1]

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[1] Écrire dans une autre langue c’est toujours réinventer une histoire…