Giuseppe A. Samonà
Punti rossi e mucchietti di pietre che stanno in equilibrio l’una sull’altra: l’ultima volta che li ho visti è stato alla fine di questa estate, su per le montagne di un’isoletta all’estrema periferia orientale del Mediterraneo. E mi sono improvvisamente ricordato di quando li avevo visti per la prima volta, più giovane di una quarantina d’anni, su per le ben più alte montagne del Tibet e del Nepal, dove perdersi equivale a morire; o più a sud – era lo stesso andare – nelle foreste del Kerala e del Tamil Nadu, anche se là, mi sembra, furono piuttosto intrichi di ramoscelli, o tacche sulla corteccia degli alberi, o ancora graffi sulle rocce lungo il cammino. Visti, o forse dovrei dir meglio: riconosciuti – perché probabilmente li avevo già visti senza vederli, nelle passeggiate della mia infanzia attraverso i boschi siciliani, o sul Carso: per vedere vedendo, infatti, bisogna essere pronti. Poi, ho continuato a vederli, cioè a riconoscerli – che fossero punti, pietre, tacche, ramoscelli, o altri graffi sapienti – su per le Ande, in Etiopia, nel deserto d’Egitto, e in tanti altri luoghi.
Ma ecco: tutti mi sono sfilati davanti agli occhi questa estate, come raccontano succeda con l’intera vita quando si muore. (Lo raccontano gli eletti, che muoiono ma poi tornano indietro, appunto a raccontare…) Del resto, è proprio della vita che è questione, della vita nel senso più totale, profondo del termine: viverla sino al rischio di perderla, rischiare di perderla come unico vero modo per viverla. Chi intende il viaggio innanzitutto come lento spostamento a piedi – ma anche, pur servendosi di altri sistemi di segni, chi percorre i mari in battello – sa già di cosa parlo. Per gli altri, a mo’ di esempio, valga il breve resoconto della nostra recente avventura estiva.
Dovevamo raggiungere la vicina Khoriò, ma un geologo incontrato per caso in cammino aveva proposto di condurci con la sua auto sino al Monastero, che si trova come ritirato all’estremità dell’isola, in fondo a una vallata – e avevamo accettato: cambiare improvvisamente piano è la prima grande libertà che si ritrova viaggiando. Da lì, il geologo si era diretto a piedi verso la costa per certi suoi rilievi, noi avevamo deciso di seguire il lungo sentiero montagnoso, visibile sulla cartina, che attraverso ben sette valichi ridiscende a mare dalla parte opposta, di nuovo sulla costa abitata: certo, era il tragitto più difficoltoso di tutta l’isola (segnalava una nota a margine della cartina), ma erano appena le undici del mattino, avevamo con noi tre litri d’acqua e qualche biscotto salato, e ci volevano più o meno quattr’ore. Potevamo – e abbiamo oltrepassato il varco che si trova proprio accanto al Monastero e seguito il sentiero che per qualche decina di metri ne fiancheggia il muro, per poi inerpicarsi su per la montagna, verso il primo valico.
La difficoltà principale, più che le salite o le discese a volte assai ripide, o gli intrichi di rovi, i cactus, le ortiche, i passaggi in cui bisogna arrampicarsi sulle rocce, il caldo, il vento – che pure esistevano, ed hanno avuto la loro parte – era quella comune a tutti sentieri che si allontanano dall’abitato. Evidenti sulle carte, continuamente ti mettono alla prova nella realtà, la traccia si confonde, scompare: a destra o a sinistra? A sinistra…: ma dopo un po’ ti rendi conto che non arrivi da nessuna parte, la vegetazione si fa troppo fitta, le rocce invalicabili, e torni indietro, era a destra… E così via: in continuazione ti perdi e ti ritrovi, ma attento, perché se ti smarrisci troppo a lungo rischi di non poter più ritrovare il punto da cui si diparte la giusta via. Sempre cammini sul filo: il rischio di perderti del tutto sta sempre là, in agguato. Ma sempre in agguato anche loro stanno là, visibili solo a chi conosce l’amore che unisce i cammini del selvaggio, proprio quando il sentiero si fa più confuso, o sparisce. I segni. Noi rallentiamo, a volte ci fermiamo, ci guardiamo intorno, lontano, vicino, ed improvvisamente – com’è possibile? un istante prima non c’era – appare: il punto rosso dipinto su uno spunzone di roccia, o il mucchietto di pietre in equilibrio, o entrambi… Ma se non si vedono né l’uno né l’altro, bisogna tornare indietro, ma con prudenza, perché forse invece è proprio là, non hai guardato bene, e l’errore sta proprio nell’abbandonare quel cammino che un attimo ancora ti rivelerebbe il segno amico. E, come spiegarlo? ogni volta che sul filo del rischio avvisti un segno, è un momento di gioia, una scarica di energia che inonda ugualmente cervello e gambe, e più grande è il brivido di non riuscire a vederlo più grande è la gioia di averlo infine trovato. Così, di segno in segno, di valico in valico, è scomparso il Monastero dietro di noi, poi è scomparso il mare che per un paio di ore buone ci ha seguito sulla nostra destra, e siamo arrivati alla fonte delle capre, tutta in altura, che si trova anche sulla cartina: ora è all’orizzonte, di fronte a noi, il mare. Proseguiamo: il punto, il mucchietto… Sono di nuovo, come in passato, il nostro progetto, il nostro obiettivo, il senso stesso della nostra vita… Perché indicano la via e la fanno rilucere d’amore: quello per cui, mossi da una sorta di solidarietà collettiva per tutti coloro che, più inesperti, si metteranno in cammino, altri anonimi camminatori li hanno adagiati là, e poi là, e poi là… – dicono dell’avventura umana in ciò che ha di più generoso, luminoso, umano. Riconoscendoli – ed ognuno di essi è conquista, ondata di felicità, conferma del nostro essere in cammino, cioè vivi – entriamo a far parte di un’invisibile eppur solida comunità che vive nel tempo: per quei segni, per quel filo d’amore e di sostegno che corre di punto in punto, noi, solo noi, siamo umani. Eccola, la libertà: poter scegliere, creare, cambiare in qualunque momento il proprio percorso, esser soli e nel contempo amati-amanti, insieme ai tanti altri che ci hanno preceduto o che ci seguiranno. Al contrario di quel che succede nei socials e nella società che su di essi si fonda, dove dentro la rumorosa super-visibile condivisione si nasconde una terribile, silenziosa solitudine, ora – pensavo mentre avanzavo nel cammino – ci ritroviamo amorevolmente, silenziosamente, durevolmente insieme, attraverso infiniti secoli, proprio perché coraggiosamente, istantaneamente, ontologicamente invisibili, soli: e non più gratuitamente schiavi, ma finalmente, veramente liberi. Vivi. Pensavo, o meglio, pensavano le gambe, come nella meditazione dei monaci zen: la testa è limpida, è un lago in cui tutti i pensieri stanno là in simultanea complicità, come fossero bolle, e sono mille i pensieri, e anche nessuno, sono un unico pensare, ma senza pensare, un pensiero che non è pensiero ed è più del pensiero, e che i radicali dell’ora-te-lo-spiego-io chiamerebbero delirio, sovreccitazione mistica dovuta al caldo, fatica, endorfine, droga da movimento (il che è senz’altro vero, com’è vero che l’innamoramento è una scarica di adrenalina nel sangue), insomma un pensiero leggero, spensierato, uno spensiero, ecco, che solo adesso, che sto qua bello seduto a scrivere, si srotola nel tempo, e temo che quel che appariva evidente alle mie gambe-cervello possa ora, sdipanandosi sulla carta, risultare incomprensibile, assurdo, o magari ridicolo.. E anche appunto spensavo: quei punti, quegli elementari agglomerati di pietre, sarebbero come corpuscoli di energia, atomi, ognuno di essi rappresenterebbe in sé l’intero universo anche rinviando al successivo, insieme al quale formerebbe una rete infinita, infinitamente grande e minuscola (le galassie, i sistemi solari, una lumaca che mangia una foglia, gli Improvvisi di Schubert, il muretto giallo nella Veduta di Delft di Vermeer, due vecchietti che ballano un tango, riincontrare una vecchia amica dopo quarant’anni…), inestricabilmente fragile e potente, proprio perché integralmente umana, una sorta di scheletrica dimostrazione, quei punti, quei mucchietti, de l’amor che move il cielo e l’altre stelle. (È irrisorio, minuscolo appunto, ma voglio ricordarlo: anche noi due, lungo il cammino, abbiamo qua e là amato, innalzato mucchietti di pietra nei faticosi passaggi in cui eravamo diventati più esperti…)
Ma che dico, il senso? Sono la vita stessa, quei segni, la vita dal di dentro. Non che ne abbiano l’esclusiva, ovviamente: ma hanno la capacità, in senso letterale, di contenerla, la vita, di aderirvi completamente, aspirando in se stessi tutto il tempo – non esistono più progetti, proiezioni, al di fuori del loro orizzonte. Un punto da raggiungere, raggiungerlo, una scarica: come creare, mattone dopo mattone, le mura della propria futura casa; come costruire un tavolo, o cuocere un pane. Come i bambini alle soglie della parola che giocano insieme nella sabbia, o dentro le pozzanghere, e la loro gioia, o quella dei matti, e la disperazione. Come sdraiarsi sul divano e aspettare, dopo aver fumato l’oppio. Come l’orgasmo. Come quando si lotta contro una malattia-mostro che ci divora da dentro, vuole ucciderci. Come quando si lotta a fianco di chi lotta contro quella malattia-mostro. Come tutte queste cose, con la stessa forza, splendida ma anche tenebrosa, quei segni, noi dietro a loro, sono quel che fra un’inquietudine e l’altra sempre ci affanniamo a capire: la vita… Tutto il resto – quel che ci agita, ci tormenta nel castello di responsabilità e lavori in cui si svolge la nostra esistenza, tutti gli abituali desideri – ci appare d’improvviso un insensato, un vano fardello: semplicemente camminare, robustamente e lentamente, trovare il prossimo punto rosso è ben più importante che vincere un concorso, un posto, un premio. Più sublime del più sublime capolavoro che si possa scrivere o dipingere. Mentre son passate un altro paio d’ore… il punto, il mucchietto… e, raggiunto il quinto valico, la vediamo, semisepolta nella verdura giù in fondo alla valle: la Chiesetta, anche lei sulla cartina. Con lei come punto di riferimento – cioè un punto rosso magicamente dilatato – scendiamo, incespichiamo, quasi rotoliamo a valle. Siamo giù – sosta alla solitaria Chiesetta, commovente – il mare è di fronte che quasi sembra di poterlo toccare, anche se non è quello giusto, a sinistra dobbiamo andare, di nuovo su, un punto rosso, un mucchietto, un punto rosso, fino al largo spiazzo che sta a cavallo del penultimo valico, come un balcone cui fa da muro all’indietro la montagna, e di nuovo di fronte il mare, ma un altro, un’altra baia, che ancora non è quella giusta neanche questa. C’è infatti da aggirare la parete rocciosa, un punto, un mucchietto, e poi attraversare l’ultimo valico, il cammino è – sulla carta – molto più breve di quello già percorso, e – sembra – evidente. Insomma, è quasi fatta.
Quasi. Forse la più pericolosa delle trappole di chi percorre i sentieri della terra o dell’acqua. Quasi è come quando uno deve fare pipì e sta per arrivare a casa: più svelto dai, presto, e si allentano i muscoli, cala la concentrazione, sale l’eccitazione per l’obiettivo vicino, e si rischia di farsela addosso… Insomma, involontariamente (noi) ci si distrae, si smette di combattere, si procede in automatico. E d’un tratto – il sentiero è scomparso già da un po’, l’ultimo punto o mucchietto è lontano – … andiamo giù di qua, no aspetta torniamo indietro, è su che dobbiamo andare, ma cammina cammina ecco che arrampicarsi diventa troppo impervio, punti o mucchietti non se ne vedono, era l’altra la strada allora, torniamo indietro, ma dove? Era più giù, no, più a destra, a sinistra… e improvvisamente ci accorgiamo, con un brivido, che il mare è completamente scomparso, e che al suo posto intorno a noi da tutte le parti si sono moltiplicati i picchi montuosi. Si succedono rapidamente due o tre dispendiosi, rabbiosi tentativi in tutte le direzioni, ma niente, impossibile ritornare a orientarsi, il mare è scomparso, scomparso, solo montagne, sempre uguali ma anche diverse come se invece di avanzare o tornare indietro ci addentrassimo sempre di più in un universo sconosciuto – e nessun punto rosso, nessun mucchietto. Improvvisamente ci accorgiamo, che anche occupa un tempo spaventosamente vasto: stiamo – com’è possibile? – girando in tondo da due ore. È chiaro, adesso: ci siamo irrimediabilmente persi. Perduti. Inzuppati di sudore, per il molto errare a vuoto e il gran caldo, con ormai neanche un litro d’acqua a due, ma meglio non toccarla, chissà cosa ci aspetta. Chissà? Noi, lo sappiamo, anche se non osiamo dirlo: il sole sta calando alla nostra destra, la luce cambia, la brezza che piacevolmente rinfrescava il sudore è diventata un robusto sempre più robusto meltemi, che ce lo ghiaccia addosso – e a un certo punto lo dico, mentre come se ognuno di noi due leggendo nei pensieri dell’altro ci siamo fermati: passeremo la notte qui, ci rimetteremo a cercare alla prima alba. E – sempre il caldo, il freddo, la fatica, la chimica, certo… – ero di nuovo in Nepal, e con tutti i punti e mucchietti incontrati nella mia vita – perché non è stata una pausa, in cui distesamente si pensa, ma una sorta di trance, e il cielo cambiava di colore, il vento soffiava impetuoso, sorprendentemente sempre meno caldo. Ipnosi – e come quella volta in Nepal, ho sentito che potevo scomparire, cioè morire, anzi che già lo stavamo (morendo), come quando in mezzo alla neve ci si intorpidisce e si perde il senso del tempo e del proprio corpo. Ma più che alla troppa poca acqua, più che al freddo, oramai evidente, e sempre più intenso, più che alla notte violenta che ci aspetta, la morte è legata, come allora, alla radicale scomparsa dei puntini e dei mucchietti: ci muoviamo in un altro universo da cui, sembra, neanche la luce dell’alba potrà farci uscire. Eppure non c’é paura, non panico, né inquietudine, solo la sensazione condivisa – telepaticamente so quel che lei sta pensando, lei sa quel che sto pensando io – che la nostra solitaria scomparsa è l’altra faccia, necessaria, e non meno straordinaria, della straordinaria vita che abbiamo tramato sino a un attimo prima collegando puntini e mucchietti. E proprio come quella vita straordinaria, anche minuscola, irrisoria, fragile. Anzi, vita e morte sono una cosa sola, abitano lo stesso spazio, ma in un tempo diverso, come il giorno e la notte, anche se oramai noi sentiamo di esserci definitivamente dentro, in quella notte, in quel tempo: siamo già morti? Questa cosa dal di fuori immensa, la morte, da dentro sembra insomma del tutto banale, com’è banale la vita che abbiamo lasciato. Ed entrambe parlano carnalmente di sensazioni e di corpi: infatti, l’unica mancanza nel tempo freddo che ci avvolge è il sapere che nella vita ci sarebbero ad aspettarci l’orata che proprio quella mattina il nostro amico pescatore ha messo da parte per noi, con in fresco una bottiglia di retsina, che a noi piace come fosse champagne. Saremmo dunque, e per sempre, vivi e morti? Ma appunto, a differenza del Nepal, non ero solo, eravamo due: da soli, si può morire, in due, vien sempre voglia di salvare l’altro. E ho detto (eravamo sul valico, il vento soffiava tremendo): cerchiamo un riparo. E ho notato che il sole era oramai prossimo a sparire alla nostra destra, e quindi il sud sud-est, cioè la direzione della nostra destinazione, della vita, doveva essere perpendicolare, pendendo un poco a sinistra… Insomma, fra le montagne che ci circondavano da tutte le parti, come se il valico fosse infinito, perché non provare – appunto, salvare l’altro – anche noi a pendere a sinistra? Non che pensassimo di salvarci subito, ma forse ci saremmo avvicinati, e alla prima alba sarebbe stato più semplice ritrovare il cammino. E ci siamo inerpicati, aggirando e salendo, per raggiungere la cresta, aggrappati alle rocce, strappandoci i vestiti, fra rovi e spunzoni, sobbalzando in continuazione, perché quasi a ogni passo un piede scivolava, rischiando di trascinarci nel vuoto, e dappertutto sempre e solo montagne, anche una volta raggiunta la cresta. Ma avanti! ancora un passo, poi un altro, un altro, e d’un tratto, come un’esplosione, una luce violenta, eppure dolce: come calato dal cielo appare. Il punto rosso, con sopra il mucchietto: lo fissiamo, estasiati, come se fosse il monolite di 2001 o anche, più semplicemente, come se ci fosse apparso Dio, un dio. (Questo lo dico adesso, pensando; allora, spensando, era Dio, un dio d’amore messo là dall’umanità creatrice ed amica che ci aveva preceduti…) il punto, il mucchietto, e dietro, come d’incanto, immenso c’è il mare, quello giusto, che cercavamo da ore.
…
In À bout de souffle (Godard et Truffaut…), Patricia, la deliziosa Jean Seberg, intervista un famoso-insopportabile scrittore, e gli chiede: Quelle est votre plus grande ambition dans la vie? E lui, dopo un attimo di riflessione: Devenir immortel, et puis… mourir! Ecco, oggi mentre scrivo di quella avventura mi sembra finalmente di afferrarne tutto il senso: per essere immortali bisogna passare attraverso la morte, o più precisamente essere insieme vivi e morti, quel puis sarebbe in realtà un anche, una contemporaneaità. In quelle ore ore fra le montagne greche, saremmo forse diventati dèi?