Giuseppe A. Samonà
“Ein Hund der stirbt / und der weiss dass er stirbt wie ein Hund / und der sagen kann dass er weiss dass er stirbt wie ein Hund / ist ein Mensch”.
C’est Elisabeth de Fontenay, à l’interieur d’une remarquable réflexion sur l’ineffable et changeante, mobile frontière entre les humains et les animaux (Sans offenser le genre humain : Réflexions sur la cause animale, 2008) qui m’a fait découvrir en traduction cette phrase d’Erich Fried : « Un chien qui meurt / et qui sait qu’il meurt comme un chien/ et qui peut dire qu’il sait qu’il meurt comme un chien / est un homme » (mais l’allemand, je ne saurais dire pourquoi, est ici encore plus proche du centre de l’univers)… La frontière, ou la différence, ne serait-ce pas la capacité de fabriquer des métaphores ? Du point de vue de l’humain, peut-être. Mais c’est surtout au point de vue du chien que j’ai pensé en lisant ces pages. En particulier, j’ai repensé à une petite histoire que j’avais écrite pour un livre sur les chiens, justement, qui n’a jamais vu le jour : elle s’est coincée dans une bouteille, Dogs in the bottle, que j’aurais voulu au moins jeter à la mer… Même pas… Je la sors aujourd’hui de ce livre qui n’est jamais sorti, cette petite histoire, car elle montre, me semble-t-il, qu’à côté du pouvoir de la métaphore, qui se perd parmi les étoiles, et appartient au Ciel, il y a un pouvoir des chiens, qui ne se perd jamais, il appartient à la Terre… Ne sont-ils pas, les chiens, sur cette terre, en raison de leur queue (qu’ils remuent) et de leur extrême gentillesse (ils remuent la queue), la meilleure partie de l’humanité ? (Mieux : les chiens, avec les chats et mêmes les ânes, mes animaux préférés, tous vivant ensemble, avec nous, les misérables humains… ) The story is in italian: I dream of a world in which mes amis francophones, and my english speaking friends, y los amigos que hablan y bailan castillano can read italian, e gli italofoni possano leggere l’inglese, il francese, lo spagnolo, tutti possan leggere le lingue di tutti… ViceVersa’s dream, la utopía más bella. Ed anzi, l’utopia, vorrebbe buttar dentro anche il tedesco, l’ebraico, l’arabo, il turco, il gujarati… Scriverlo adesso, ricordando, mi fa prendere una boccata d’aria fuori da questo mondo di merda…
cane Marco
è la storia per l’appunto la storia d’un cane (anzi del cane, l’idea di cane, ché nel concreto la storia si svolge in più cani). E poi di un uomo, all’epoca un ragazzino, che molto amando i cani si era fatto cane egli stesso, e in quanto cane – o anche, è lo stesso, in quanto tale (cioè appunto cane) – è stato uno dei migliori uomini che io abbia mai incontrato. È chiaro ? (No – Allora mi spiego…).
Marco era un mio amico d’infanzia che amava i cani. Ne aveva tre o quattro. Vivevano insieme in una grande casa nel quartiere Italia, a Roma. Almeno due volte al giorno li scendeva a passeggio, come si dice pudicamente nel linguaggio dei cani. Tutti insieme, due volte, ma anche poi uno e poi un altro, perché, spiegava, era importante che si sentissero amati tutti insieme e uno per uno, e viceversa (Marco amava esser amato da tutti insieme, e da uno alla volta) – ciò comportava un considerevole numero di ‘discese’, diciamo almeno una decina : Marco insomma passava una gran parte del suo tempo ‘a passeggio’, ora con tutti i cani, ora con un cane solo (e poi un altro, un altro, un etc.). Così, la gente che lo vedeva diceva : Ecco Marco con i cani, o anche (un etc., appunto): … con il cane, o infine (i cani da sempre attirano l’attenzione più di chi li accompagna) : Ecco il cane di Marco. Ma, lo si ricordi, la storia si svolge a Roma, e a Roma le parole sono affettate, arrotate, masticate… – insomma, rispettivamente si diceva : Marco ch’ii cani, Marco cor cane, cane ‘e Marco, anzi, più esattamente, biascicando : Marchii cani, Marcoor cane, canee Marco – con un attestarsi sempre più sicuro su quest’ultima forma : che finì per appiccicarsi indistintamente alle bestie, alla bestia, e al padrone. Dovremmo forse vedere in tutto questo impastato dislocar parole una sorta di premonizione ? o, per dirlo con più rigore, il primo segno, sia pur magico, di un processo di caninizzazione in atto ? In ogni caso, anche a volersi limitare prudentemente ai fatti, non si può non notare che chi vive insieme finisce per assomigliarsi: e il mio amico Marco passava la vita divisa fra appartamento al quartiere Italia e passeggiate in strada, ma sempre con i cani. Intendiamoci (voglio essere onesto), sto parlando della porzione di vita del mio amico Marco che abbiamo vissuto insieme: che era molta, e bella, ma non tutta – nell’altra vita, quella che non vivevamo insieme, i genitori dell’amico Marco erano separati, e l’amico Marco viveva ora con l’una ora con l’altro… Ma importa ? o meglio, importava ? No, quest’altra vita per noi non era che un’ombra, un’astrazione, soltanto importava a noi la nostra, di vita, e nella nostra vita, io con altri amici ci ritrovavamo nel grande appartamento del quartiere Italia dove l’amico Marco viveva solo con i cani, perché il proprietario adulto, credo il padre, era quasi sempre via per affari – ed eccoci spontaneamente uniti in banda, una decina, senza distinzione fra ragazzini e cani (eravamo comunisti, che meraviglia !), scatenati nel dolce appropriarci del luogo, e più in là (fuori dalla finestra, il mondo !), ognuno con la propria creatività, chi ridendo, chi urlando, chi abbaiando, chi gettando nel cortile balle di cotone inzuppato d’alcol e cerini o con fionda contro i vetri delle macchine che sotto sfrecciavano dolorose biglie di vetro, ferro e fuoco appunto, ma innocenti, wouf wouf (which means: bau bau) – è forse mai morto qualcuno ? o anche rimasto ferito ? Eppure una volta è salito il portiere (il Portiere) – Marco abitava al quinto piano – inferocito (s’inferociva facilmente, il brav’uomo, e questo era per noi, regazzini e cani, oggetto ambiguo di paura e divertimento), ammettiamolo, fors’anche un po’ bruciacchiato, ma solo un po’, vale la pena di arrabbiarsi per questo ? Eppure appunto era salito inferocitissimo, e stava lì davanti la porta, con (il mio amico) Marco che coraggiosamente era andato ad aprirgli. Scambi sempre più accesi fra (il mio etc.) Marco, che difendeva la soglia, e l’inferocito incalzante portiere che avrebbe volouto controllare cosa succedeva dentro ma non poteva ché l’eroico difendente Marco non recedeva di un millimetro, mentre noi dietro nascosti – non per paura ma perché il portiere non doveva sapere il nostro numero consistente, e tuttavia impauriti lo eravamo e proprio per questo, che bello, anche divertiti, esistenti – noi nascosti insomma impauriti e impavido-divertiti sghignazzavamo abbaiavamo in silenzio. Quando ecco il Portiere affondare, imprevisto: … Ho trovato in terrazza delle cacche – va detto che l’elegante palazzina in cui si situava l’appartamento di Marco comportava un sesto piano, e si chiudeva appunto con un ampia terrazza condominiale – e Marco pronto, educato : Guardi che io i cani li scendo due volte al giorno… Al che il geniale Portiere, imprevedibile e imprevisto (e si noti nel climax finale il passaggio da ambo le parti al tu « d’ira ») : No, non hai capito, io so riconoscere, quelle sono cacche umane… Al che Marco livido di rabbia : Ma che sei scemo, io c’ho ‘r cesso ‘n casa, mo vvado a cacà’ ‘n terrazza, a gennaio, cor freddo che fà ????!!! Mentre noi gioiosi furiosi incontenibili – cosa mai potevano più contare le convenienze ? – irrompiamo gridando ridendo abbaiando, e fugge il sorpreso Portiere – ♫ viva la libertà. (Abbaiando, chi ? I cani ovviamente, ma anche il loro capo, e il nostro. Sì, Marco sia pur parlando abbaiò – Ma che sei scemo etc. fu detto abbaiando, parlava e abbaiava, era lo stesso, e infatti capivamo noi e loro, i cani. Un miracolo. Dov’erano gli sciocchi che lo prendevano in giro da anni per un presunto difetto di pronuncia ? Wouf wouf, miracolo, miracolo. Miracolato anche il Portiere, di cui solo adesso misuro la portata del genio. Perché egli, tutti precedendo, per primo aveva intuito l’inquietante coincidenza fra l’uomo e la bestia, anche se certo confusamente, magari odiosamente, e senza potere – gli mancò forse il coraggio ? – tirar le conclusioni della sua faticosa riflessione scatologica – cacca umana versus cacca canina – e, anche questo lo capisco soltanto ora, non noi con le nostre grida, né i cani abbaiando, ne provocammo la fuga, ma Marco, il solo e semplice Marco, che irremovibile gridabbaiando sulla soglia gli era apparso per quel che veramente era, la soluzione tremenda dell’enigma bicacchico da egli, il Portiere, sollevato : cane ! sì, proprio lì, in quel momento, il regazzino Marco si rivelava, concretizzava la sua vocazione, si era fatto cane – il miracoloso processo si era insomma compiuto : cane Marco, cane Marco. Wouf). Viva, sì ♫ viva la libertà, ed evviva cane Marco.
Dice – sapete la voce fuoricampo che intercala sempre dicendo… dice – ma invece no, non dice niente, l’ho saputo, che è tutta n’artra cosa… Ho dunque poi saputo che l’altra vita è continuata : i suoi genitori riuniti dalla morte, lui stesso ha fatto tre o quattro figli e altri cani; si è, mi dicono, un po’ appesantito (ai tempi della mia storia era un fringuello). Io anch’io appesantito – la mia altra vita – non son diventato né ricco né famoso, e a questo punto comincio a dubitare. Ma sogno, e questo posso continuare a farlo, sogno che un giorno queste pagine possano arrivare all’amico Marco, e che lui, malgrado il peso degli anni e la paternità, ci si riconosca. Abbaierebbe di nuovo, e a me sembrerebbe di essere immortale – e potrei finalmente morire. Cane Marco, wouf wouf…