Per cominciare a scrivere, se scrivere vuoi, devi leggere e leggere ancora, non solo poeti ma letteratura varia il più possibile, con una certa preferenza data a testi cosiddetti poetici. Poi, non devi mai sentirti in obbligo di niente, nemmeno di scrivere alcunché – tipo: cascasse il cielo, tre pagine al giorno –, se non ti credi spinto quasi tuo malgrado all’atto temerario di scrivere. Ogni vera scrittura è necessaria, e a rischio. Deve perciò servire a qualcosa – o perlomeno a qualcuno (il famoso “almeno un lettore”). Questa sarebbe la cornice o gabbia, per così dire etica, del tuo futuro mestiere.
Non ti lasciare irretire da pezzulli creduti à la mode come:
Vivi ora, fallo subito, la vita è breve. Vissima. Sima. Ed è subito pera. Avvocato accoltellato alla gola dalla ex compagna; è morto. Spreco di cibo, gravissimi due centauri. Per vivere col sorriso la stagione del foliage. Il sindaco di Sant’Agata parla di “rammarico per quanto avvenuto”. Rumori di fondo, sciame elettronico. E quando ci lascerà questo brusìo insensato e noioso? Mellie Pinco, selfie sexy su Instagram in lingerie nera e tacchi: l’ex modella stupisce e fa subito il pieno di like. Niente di personale, sia chiaro, a me sta a cuore il futuro del paese se prima di morire lascia un milione di euro al comune. Il giovane ha cercato di avere rapporti con un cumulo di foglie secche cadute in strada: arrestato. Ovviamente lo scatto è stato fatto in modo tale da non mostrare le intimità né della madre e né del figlio. Per me sei incommensurabile detto ciò. Posa nuda a 46 anni: lieve ischemia. Il codolo è la parte terminale di una lama andata molto storto se la soluzione è di tenere un coltello alla gola. Sono single e felice ma voglio innamorarmi. Ne ho il sacrosanto diritto oddio. Resta impigliata al cancello di casa: muore a 18 anni. Totalmente WTH cioè.
In tempi di Internet e di social, diffida innanzitutto dell’allusività, dei sottintesi, del “va da sé” fra amici (anzi friends). Pensa che molti interventi commenti accidenti hanno là una durata di vita molto breve, e dopo due o tre mesi non vengono più compresi da chi volesse (per caso) ancora leggerli – ma perché, mi chiedo? – Tu devi scrivere come se fossi convinto di diventare, bene o male, un classico; un classico moderno, s’intende, o addirittura ipercontemporaneo. Ossia uno che, al momento della stesura, si sia posto “en avant” (Rimbaud). Vale a dire: rivolto a lettori possibili, “a venire” (Fortini), sempre e ovunque. E magari pure in quanto autore postumo, non importa.
Diffida pure di quelle sensazioni che ti saranno parse sicuramente profonde e poetiche, ma diventate incomprensibili addirittura a te stesso, dopo un certo intervallo. Così alcuni brandelli di frasi o quasi versi regalati nel sonno o dormiveglia, deludenti quando non siano già cancellati al risveglio. Come: Dammi forte la mano per entrare nel bosco. Brivido del crepuscolo. Mi stimolava osservare il modo bizzarro in cui alla luce del sole si aggregava la polvere, nei posti meno prevedibili poi. Il pomeriggio opprime chi è nell’attesa di un qualche evento. Vagava il pensiero del nulla per conto suo, mentre ero circondato dal ronzio di molte mosche, invisibili fuori della finestra, fuse nell’aria. La luna dicotoma lucentissima quasi posata sul tetto richiamava il profilo di lei, impenetrabile e pregno di un’indefinibile rancore, provocandogli uno strazio quasi doloroso. E se fosse partita Penelope? Un’angustia da cui non usciva se non precipitando di colpo in un sonno greve, serrato come una canna di pozzo. Come galleria profonda di talpe timide. E musica sommersa calamitata dalla gravità intorno. Ballavamo lentamente, appiccicati aaah.
Dire quell’alba era indimenticabile non basta; tanto, nessuno l’avrà vista come te. Ma pure l’alba di albedine (allitterazione + figura etimologica e quasi dittologia) sarebbe insufficiente a fare di un vago “poetico” poesia. Questa è in genere restia ai sentimenti. Anzi, rifugge dalle emozioni (T.S. Eliot), senza negare pertanto che “senza emozione non si dà poesia” (Max Jacob). La poesia è di per sé paradossale. Perché dovrei subire quegli ombelichi infossati fra onde sovrapposte di ciccia – eppur denudati – solo in omaggio (pregiudiziale) alla moda dell’anno? Così come il “so romantic”, neanche l’invettiva di per sé fa poesia. E nemmeno l’apparentemente “semplice” quotidianità (Andreas Becker insegna: “Parole come bigodini, come mollette, parole come popolari”). L’antica definizione di Dante non contemplava niente di tale (bensì: invenzione – la fictio –, costrutto con retorica, musicalità) e insisteva sull’unità o sintesi dell’insieme (il poiein, alla fine, quale atto, azione compiuta). La stessa invenzione assoluta è merce rara, si trova sì e no una volta ogni secolo (Rimbaud), e si limita sovente al riciclaggio di buon livello, ossia a riletture e riscritture continue (di qui la necessità di leggere, affermata d’acchito e da ribadire ancora, senza limiti). Non è da escludere l’esercizio antico dell’imitazione, delle “à la manière de”, dei “pastiches” (Proust). Il tutto complicato, all’occorrenza, dall’adozione di una determinata gabbia metrica – poi da distruggere tranquillamente se si vuole scorrazzare liberi per altre spiagge. Alla fine, cancellare tutto ciò che vien detto “romantic” dagli amici anglosassoni. Conservare l’osso.
Ma allora, tanto vale affidarsi agli algoritmi poetici, poco inclini alla sentimentalità, come in effetti pretendono alcuni brillanti teorici attuali? Occhio però alle conseguenze, anche immediate. Se l’I. A. consente di pensare ormai per così dire “umanamente” – o “razionalmente” in senso lato –, prevedendo all’istante la parola che stai per scrivere (ad es. se cominci a digitare spia- ti si propone spiaggia, o spiare, o spiazzato; mentre volevi scrivere magari spiaccia o spiallato, meno prevedibili) col pericolo di farti perdere il filo della tua propria, esitante espressione… Ma l’I. A. ti può anche, in altre forme programmate, offrire una bella figurina illustrativa: come un tramonto sulla città se hai digitato sera; ma tu, quasi come Rimbaud diceva dell’alba, volevi tentare “la sera mi bacia con lenta tenerezza”, magari senza ombra di abitazioni umane in giro, o addirittura invece in un vano vuoto nudo e chiuso, in una stanza, chissà. Chissà. I risultati suggeriti dall’I. A. potrebbero impoverire presto, anziché arricchire l’espressione, rendendola “spontaneamente” sempre più conforme a quanto passa il convento: ossia la doxa comune. E difatti, il linguaggio che si orecchia in giro, o si legge in rete è via via sempre più scontato, stereotipo, prevedibile appunto dall’I. A. (o viceversa?)… Abbiamo già in noi tale tendenza all’espressione invalsa, alle visuali banali, non aggiungiamo acqua fredda all’acqua calda – o pulci al mercatino.
Il poetico può essere sì, tra le sue cento o mille definizioni possibili comunque insufficienti, proprio “imprevedibile” – come del resto è sempre stata la semantica profonda di un discorso umano, al di là della mera lettura semiotica invalsa verso la fine del Novecento. In questo campo, le scienze cognitive, velocissime e in costante progressione, hanno ancora parecchio da fare. Sia pure, come sembra acquisito ormai, aggiungendo un granello di “fantasia” o meglio forse di azzardo (ché “fantasia prevedibile” mi sembra un ossimoro strambo) agli algoritmi. E, come di fatto dicono, cominciano a programmarlo. Ce la faranno? Potrebbe essere una pura illusione sia la “razionalità” della metafora informatica, sia il suo potere creativo; e una truffa la pretesa maggiore libertà dei social media (in parole povere, ampiamente monitorati come tutti sappiamo). Torniamo anzi al lapis, alla biro, al gessetto – non sempre magari, ma ogni tanto utili – appunto per migliorare le nostre capacità cognitive: questo, soprattutto per i più giovani (e fin da piccoli) non è affatto uno scherzo. Né un nostalgico appello ai “bei tempi passati”. Ma una misura preventiva minimalista per non incrementare il cretinismo e la dimenticanza spaventosa che incombono su di noi in ogni regione del mondo unificato. Sconsigliabile invece la penna d’oca, per ovvi motivi di praticità ed ecologia (lo stesso s’intenda della pergamena). Il ritmo e la forma sono dati anche dalla mano scrivente, polso e dita, e battere sui tasti o premere pulsanti non basta a sviluppare né il pensiero né l’espressione, né tantomeno la varietà visiva, spaziale dei testi prodotti (non stiamo parlando solo di calligrafia).
Codicillo, tornando all’indispensabile pratica della lettura: da privilegiare, anche lì, testi non pre-digeriti dai filtri elettronici, ma possibilmente integri e meglio se cartacei. La dispersione del “cerca trova” ipertestuale distrugge la qualità primaria di ogni discorso umano “naturale” (ossia, va da sé, culturale): la sua coerenza e dinamica interna, e il suo rapporto globale, non frammentato, con un insieme complesso quanto indefinito di altri discorsi prodotti prima e dopo di esso. Capillarità del sangue vivo, non pulverulenza accumulata dal big data. Insomma, prova a leggere opere complete, inserendole ma a modo tuo e con le tue capacità cognitive proprie nell’arcitesto che via via andrai costruendoti. Nessuno, né maestro né strumentazione artificiale, potrà mai farlo al posto tuo e con economia di sinapsi neuronali tue. Purtroppo sì, ci vuole tempo, ma è il tempo medesimo del testo, il suo spazio-tempo letterario: e non abbiamo altro. Amen(te).
Serge Ouaknine en nous envoyant sa “Lettre a une jeune actrice avant son examen” nous a écrit ceci:
J’ai écrit le texte ci-dessous il y a une vingtaine d’années à Montréal dans un blog de théâtre… je répondais à une jeune actrice qui demandait conseil avant son examen. Quelques années plus tard Catherine Cyr mon assistante prit l’initiative de l’envoyer à la Revue Jeu de Montréal qui l’a publié. (…) Je ne sais s’il a bien vieilli et s’il peut toucher encore un artiste contemporain…
Nous avons décidé que sa lettre touche encore, la voici:
La fiction doit l’emporter sur la didactique. Brûlure de toujours… Double visage de lʼartiste de dire et de laisser parler… Il faut faire avec ses démons…
Ce qui est important pour vous, c’est de savoir
« nuancer » votre jeu par des ruptures claires et parfois abruptes. Quand et où
la voix est très rageuse et quand se perd-elle dans une fluide nostalgie
(dans la même phrase). Ne montez pas la voix à la fin des phrases, défaut des débutants.
Ne criez pas les mots « importants ». La vérité est un énoncé du silence.
Dites à contresens, à contre-courant, les mots
que vous croyez importants. La vérité est un paradoxe, pas une thèse… quand
elle tombe dans le grave et puis le silence et puis quand elle s’accélère.
Ce qu’on doit croire, c’est vous, pas les mots.
Jouez vite, furtivement, pour effacer le sens des mots qui est déjà là, dans le
texte. Mettez l’accent sur un détail du corps. Un détail. Ne vous agitez
pas. Faites rire et pleurer en même temps une phrase. Le théâtre est le lieu où
se répare un deuil, où se confirme un ressentiment de dépossédé ou lʼurgence
dʼun désir… Soyez « vulgaire » ou détrônée, mais avec élégance.
Ne cherchez pas l’intelligence, c’est le rôle
de l’auteur pas le vôtre. Vous devez demeurer musique et vibration des
organes… Seules de bonnes ruptures de jeu font entendre la continuité du
personnage… Le jeu est une « démesure », un excès non télévisuel, une
amplitude qui doit émouvoir le ciel. Soyez droite et souple…
Regardez loin et parfois faites sentir que c’est à
vous-même que vous parlez, comme une confession intime, et, dʼautres fois, que
c’est une adresse à la salle entière, simple métaphore de l’humanité entière…
Les mots sont une danse, une rage ou une
prière… et parfois une déclaration d’amour. Toutes les déclarations d’amour
ne sont pas des prières mais des appels et des revendications terribles et
parfois des soupirs de honte.
Cherchez le héros chevaleresque et impatient et
en même temps le vaincu errant et qui accepte la défaite… On ne fait pas deux
fois le même cadeau. Aussi, ne vous enfermez pas dans la monotonie du grand
flux où vous croyez vous fondre en votre personnage. Même les litanies ont des
nuances et des stances qui altèrent le cours du réel.
Ne comptez pas sur votre « partenaire » mais
sur ce que vous lui offrez. Certes, un bon partenaire participe de la poésie de
la rencontre, mais dites-vous que vous êtes le timon du poème à lʼécoute du
vent. Et que parfois vous êtes le vent, briseur de cargaison…
Une chose est certaine, l’art a une fonction «
réparatrice » si c’est le langage qui est honoré. Je dis réparatrice et non
thérapeutique. Notre époque confond tout. La réparation concerne le monde. La
thérapie concerne le moi seulement. Si ces phrases dont vous êtes
lʼambassadrice sont la nécessité du poète, il faut les laisser aller à leur
vide naturel par une vacuité intérieure. Votre absence aussi est féconde, une
absence attentive – car elle exprime un état du monde, l’heure juste d’une vie.
Lʼart n’est pas moral. Il faut savoir dire «
non » par le rôle, dans la situation, mais pas à votre partenaire à qui vous
adressez en permanence un « oui ». Un « oui » inaudible. Vous nʼêtes pas le
personnage mais son hôte salvateur, son avocat, partie prenante et lointaine en
même temps. Cʼest cette distance bienfaisante qui permet le flux du vrai.
Dans un rôle, ce qui est « juste » se limite à
un excès de rigueur, au pire à un excès de contrôle. Mais ce qui est « vrai »,
cʼest un abandon dont vous gardez la maîtrise. La maîtrise offre, le contrôle
retient. Enfin la
technologie est un pont ce n’est pas une finalité. Restez
à l’écoute pudique et sensible de la violence du monde !
Votre voix, cʼest votre tête qui descend
vivre au ventre, cʼest votre sexe qui remonte en un déchirement aigu, c’est ce
qui dénoue lʼamplitude pour le bonheur dʼun silence collectif. Et puis «
rentrez le menton », chassez la voix de tête en tirant par la nuque vers le
ciel pour laisser descendre ce Dieu qui illumine votre présence charnelle. Mais
résistez toujours à la pesanteur, demeurez en tension, même avachie comme un
clochard ivre…
Repoussez le sol et ne vous fondez pas à lui.
Marchez comme un fantôme énergiquement lent. Comme un dragon qui veut vaincre
et que lʼamour peut enivrer. Vos ancrages intimes doivent subvertir le rôle,
casser lʼénonciation usuelle. Et parfois le texte vous ordonne dʼêtre un
souffle lent et soutenu comme une agonie de lʼâme… une agonie sans cesse
recommencée…
Se io dirò alcune cose circa questi presenti costumi (tenendomi al generale) colla sincerità e libertà con cui ne potrebbe scrivere uno straniero, non dovrò esserne ripreso dagli italiani, perché non lo potranno imputare a odio o emulazione nazionale, e forse si stimerà che le cose nostre sieno più note a un italiano che non sono e non sarebbero a uno straniero, e finalmente se questi non dee risparmiare il nostro amor proprio con danno della verità, perché dovrò io parlare in cerimonia alla mia propria nazione, cioè quasi alla mia famiglia e a’ miei fratelli?
Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli Italiani.
Giacomo Leopardi, 1824
_______________
A una società in frantumi si addice questo testo in frantumi, appena salvato dal naufragio del tempo. Avrebbe potuto essere un libro, un libretto, un pamphlet. All’epoca in cui cominciai a scriverlo, Giuseppe mi disse: “Questo devi finirlo e pubblicarlo”.
Ecco fatto.
[…] Il fatto vero è che è
costume italico diffuso, magari al 50%, quello di fottere il prossimo, le
istituzioni, il supermercato, l’INPS, l’INAIL, le ASL, giocherellare con l’ICI,
con le assicurazioni, acquistare cose tarocche, percepire in nero che più nero
non si può, non fare lo scontrino fiscale, la ricevuta, magari non fare la
fila, farsi raccomandare, voto di scambio, separarsi per finta, prendere
residenze fasulle, beccarsi contributi europei e via andando così. Mi
piacerebbe che qualcuno scrivesse sulle tante piccole e grandi nefandezze
pubbliche e private dell’italica gente, vera e propria casta di sòla [furbi, disonesti] non appena se ne offre l’occasione. Poi
però tutti appassionatamente sosteniamo che la politica è fatta da emeriti
sola. Perchè noi che siamo ? Ormai un sola al governo ci sta bene perchè rappresenta benissimo la repubblica
dei sola. (Da un forum di La
Repubblica)
A cui aggiungo:
L’Italia
non è stata ridotta così da Berlusconi ma essendo ridotta così, ha prodotto e riconosciuto Berlusconi,
necessariamente. Così il “berlusconismo” si identifica con l’essere italiano e
ciò che dovrebbero combattere gli italiani è una parte di noi.
Assioma
Quanto
grande si possa immaginare un caso di corruzione politica in un paese qualsiasi,
è sempre possibile trovare in Italia un caso di corruzione maggiore.
Salvare l’Italia?
Tutto ciò che è pubblico è per gli italiani sgradevole: si va dal rifiuto totale, anarchico e selvaggio delle regole e degli ordinamenti pubblici, al fastidio e all’imbarazzo. Lo so che la cosa è risaputa ma vale la pena ripeterlo e non darlo per scontato perché si tratta di un’affermazione pesante dalle conseguenze drammatiche.
Inoltre: il capitalismo italiano, anomalo come tutti sanno, è stato da sempre neoliberista, o meglio neoliberal che è la denominazione del recente capitalismo d’assalto, spregiudicato, che appare alla metà degli anni 80 con la Thatcher e Regan e si afferma negli anni 90 su tutto il pianeta, quello arrogante che negli Stati Uniti ha partorito i neocons, Bush, Enron, il trionfo del privato e gli Sport Utility Vehicules .
Firenze,
inizio del Ventunesimo secolo.
Nessuno di quelli che incontro in città sa che vivo da quasi trent’anni dall’altra parte dell’Atlantico. Non si vede nè si sente niente. L’aspetto, fisico-frenologico-vestimentale, è decisamente conforme al costume nazionale. Linguisticamente impeccabile, fornito anche della giusta inflessione dialettale, mi presento come un fiorentino o almeno come un toscano a tempo pieno. Solo che non lo sono e mi muovo per la città come un agente segreto che mai abbandona il terrore di essere smascherato. Questa, evidentemente, non è la mia prima missione. Nel corso delle dieci o quindici precedenti ho già raccolto molti documenti e prove che sarebbero certo sufficienti alla redazione del Saggio finale sullo stato presente dei costumi degli italiani. Solo che la raccolta dei dati in questo 2010 ha il vantaggio, ai fini della ricerca, di svolgersi all’apice dell’ora berlusconiana, nel momento penoso in cui l’incerta democrazia si è trasformata definitivamente in una solida videocrazia che ora sembra vicina al tracollo. Sembra. So, e qualche amico me lo ripete ogni tanto, che almeno uno su quattro degli italiani che incontro per la strada, ha votato Forza Italia nel 2001 e ora, nove anni dopo sono due su quattro quelli che sostengono il Partito della Libertà. Non mi sorprende che nel 2001 Berlusconi abbia avuto un tale successo perché tanti italiani non ne potevano più di quello che lui stesso aveva efficacemente definito il « teatrino della politica » : teatrino della chiacchiera e della retorica, del politichese nella forma e nella sostanza. E hanno votato per lui, alcuni prendendolo per un industriale serio, operoso e fortunato, diverso dai grigi e inconclusivi politici tra Dc e PCI, un a-politico che prometteva efficienza e modernità per l’azienda Italia. Altri, la maggioranza, prendendolo per quello che è, un imprenditore abile e spregiudicato, nato e cresciuto al culmine dell’affarismo craxiano. A loro, Berlusconi piaceva e piace così, per quello che era, per quello che dice e per come lo dice. Dopo tanti anni di governo è logico concludere che sia abilissimo nella comunicazione. Abilissimo almeno nel comunicare agli italiani, a oltre la metà di loro che devono necessariamente pensare come lui : la stessa volgarità, lo stesso «buon senso», lo stesso spirito, tutte qualità proprie dell’antica cultura contadina e della provincia italiana, ma trasformate, massacrate da mezzo secolo di consumismo e di televisione. Quello che all’inizio ha sedotto tanti italiani sono state le convinzioni di capitalista liberista, di anticomunista, di arrogante affarista di successo, convinzioni che per loro erano sinonimo di «modernità». Ma se fino a qualche anno fa molti si illudevano che potesse cambiare le cose, oggi sono in meno a crederci e a capire invece che Berlusconi non ha trasformato né trasformerà l’Italia, non la trasformerà nemmeno in quello che gli riesce meglio, nel paese del perfetto mercato e dello spettacolo. Nemmeno in questo.
Io non riesco a seguire la scena politica di questi
anni e degli ultimi mesi del 2010 con la rivolta di Fini…Confesso che non ho
letto un solo quotidiano nelle mie ultime tre settimane di soggiorno e una sola
volta ho guardato una di quelle trasmissioni insopportabili che tutti gli
italiani prendono per «dibattiti». Dunque, se mi manca la conoscenza della
cronaca ho visto e sentito abbastanza per concludere che molto probabilmente
Berlusconi non finirà questa sua quarta legislatura. Anni fa Indro Montanelli
era stato profetico: lasciatelo governare, ci penseranno gli italiani a
scaricarlo. È quello che sta succedendo : i commercianti, bottegai e
imprenditori che l’hanno votato sperando nella cuccagna si stanno accorgendo
che questo affarista fa tutto per sé e il resto non sa fare. La destra,
malgrado abbia molta più coscienza di classe della sinistra, dunque più
coesione e intenzione, non riesce a far funzionare quello che ora chiamano il sistema Italia, semplicemente
perché non esiste nessun sistema.
Cammino per le strade, entro nei negozi e nei ristoranti, salgo su autobus e treni, parlo con gli italiani, incontro parenti e amici. E mi accorgo che gli italiani sono stanchi, delusi, tristi.
È vero che non hanno mai creduto alla politica, ai politici. Ma cinquant’anni fa la situazione era più semplice, la diagnosi a cui giungeva una buona parte di loro era il risultato di una visione cinica del mondo : i politici sono disonesti per definizione, stanno lì per il potere e per l’interesse personale, per mangiare alle spalle della gente. Oggi le cose sono molto più complesse : finita da vent’anni la politica dei due blocchi che tanto ha derminato gli equilibri politici, finita la crescita economica, in crisi il prestigio del «made in Italy», in crisi l’idea dell’unità territoriale e culturale del Paese, in crisi la lingua italiana destabilizzata dall’inglese, in crisi la solidarietà europea, in crisi la mai consolidata identità nazionale nel confronto con la recente e caotica ondata immigrante, in crisi anche il cinema italiano…
Molti se non tutti questi elementi di
crisi sono comuni a altre società europee e occidentali ma il caso italiano è
più grave e possiede una specificità che va indagata, va capita. Se è davvero
possibile «salvare l’Italia» come pensa o spera Paul Ginsborg bisogna prima
riuscire a capirla come si deve.
________
Il solo vantaggio a parlare dell’Italia, a cercare di farne un ritratto è che si può fare con calma perché la modella non si muove, è completamente immobile. Possiamo alzarci, andare in bagno, farsi anche una doccia, uscire addirittura e tornare dopo un giorno o un anno o quando si vuole perché quando si tornerà si troverà che non si è mossa di un millimetro, perfettamente immobile, ci si accorgerà che niente, assolutamente niente è cambiato. Oggi, 28 luglio 2010 (due mesi prima del mio programmato soggiorno in Italia) riprendo a scrivere a tre anni dall’ultimo intervento in queste pagine effettuato diciotto mesi dopo la vittoria di Romano Prodi, dopo che Berlusconi era stato mandato a casa. Ora Berlusconi è ritornato già da quasi tre anni e effettivamente niente è cambiato. Non importa che questo personaggio sia ancora al potere o no perché Spaese mio non è un altro libro contro o su Berlusconi. Non è nemmeno un libro sul «carattere degli italiani» né sulla nostra identità nazionale anche se i due argomenti torneranno più volte. È un libro sul potere o meglio sugli italiani e il potere, su questa iperumanità che è la nostra, un’umanità senza «polis», senza comunità. Letteralmente una società in-civile. Però è vero : a far scattare il bisogno di scrivere è stato il secondo, vero arrivo di Silvio Berlusconi al potere. Ho voluto provare a capire perché quest’uomo è riuscito a imporsi agli italiani e soprattutto trovare le ragioni della sua permanenza al potere. Corollario di questo racconto è un’interrogazione sul ruolo e il senso della sinistra in Italia. Perché, chiedo, l’abbondanza, in questi ultimi sessant’anni, sia di «teoria e prassi di sinistra», di illuminanti interventi critici sulla società e la politica italiana come di esperienze e esperimenti sociali concreti, non ha impedito che la situazione precipitasse totalmente non solo a destra, a un punto di penosa drammaticità ? Sono stati pensati i giusti pensieri, scritti i buoni libri, sperimentate le giuste esperienze per capire e salvare l’Italia ? Questa è forse la questione che più ha fatto da molla e alla quale cercherò di rispondere anche se, a prima vista, sembra davvero troppo tardi, tanto che verrebbe voglia di lasciar perdere e di vivere ciascuno il proprio esilio ( esterno o interno, secondo i casi). Un pensiero, subito, a freddo sulla nostra sinistra, un tentativo di estrema sintesi: le straordinarie fortune della sinistra furono l’effetto dell’arretratezza economica e sociale dell’Italia. Il nostro sistema capitalistico si è sviluppato tardi e male: ossia non ha prodotto, per tante ragioni, quella socialità, quella relativa giustizia economica che altrove ha contentato e addormentato la gente. In un paese rimasto per secoli senza Stato, dominato da aristocrazie, élites e mafie, questa anomalia non poteva non produrre una compensazione. La sinistra è stata questa compensazione. Le fortune della sinistra, con la parentesi del fascismo (che ha compensato altrimenti, appunto con il nazionalismo sociale), sono durate dal 1890 al 1990, un secolo esatto. Con la fine dell’URSS ogni idea o meglio ideologia sociale è stata abbandonata e l’Italia è passata APERTAMENTE e FEROCEMENTE, dal comunismo astratto al consumismo concreto.
Tuttavia il sospetto o la speranza, è che l’Italia sia
stata e rimanga, in qualche modo, sempre un modello. A qualcosa del genere
alludeva Leopardi, a questo si riferiva esplicitamente Giulio Bollati quando,
analizzando il «trasformismo», scriveva « (…) che dietro quella parola
infelice, introdotta dall’ ‘evoluzionista’ Depretis, si nascondeva qualcosa di
importante (una nuova scoperta italiana?), ed era un’arte di governo capace di
controllare in modo ‘dolce’ la violenza di un’età dominata da una schizofrenia
crescente tra principi e interessi. (…) Dove il trasformismo (che è
violenza mascherata) fallisce, subentra la violenza aperta : la nostra
breve storia nazionale è come un laboratorio sperimentale del
procedimento. » In effetti a
trent’anni da quella diagnosi, al momento dello sfascio, la verità italiana sembra ormai realizzarsi, in forme analoghe,
nella gran parte degli stati democratici
dell’Occidente. Ci riveliamo quasi come un modello o almeno come il «caso»
capace di descrivere la putrefazione di una forma di governo, la democrazia
parlamentare.
Vale dunque la pena continuare a parlare d’Italia.
_________________
In Italia, le opinioni sono la merce più diffusa, e i
primi a saperlo sono quelli che riempiono i nostri media. Quantità, ma anche
qualità : perchè gli italiani colti, i produttori di letteratura e di
informazione, hanno scritto e scrivono ancora bene. Spesso, scrivono troppo bene. La bravura che si ritrova nelle opere di saggistica e sulle pagine
letterarie, di cultura e di opinione dei quotidiani e di certe riviste, cozza
con la volgarità e la banalità del resto della comunicazione. Uno scarto
che non ha pari in altre società, un contrasto che deve pur essere il sintomo
di qualcosa di serio. Ogni volta che osservo la nostra abbondanza di stili e di
belle forme, ripenso a Riccardo Felicioli
– sottile e lucido intellettuale d’azienda della linea Ottieri-Volponi,
oggi scomparso – il quale parlava spesso
con perfida ironia delle ‘belle penne’
nostrane. Decenni dopo, il flusso non si arresta. Nel 2004, in un’intervista
concessa in occasione della celebrazione dei vent’anni dall’ultimo numero della
rivista Quaderni piacentini (1961-1984),
il fondatore e direttore Piergiorgio Bellocchio ha detto : « Forse in
questi anni avrei potuto scrivere di più. Ma se anche molti altri avessero
seguito il mio esempio, vivremmo meglio. Meno oberati da carta inutile. ».
Perché allora non comincio io col tacere ?
Forse perchè in quei decenni io ho seguito il suo esempio e poi perché
ora mi propongo di scrivere poco e, mi
auguro, diversamente.
Vorrei riuscire a portare una cosa sulla scena italiana, invece di
parole ! Mai come ora sarebbe necessario dire : « Guardate
questa cosa. È così ». E tutti vedrebbero. E invece, ho il sospetto che
l’Italia non possa chiarirsi, né con le parole né con le cose. Che non possa
risolversi che sparendo : nell’Europa, forse (in moltissimi l’hanno
sperato). Ma il paese, mi dico poi, che fu definito un’espressione geografica,
oppone una resistenza, giustamente geografica, oggettiva, al suo assorbimento
in un corpo più vasto. La stessa natura peninsulare impedisce alle sue regioni
di farsi assimilare da corpi sociali e politici vicini, il « mare
nostrum » non lo consente. L’Italia si disfa, ma non sparisce. Allora, se
è condannata a restare, proverò a raccontarlo questo Paese ostinato in un altro
periodo drammatico della sua storia in cui, come in una vita, il momento di un
tracollo sempre annunciato, infine arriva, i nodi finiscono tra i denti del
pettine. Racconterò l’Italia facendo di tutto per portare uno sguardo calmo e
descrittivo, corsivo. Se non una cosa,
uno sguardo da fuori, sull’Italia.
Chi emigra, come ho fatto io, è costretto a guardare e seguire l’Italia da
fuori. Se partendo si perde il polso del paese, si acquista però una nuova
prospettiva riuscendo a vedere, spassionatamente, tutto il bosco. Nel Gange di
scritti e di opinioni che l’Italia ha prodotto e produce su se stessa c’è
certamente già quello che serve a capire, a interpretare questo paese strano. È
un’antologia bizzarra, con una dozzina di autori in sette secoli di storia. È
affascinante ma, infine, deprimente constatare come, malgrado da secoli si
producano regolarmente, da parte di italiani, analisi e diagnosi acutissime
sulla società italiana, nessun movimento politico se ne sia mai veramente
servito rivendicandole o ispirandosene. Eppure, da Dante, Machiavelli, Gramsci
fino a Agamben e il meteco Ginsborg,
sono tanti gli scrittori che avrebbero
potuto animare e alimentare la rinascita civile e politica dell’Italia. E
invece no, perché la nostra società è stata unanime nel rispetto rigoroso della
separazione dei generi e delle competenze o delle corporazioni ! Dunque
anche se l’assassinato Pasolini e l’ostracizzato Sciascia e qualche altro hanno
genialmente fuso letteratura e politica, i politici di professione, i dirigenti
industriali, i leader d’opinione, i media, insomma la «razza padrona», sono
riusciti a vanificare ogni tentativo di trasformazione, di rivoluzione
culturale, contribuendo infine a mantenere la società civile fondamentalmente
immutata. Io proverò a riaprire alcuni casi significativi, perché voglio cercar
di capire le ragioni di questo nostro scialo di intelligenza e di cultura che
riassumo nella questione : perché la cultura alta non ha mai alimentato la
politica ?
Proverò a rispondere, leggendo testi emblematici di
grandi e meno grandi eretici e protestanti,
rivoluzionari, ma anche della stragrande maggioranza di coloro che scrivono
libri e articoli, per tentare di scoprire perché niente e nessuno, malgrado la
forza e la bellezza di tanti pensieri e gesti, sia mai riuscito a cambiare questo
Paese.
Salvare l’Italia da se stessa
Gli italiani, oggi più ancora che nel passato, non
riescono a ammettere collettivamente la gravità delle proprie condizioni, si
illudono, si nascondono. Se uno straniero li giudica, la sua critica viene
negata e imputata a malanimo, gelosia, complessi di chi attacca. Se è un altro
italiano, allora la sua critica viene definita dura, ingenerosa e l’autore e
l’opera, se possibile, ignorati. È successo a tanti, da Leopardi in poi e,
negli anni 90, a Franco Ferrucci, scrittore che da decenni vive fuori d’Italia.
Tra i suoi numerosi saggi e romanzi pubblicati da editori italiani, il più
politico, quello che più acutamente affronta il soggetto delicato dell’anomalia
italiana, Nuovo discorso sugli italiani
(Rizzoli 1993) snobbato dalla critica e ignorato dal pubblico, è oggi scomparso
dagli scaffali di tutte le librerie d’Italia. Parlerò più oltre di questo breve
e assai fine saggio letterario-politico-antropologico che se fosse stato
recensito come si deve e letto diffusamente, avrebbe credo lasciato il segno,
contribuendo a avviare un dibattito serio nella società italiana. Ma i casi di
rigetto di ogni parola critica che vada alla radice del male profondo e che
rischi dunque di cambiare qualcosa, sono numerosissimi. Un esempio minimo ma
significativo lo offre questa banale nota de Il Foglio del 26 maggio 2005 : L’appello di Ciampi alle forze politiche
sulla crisi economica: “Bisogna affrontare questo ultimo anno della legislatura
come se fosse il primo della nuova legislatura”, perché “non possiamo lasciar
trascorrere dodici mesi senza agire con determinazione”, dice il capo dello
Stato, “ne conseguirebbe un ulteriore deterioramento delle condizioni presenti”.
Anche un passaggio duro nel discorso di Ciampi: “Quali siano le cose da fare è
noto a tutti. Il problema è che non si fanno o si fanno stentatamente”.
«Passaggio duro», capite ? Ma questo è il minimo
che un presidente della Repubblica, come ogni persona intellettualmente onesta,
possa dire sulle esitazioni e inconcludenze della politica italiana dal
dopoguerra a oggi e un giornalista avrebbe semmai il dovere di rincarare la
dose, abbandonando quella che a me sembra essere stata discrezione invece che
durezza da parte del presidente della Repubblica.
Vista la tendenza dominante del mondo mediatico e
culturale a bloccare tutto ciò che disturba, temo che il mio tentativo, e non
solo per le deboli forze dell’autore, nutra poche speranze di smuovere qualcosa
in Italia. Tuttavia l’indagine è così vitale e scrivere, per me, il solo modo
di conoscere e di capire, che non posso rassegnarmi al silenzio. Come in
natura, a rilievi presso specchi d’acqua corrispondono, sui fondali,
depressioni di identiche dimensioni, così in Italia all’altezza di certi
intelletti e sensibilità corrispondono abissi di trivialità e leggerezza. Il
fenomeno è universale ma si tratta, appunto, di cogliere la specificità
italiana. Io mi ci sono allenato vivendo fuori d’Italia già dai primissimi mesi
del mio volontario esilio. Allora, per questi miei esercizi usavo quasi
esclusivamente il quotidiano La
Repubblica che già nei primi anni Ottanta del secolo scorso aveva
cominciato a derapare verso un sempre crescente stile consumistico e
sensazionalista, preparandosi a diventare il giornale televisivo, ambiguo,
schizofrenico e schizogeno che è divenuto poi negli anni Novanta e ora paradossalmente antiberlusconiano. Il
caso di Repubblica è emblematico,
poichè si trattava, agli inizi, di un
prodotto sano, di un medium laico, con idee sociali moderate ma lucide, progressiste
come si diceva, con intenzioni e scelte programmatiche serie in politica e in
cultura. Non se ne sospettava allora la vocazione commerciale e
consumistico-populista che con gli anni ha preso il sopravvento senza eliminare
appunto, e questo alibi è un aspetto
della specifità italiana, una venatura di cultura alta e de
gauche, ma fondendola in un ibrido malinconico di vuoto e volgarità.
Preceduta su questa via infelice dal settimanale L’Espresso, La Repubblica è diventata, ai miei
occhi, lo specchio della degenerazione della società italiana in questi ultimi
trent’anni. Tutto e tutti hanno lasciato scivolare questa società verso il
profondo degrado attuale : solo singoli hanno profetizzato, parlato, e
anche agito, ma senza esito.
Per la mia ricerca manderò una sonda nel passato a tre
profondità : a diciotto anni, alla discesa in campo di Berlusconi; a una
quarantina d’anni, intorno al 1975, quando fu ucciso Pier Paolo Pasolini; a
duecento anni, quando Leopardi definì una volta per tutte l’Italia e Manzoni l’ immaginò nazione; a quattrocento
anni, al Seicento, l’epoca che più ci ha marcati e della quale produciamo
collettivamente solo varianti.
Non vorrei scrivere un bel saggio. Vorrei che questo «sondaggio» avesse, se non la forza
della scoperta, almeno quella dell’ onestà e della sincerità. Vorrei che
fossero parole utili, liberatorie, contributo tanto umile quanto inadeguato
alla conoscenza di sé, un esame del quale, come collettività, abbiamo un
bisogno vitale. È per questo d’altronde che scrivo : perchè l’Italia,
standoci, agisce su di me come una continua provocazione dolorosa. Standone
fuori, come un oggetto di attrazione morbosa, insopportabile, che chiede di
essere affrontato.
Dicembre
2010, all’indomani dall’ennesima affermazione di Berlusconi che alla Camera al
Senato è riuscito a respingere la sfiducia contro il governo.
Zoom
out : chi è Berlusconi ? Molti pensano, la
quintessenza di noi italiani. Meglio, metafora del nostro degrado civile,
culturale e politico. No, non solo della nostra parte peggiore. Questo lo
dicono quegli antiberlusconiani ideologici che in fondo hanno assistito
disgustati ma distratti alla sua resistibile ascesa, incapaci di contrastarlo
perchè, in modo e misura che restano da determinare, condividevano più o meno
incosciamente la sua cultura. Questa
verità è stata detta da tanti, prima e dopo l’avvento di Berlusconi. Ma se
qualche intellettuale e giornalista la può affermare in un saggio o su
giornale, lo stesso non accade ai politici : né un partito né un movimento
hanno mai preso atto davvero della profondità del nostro degrado. Del fatto che
Berlusconi è chiaramente un punto d’arrivo nazionale, colui che, questo sì come
Mussolini, ci ha svelati e compromessi tutti. Ciò che mi interessa non è tanto
Silvio Berlusconi, il presidente del Consiglio su cui si scrive anche troppo,
quanto le condizioni che l’hanno reso possibile. Mi intriga il berlusconismo ante litteram, quello sistemico che
precede i berlusconi in carne e ossa. In quest’ ultima fase del declino, ripeto,
non siamo precipitati con la sua comparsa sulla scena politica che è piuttosto
il prodotto ultimo del deterioramento del clima etico-politico che la causa.
Fenomeni formativi, strutturanti della società italiana del dopoguerra sono
stati il calcio e la televisione che sono poi l’essenza della “politica” di
Berlusconi. Il fatto stesso che Berlusconi sia riuscito all’inizio della sua
avventura nel 1994 a mettere insieme apparentemente dal nulla e nello spazio di
pochi mesi un partito come Forza Italia, dimostra che, questa volta, gli
italiani erano già fatti!
Qui
sta la tragedia, il berlusconismo da sconfiggere o meglio, da guarire, è quello
che avendo preceduto Berlusconi, rischia di sopravvivergli. Di questo, ripeto,
i nostri spigliati politici e intellettuali di sinistra che non sanno essere
contro, che attaccano un Berlusconi che pare alle corde, non vogliono parlare,
forse perchè sanno di aver iniziato tardi e male la resistenza. Perchè
sanno, anche se non lo ammettono, di aver fatto poco o nulla negli anni ‘90 ai
tempi dei governi dell’Ulivo quando la nuova sinistra era al governo.
Ma
certo le responsabilità della sinistra vanno oltre quest’ultima fase della
prima Repubblica e datano già dal primo dopoguerra: onestamente va ammesso che,
al di là delle sigle d’origine, tutti i fatti – azioni, scelte, decisioni,
comportamenti di singoli come di partiti – della nostra vita politica, prima di
essere appunto di destra o di sinistra, sono espressione di una
identica cultura, di una identica mentalità italiana.
Ad esempio, quando si parla di trasformismo, fenomeno che tutti riconoscono
come specificamente e tipicamente italiano, nessuno oserebbe affermare che
riguardi solo la destra. Insomma se evidentemente negli ultimi sessant’anni in
Italia sono state attuate, in certi periodi, dalla destra come dalla sinistra,
politiche serie che hanno dato risultati socialmente positivi, queste politiche
quanto riuscite fossero, sono state poi sempre negate e nullificate, come tutti
abbiamo potuto constatare, da azioni sconsiderate e irrazionali dettate da
logiche di gruppi, correnti o fazioni che poco o nulla avevano a che fare con
idee di destra o di sinistra. Così, perchéle Regioni, la cui istituzione è stata sancita dalla Costituzione
nel 1948, sono state attuate solo nel 1970? Si tratta di un ritardo di destra o
di sinistra? Insomma, la verità è in questo caso evidente e forse è bene
affermarla, accettarla e assumerla collettivamente e in modo ufficiale: in
Italia i politici, di destra come di sinistra, sono stati incapaci di riformare
a causa del fatto che la maggioranza degli italiani NON VUOLE CAMBIARE. Questa
non è un’opinione qualunquista come si diceva una volta, è un dato tristemente
obiettivo: i fatti sono sotto gli occhi di tutti, in libri, rapporti, articoli,
discorsi, nero su bianco. Il bravo e volenteroso Paul Ginsborg storico
dell’Italia di sempre, da generoso pedagogo com’è, si ostina a credere nei
propri allievi vagabondi. Nel 1998
dava credito agli italiani e riteneva che « (…) non esisteva alcun handicap
permanente che gravasse sulla storia recente del Paese.» (P.G., p.X), Dodici
anni più tardi non ha cambiato opinione e scrive “Naturalmente non attribuisco
a nessuno di essi [quattro grandi pericoli da cui l’Italia moderna deve essere
tutelata] valore di tara, non li
tratto come componenti irremovibili, ‘antropologiche’ o permanenti”. (P.G.Salviamo, p.85-86) Ma da dove nascono
allora quelle che lui stesso individua come le più gravi «carenze strutturali»
di cui soffre l’Italia se non da tare? Giacomo Leopardi lo sapeva già nel 1824
e così Giulio Bollati che nel 1972 ce lo ridice e lo ripete nel 1983 in quello
splendido libro che è L’italiano.
Berlusconi in campo
Nel 1994, all’arrivo di Silvio Berlusconi, la crisi
politica e etica del Paese è già avanzatissima e l’uomo di Arcore non fa che
spingerla verso il climax. La rilettura di un dibattito a tre voci fra
Giancarlo Bosetti, Norberto Bobbio e Gianni Vattimo sulle sorti della Sinistra
realizzato, a qualche mese dall’avvento di Berlusconi, dalla rivista Reset, ce ne offre una prova drammatica.
La scelta di questo libriccino di Reset
non è il risultato di una ricerca condotta secondo criteri scientifici, ma un
puro caso. Avrei potuto trovare altri testi, forse anche più illuminanti, ma a
me è capitato questo per le mani e da lì ora parto. D’altronde, una cosa è
certa : da qualsiasi luogo del magma si affronti il caso Italia, con
qualsiasi pre-testo, si arriva comunque alla medesima conclusione. Allora
scrive Bosetti nell’introduzione…
[Qui il manoscritto
si interrompe]
A quarant’anni di profondità
Dagli anni Settanta alla metà dei Novanta, il più acuto e onesto contributo a capire il caso italiano, a mio parere, è stato il saggio di Franco Ferrucci che, proprio per questo credo, è stato ignorato da tutti (…)
In Italia la Sinistra è stata un’esagerazione, dall’inizio alla fine. È stata una finzione nel senso
che dice Bollati quando descrive un proletariato immaginato dalle avanguardie
socialiste verso la fine dell’Ottocento in un paese che non possedeva ancora le condizioni di
capitalismo maturo, dunque in cui un proletariato ancora non esisteva.
I
cosiddetti errori della sinistra appena considerati, quelli recentissimi,
quanto gravi e penosi siano tuttavia non bastano a spiegare questo disastro: bisogna
andare alle radici dell’Ulivo, della Quercia e di tutta la flora nata dalla
putrefazione della sinistra storica. E di lì discendere senza esitazione fino
al dopoguerra, poi agli inizi del secolo scorso e giù senza timore, fino al
Risorgimento e oltre, fin dove il passato d’Italia serve a capire il presente.
Lo so che “tutti lo sanno” ma non se ne prende atto collettivamente. Per farlo
basterebbe tener conto di quello che sta scritto in comuni libri di storia e in
molti saggi e articoli che rimangono confinati nelle biblioteche, sugli
scaffali delle belle librerie, in una teoria e una coscienza astratte,
riservate ad uso privato di intellettuali e lettori alieni dalla società.
Dopo Reset,
continuerò a farmi guidare da altri libri perché sono convinto che tutto quello
che serve a capire, è stato detto. Porterò queste idee e giudizi di tempi anche
molto lontani sulla scena di oggi, certo che serviranno a comprendere almeno
una parte dell’anomalia e dei misteri dell’Italia. Bisognerà soprattutto leggere
alcuni scritti censurati, repressi, dimenticati o mal letti perché è in questi
che si nasconde, credo, una chiave di lettura: rimettere in contesto intere
pagine, interrogare tutto questo pensiero a scopo apertamente politico, non
letterario o accademico. Da Dante e Machiavelli a Manzoni, Leopardi
soprattutto, Ascoli fino a Gadda, Chiaromonte, Pasolini, Bollati e Sciascia e
più tardi Bobbio, Sartori, Ferrucci, Agamben e Perniola. Non si tratta di
comporre una bella antologia, ma di usare sincronicamente quegli scrittori che
hanno l’Italia a cuore, tutti nostri contemporanei, per vedere come siamo arrivati a questo sfascio.
Con un’idea debole della Storia mi accingo dunque a
evocare il passato scendendo a circa quarant’anni di profondità.
Nel 1972 è uscito da Einaudi
L’italiano di Giulio Bollati.
Nel 1979, è uscito da Laterza
un libro sull’Italia intitolato «Dal ’68
a oggi. Come siamo e come eravamo». Oggi rileggerlo fa l’effetto di una
spietata e drammatica moviola.
Riflettere su quelle pagine in cui osservatori di professione e
intellettuali reputati come Antonio Gambino, Giorgio Galli, Lucio Colletti,
Tullio De Mauro e Giorgio Ruffolo, tentavano un bilancio degli anni 70, è un
esercizio molto più utile che guardarsi le due puntate televisive della “Meglio
gioventù” di Marco Tullio Giordana che molti in Italia salutarono come una
coraggiosa presa di coscienza delle tragiche vicende di questi ultimi
quarant’anni. Il passato è a portata di mano, è cronaca.
[Il manoscritto si interrompe ancora e da qui in poi appaiono solo brevi
frammenti.]
(…) per gli italiani la patria è sempre stata ideale, e virtuale. Per quattordici secoli, dalla caduta dell’impero romano d’Occidente al 1861, l’Italia è stato un simbolo caricato di significati diversi ma comunque una cosa senza riscontro preciso nella realtà civile e politica. Il carattere simbolico destinava quest’idea a divenire patrimonio di tutti coloro, e erano pochi, che utilizzavano i simboli nel loro lavoro, gli artisti, in particolare i poeti e i musicisti. L’Italia è stata vissuta così, letterariamente, da una piccola minoranza di italiani appartenenti, dal Trecento in poi, ai ceti privilegiati.
Una patria comunque lontana : perduta nel tempo e poi, per le masse degli emigranti, lontana anche nello spazio. Perché questo è un altro dei tanti paradossi che si incontrano percorrendo la storia : nel momento in cui l’idea si è realizzata ossia, tra il 1861 e il 1870, quando l’Italia è diventata reale, proprio allora, per necessità o per scelta, la gente ha cominciato a partire.
(…) Il Seicento, vero Rinascimento italiano, è il secolo che ci ha formati.
Scrive
Niccolò Machiavelli agli inizi del Cinquecento:
«Specchiatevi ne’ duelli e ne’ congressi de’pochi, quanto li Italiani sieno superiori con le forze, con la destrezza, con lo ingegno. Ma, come si viene alli eserciti, non compariscono (Il Principe, capitolo XXVI).
Ossia, intende Machiavelli, agli italiani non preme tutto ciò che è collettivo, sociale dunque, “non compariscono”.
(…) Vale
la pena soffermarsi sugli osservatori stranieri dell’Italia : dai classici, da Goethe a Lamartine, Suarez,
alla Radcliffe (di cui parla Franco Ferrucci)
(…) La cattiva gestazione risorgimentale, sulla scia di Leopardi, Manzoni, Gadda.
In un recente rapporto del CENSIS si trova scritto che
l’Italia è un sistema «di popolo senza leadership e di leaders senza popolo».
Sono d’accordo, ma da quando è così ? Io credo da sempre. Almeno da quando
è stata compiuta la leopardiana «strage delle illusioni» : una strage, va
detto che, come il miracolo dell’eucarestia si rinnova incessantemente fuori dal tempo e le illusioni non fanno che
morire.
Gli italiani, prima che aerei americani pilotati da
musulmani addestrati negli Stati Uniti andassero a abbattersi sulle torri di
Manhattan, erano convinti che tutto l’Occidente fosse come loro :
edonista, consumista, cinico. Questa convinzione si è rivelata l’ennesima
illusione, caduta la quale, gli italiani si sono trovati gli imbarazzati
osservatori di un mondo di gente che crede. Loro che avevano fatto piazza pulita,
o meglio loro che mai avevano collettivamente, come Nazione, accolto dei
valori, una fede, insomma il Sacro, si sentono diversi, eternamente emarginati.
Siamo avanti perché indietro : è una perfetta
verità. Ancora Giulio Bollati situa lo scollamento degli italiani dalla realtà
all’inizio del Ventesimo secolo.
(…) La
questione della lingua: da Dante al similinglese.
Rammentare e
tener presente la storia, le grandi linee degli avvenimenti marcanti –
socio-economici, politici, militari – verificatisi nella penisola a partire
dalla costituzione dei comuni intorno al mille. Importante è prestare
attenzione alla nascita e ai modi dell’affermazione particolare della lingua
volgare, il fiorentino. Come dicono Ascoli, Dionisotti e Vitale, la lingua di
Firenze non conquista l’Italia ma è il resto dell’Italia a progressivamente
derubare e impossessarsi, trasformandola, della lingua di Firenze. Come è noto
la mancata affermazione politico-militare di una delle maggiori Signorie sul
resto degli stati della penisola nel corso del Quattrocento, ha reso
impossibile la nascita di una grande Capitale quale Parigi, Londra o Madrid per
i rispettivi paesi, in grado di trasformare con la costituzione di uno Stato la
lingua municipale in lingua nazionale. Senza considerare inoltre che già nel
Quattrocento, con la ripresa umanistica del latino, l’evoluzione del volgare
rallenta il ritmo. In seguito si affermerà, non come lingua parlata ma come
lingua scritta e colta di un’infima minoranza di gente appartenente alle classi
alte, aristocratici e borghesi. Il popolo è tagliato fuori: il disprezzo per la
plebe è una costante nella cultura italiana. Si tratterà di verificare
l’ipotesi secondo cui due momenti della storia d’Italia in cui il Potere si
appoggia al popolo e – strategicamente, demagigicamente – accoglie questa
spinta dal basso sono il Fascismo, momento nazionalista e populista, e la
nascita di Forza Italia di Berlusconi come momento populista anch’esso ma
televisivo e edonisticamente triviale.
Torniamo alla lingua e alla
“questione della lingua” che occuperà le classi colte e dirigenti per oltre
cinque secoli. Sottolineiamo che da Dante a Manzoni, nel trasferirsi della
lingua letteraria all’uso comune dominerà sempre una preoccupazione estetica e
letteraria invece che sociale, una preoccupazione ossia, per cui la lingua non
è considerata strumento sociale ma retorico. Questa è la differenza radicale e
drammatica del caso italiano rispetto alle altre grandi culture europee, la
francese, l’inglese, la tedesca e anche la spagnola, questa la più vera e
tragica manifestazione e causa precoce dell’anomalia italiana. Dunque alla base
dell’esclusione sociale sta l’esclusione linguistica da cui discende
l’imperfezione necessaria della
democrazia italiana.
In secondo
luogo, una volta rintracciate le cause profonde della disunità negli
sconvolgimenti rinascimentali, con il consolidamento del dominio delle varie
dinastie straniere e con il crescente peso esercitato dalla Chiesa a partire
dalla Controriforma, va studiata in dettaglio l’evoluzione sociale e culturale,
addirittura letteraria (tutto ciò che si scriveva e si faceva in Italia era
“letteratura”) , dell’Italia, dal
Risorgimento fino all’arrivo della televisione e dell’inizio folgorante
dell’omologazione diagnosticata da Pasolini che ha trasformato il paese agrario
e antico nell’orrore consumista ora fatto proprio e “valorizzato” da Berlusconi.
(…) sulla democrazia in Italia: con in mente
Pasolini, Sciascia, Bollati, Bobbio, Sartori.
(…) Nel maggio 2006 dopo la sconfitta di strettissima misura Berlusconi è fuori dal governo ma non fuori dalla politica. In questo momento si manifesta lo scandalo del campionato di calcio – non si può dire scoppia perché gli intralazzi e gli illeciti erano da anni sotto gli occhi di tutti. Il calcio è quasi tutto in Italia. In quest’occasione il giornalismo italiano offre un’ennesima dimostrazione della sua cinica creatività pubblicitaria , una creatività che è una dote di tutta la nostra società ma che è posseduta al massimo grado da giornalisti e comunicatori. Alludo al genio nazionale che ci ha dato “tangentopoli” e “mani pulite” e ora ci allieta con “piedi puliti” e “la peggio juventus” due slogan raccolti sul Manifesto. In fondo ci potremmo risparmiare ogni commento sulla leggerezza e superficialità di questa cultura della battuta e ricitare l’affermazione di Leopardi secondo cui gli italiani sono cinici al punto di non credere nemmeno nel proprio cinismo, che di più non si può.
Ma accanto a questo cinismo ci sono anche esempi di
comportamenti seri, serissimi, anzi patetici. Per esempio sui risultati delle
elezioni. Prendiamo i messaggi inviati da Ornella De Zordo, LabDem-Un’altra città un altro mondo
appena avuta la certezza della vittoria di Prodi :
Berlusconi a casa. Adesso una sinistra unita per ricostruire il Paese, per vincere anche il berlusconismo -10 aprile 2006 – E’ finita. Silvio Berlusconi e Casa della libertà non sono più al governo. Sono stati puniti dagli elettori, nettamente. L’ultimo tassello del disegno eversivo della destra non è andato a buon fine. Berlusconi non sarà presidente della Repubblica e Fini non guiderà il nuovo governo. Adesso tocca a noi. Abbiamo il compito immane di ricostruire un Paese devastato economicamente e socialmente. Noi della sinistra dell’Unione abbiamo anche un compito in più. Stare insieme organicamente per fermare la deriva del berlusconismo che in questi anni ha avvolto la cultura politica italiana, non solo dentro Forza Italia.
(Qui si
interrompe definitivamente il manoscritto).
Ce texte m’accompagne depuis bientôt vingt ans, autrement dit, il s’agit d’idées esthético-politiques qui fondent, qui constituent ce que je suis (…ou ce que je crois être). Les trois premiers paragraphes sont les mêmes qui se trouvent en Art, euthanasie de l’aura, texte publié dans l’ouvrage collectif “Utopia. De quelques utopies à l’aube du 3e millénaire” (PUL, Syllepse, 2001) et dans ce même site.
Le quatrième et dernier paragraphe est d’aujourd’hui, énième variante d’un texte que j’aimerais indéfini.
Tout est lié
Tout
est lié. Aurions-nous oublié que le battement d’ailes d’un papillon en Chine
produit un ouragan dans les Antilles? Ou, peut-être, n’avons-nous jamais cru
que cette image poétique illustrant la théorie du chaos possède valeur de
vérité. Pourtant, nous avons tranquillement reçu l’idée de globalisation sans
pour autant comprendre que l’économie globalisée est le dernier des phénomènes
qui nous relient, manifestation galvaudée d’une liaison beaucoup plus profonde,
cosmique, laquelle nous donne la certitude que nous sommes faits de la même
étoffe que les étoiles. Si accueillie et comprise cette vérité a des
conséquences décisives autant sur notre façon d’interpréter le monde que d’y
vivre. Il nous faut avouer que la matière n’est plus ce qu’elle était. Peu à
peu, elle nous a révélé son esprit,
le principe caché du monde physique, de la réalité qui s’est révélé de façon
partielle tout au long de l’histoire humaine. De cet esprit, c’est-à-dire du fonctionnement secret de la matière,
l’expérience sensorielle, la religion, la science et l’intuition nous ont
permis de cueillir quelques manifestations. Mais depuis un siècle, nous avons
commencé à porter un regard de plus en plus aigu à son intérieur. Maintenant,
le meta de la métaphysique devrait avoir cessé de
nous apparaître comme un au-delà, une transcendance, pour devenir une présence
profonde, une immanence, un dedans,
et la métaphysique finalement se montrer pour ce qu’elle est, la partie cachée
du monde physique. Le monde certain et solide de Newton et du sens commun
est devenu un bizarre et paradoxal
mélange d’ondes et de particules, gouverné par les lois de la probabilité
plutôt que par celles rigides de la causalité. Ainsi, nous pouvons voir les
manifestations abstraites, invisibles et «intérieures» – la pensée,
l’inconscient, le rêve, l’imagination – comme des infiltrations du monde quantique dans le quotidien des objets et
des faits… L’art est l’immense espace d’activités et d’œuvres créé par cette
énergie interne, invisible de l’être humain. Plus que d’autres capacités l’art,
sous toutes ses formes, constitue le portrait, la projection fascinante et
mystérieuse de notre richesse et de notre puissance. Les artistes ont su, de
tout temps, regarder au fond de l’être humain et des autres phénomènes de la
nature. Les mots de William Blake «si les portes de la perception étaient
toutes ouvertes les choses nous apparaîtraient telles qu’elles sont,
c’est-à-dire dans leur infinité», et de Goethe «si nous étions capables de
regarder la nature dans son ensemble, elle nous mènerait, sans aucun doute,
jusqu’à la pensée», sont plus que jamais éclairants à l’époque numérique quand
ces portes ont commencé à s’ouvrir et le regard porté sur la nature à y pénétrer
quasiment
jusqu’à la pensée. Karl Nierendorf, dans l’introduction au livre de
photographies du botaniste allemand Karl Blossfeldt, écrit en 1928: «Tout comme
la nature qui est l’incarnation d’un grand secret obscur, dans la monotonie du
devenir et du disparaître, l’art est une deuxième création, pareillement
insaisissable. Elle a germé dans l’intellect et dans le cœur de l’homme, du point de vue organique. C’est
au désir de durée et d’éternité qu’elle doit la lumière du jour.». A propos de
l’invention Goethe écrit dans ses Maximes
et réflexions : «Que signifie inventer, et qui peut affirmer avoir inventé
ceci et cela? De la sorte, s’entêter sur un droit de propriété, c’est de la
véritable folie, et ne pas vouloir honnêtement se reconnaître comme des
plagiaires, c’est un acte de présomptueuse inconscience.» Kafka, quant à lui,
en réfléchissant sur la création, observe dans son Journal le 25 février 1918:
« Les inventions nous devancent comme la côte
n’est sans cesse à la rencontre du vapeur sans cesse secoué par sa machine. Les
inventions produisent tout ce qui peut être produit. On a tort à dire par
exemple: l’aéroplane ne vole pas comme l’oiseau, ou bien, jamais nous ne serons
en état de créer un oiseau vivant. Certes non, mais l’erreur réside dans
l’objection (…) L’oiseau ne peut pas être créé par un acte originel, car il
est déjà créé, il est sans cesse recréé en vertu du premier acte de la création
et il est impossible d’entrer de force dans cette série (…) Mais – et c’est
cela qui importe – la méthode et les tendances de la création n’ont pas besoin
d’être différentes pour l’oiseau et l’aéroplane, et l’explication des primitifs
qui confondent un coup de fusil et le tonnerre peut contenir une part
restreinte de vérité».(1) Les formes inventées par les êtres humains ont
un lien profond avec les formes purement naturelles. L’artiste crée
en trouvant, en «plagiant », en jetant son filet dans le magma de
ce qui est pour en tirer une œuvre, grande ou petite, représentation fictive
d’un des infinis mondes possibles. Aujourd’hui, cette vérité, que n’est plus
seulement l’artiste ou le scientifique visionnaire à être capable de voir, est
encore plus évidente. Tout le monde commence à se sentir libre et capable de
regarder au fond de la matière et de découvrir aussi sa propre capacité à
«composer» de l’art. En ce sens la
révolution informatique aura des effets qu’iront bien au-delà de la
technologie. À la fin des années 1920 Paul Valéry avait préconisé avec une extraordinaire
lucidité ce bouleversement révolutionnaire: « Il y a dans tous les arts une
partie physique qui ne peut plus être regardée ni traitée comme naguère, qui ne
peut pas être soustraite aux entreprises de la connaissance et de la puissance
modernes. Ni la matière, ni l’espace, ni le temps ne sont depuis vingt ans ce
qu’ils étaient depuis toujours. Il faut s’attendre que de si grandes nouveautés
transforment toute la technique des arts, agissent par là sur l’invention
elle‑même, aillent peut‑être jusqu’à modifier merveilleusement la notion même
de l’art.».(2) En procédant de ce
constat de Valéry et en particulier des mots que j’ai souligné, je mettrai en
relief le rapport essentiel existant entre esthétique et politique. Repenser
d’une façon radicale la signification de l’art me semble être l’une des rares
chances que nous avons de reprendre la route vers la cité, vers le politique à
la suite de la faillite des disciplines sociologiques traditionnelles. Si la
notion de l’art et l’invention elle-même peuvent être merveilleusement modifiées,
cela signifie que cette possibilité a toujours existé en puissance, sous forme de tendance, d’utopie.
De l’art
Aujourd’hui,
les problèmes de l’art révèlent un malaise profond qui va au-delà des
polémiques entre historiens, critiques et artistes. La distance aussi entre
l’art «difficile»chargé d’aura,
et la majorité des gens exige une révolution esthétique dont nous voyons depuis
longtemps les prémisses mais que notre temps est encore incapable d’achever.
L’art du vingtième siècle n’a pas réussi à transformer la société, même si les
technologies de production et de diffusion de l’art ont provoqué des
changements profonds, quantitatifs et qualitatifs. Tout l’art est en cause, pas
simplement l’art visuel contemporain, le plus exposé et scandaleux des arts, car il révèle mieux le caractère commun et facile de l’expression artistique. C’est
la signification même de l’art, sous toutes ses formes et dans tous les temps,
qu’il faut redéfinir. Tout d’abord, qu’est-ce
que l’art? On pourrait répondre avec Goethe que «l’art c’est l’art», évitant
ainsi tout risque de banalité. Pourtant ce n’est pas autant sa définition que
son sens et surtout son rôle qui font problème. L’art, c’est la capacité de regarder
et de donner une forme à des idées, des images, des sons, selon des critères
spontanés et appris. Capacité commune à tout être humain, comme celle de
parler, de courir ou de se reproduire. Au-delà de la distinction de nature
anthropologique et culturelle existant entre l’art «actif»
préhellénique, magique ou primitif et l’art post-hellénique de plus en plus
esthétisant, dans les arts de tout temps et lieux – autant dans les peintures
d’Altamira, dans les statues grecques et les dialogues de Platon, dans la Gioconde de Léonard, dans l’ Olympia
de Manet, dans le Décameron de Boccace, dans l’Ulysse de James Joyce que
dans la Croix, 1950 de Joseph Beuys on retrouve la même
capacité de connaître, de saisir le langage de l’univers. C’est toujours nous,
qui, par notre regard parlant ,
réussissons plus ou moins à entrevoir le pli caché dans les choses de
la vie, à en deviner a poco a poco le
secret, la vérité cachée en elles que nous essayons de révéler, depuis que nous
sommes communauté parlante, par des formes, des signes. A un certain moment de l’Antiquité, cette
habileté a été appelé Tekne à
Athènes, ars à Rome et, pendant la Renaissance, art, qui
était synonyme de science. Capacité de comprendre le monde des phénomènes, la
nature des choses et, par conséquent, technique, habileté dans la construction
d’objets, machines, fabriques, œuvres en accord avec la nature et ses lois. Art
signifiait aussi d’abord la reconnaissance de l’humanité dans la Nature, dans
ce qui existe hors de soi. Par la suite, à l’époque moderne, surtout après sa
séparation de la science et de la technique destinées à asservir la nature,
l’art est devenu communication privilégiée de la part de l’artiste, du Génie,
de la découverte de formes et de valeurs «nouvelles», il est
devenu la sphère esthétique gérée et administrée selon les principes de
la société capitaliste naissante. L’art du vingtième siècle a fini pour
coïncider avec «ce qui est artistique», avec les produits, avec l’univers des
artistes, des historiens de l’art, des critiques, des marchands, des
entrepreneurs.
De la marchandise
Avec
une rapidité extraordinaire se sont élargies, à partir des avant-gardes du
début du siècle, les frontières de ce qui est considéré artistique. Quand on a
consenti d’appeler art toute œuvre réalisée sans les habiletés traditionnelles,
sans la maîtrise des artistes du passé, les portes de l’art se sont
entrouvertes. Les avant-gardes historiques d’abord ont passé puis, dans
l’espace de quelques décennies, avec le Pop Art et les autres innombrables
mouvements, tout est devenu art: le corps, la terre, tout ce que l’Artiste peut
toucher. Cela a été le moment crucial de la crise de l’art moderne, car les
frontières de l’art ont été justement poussées à l’infini mais sans que cela
n’amène à une nécessaire, logique et officielledémocratisation de l’art. La révolte
a été vite contenue, maîtrisée et récupérée d’une façon complexe par le
système. Les langages, les idées, les formes, les médias, promus par les vagues
avant-gardistes dans tous les champs artistiques, des surréalistes aux
situationnistes à Fluxus jusqu’aux
années soixante-dix, ont été acceptés. Au lieu de subvertir le réel, cet art a
eu libre accès aux galeries, aux musées, aux maisons d’édition etc., et il a
été investi de l’aura par l’establishment critique, par les médiocrates et totalement
récupéré comme marchandise de luxe. Une véritable contre-révolution qui a
amené, en même temps, à la coupure définitive des élites artistiques avec 90
pour cent de la société. Pris dans le tourbillon du triomphe capitaliste, l’art
vit, depuis, entre la subversion et la subvention. Soudainement tous les grands
phénomènes de la modernité que la civilisation capitaliste a suscités et qui
lui ont fait cortège à travers sa crise sans fin, se présentent aujourd’hui
sous une lumière nouvelle. L’art est finalement en train de recevoir le
traitement qu’il mérite: il est
négligé, à l’avantage d’autres activités plus utiles au public. La culture marchande représente désormais, pour
l’humanité du Nord de la planète, la nature
dominante et la démocratie s’avère
plus que jamais un ballet pénible de corporations, de lobbies, non pas un
espace de communication et de partage. Et pourtant, en même temps, les limites
de ce système en tant que créateur de liberté, de démocratie et de beau
commencent à se révéler aux yeux des gens. Le cas de l’art, comme celui
d’autres activités civiles essentielles, montre en fait avec une clarté
grandissante les contradictions pénibles surgissant entre les intérêts du
capital et ceux de la société. C’est dans l’art lui même, dans sa puissance
subversive, laquelle demeure intacte, dans le fait qu’il est la négation
subtile mais obstinée de la valeur d’échange, de la valeur marchande du temps
et de la vie, que se trouvent les raisons et les énergies pour le refondre. La
crise actuelle nous apprend quelque chose de nouveau sur un phénomène très
ancien: que l’art est, sinon hostile, à tout le moins profondément étranger à
l’esprit du capitalisme. Si la modernité naissante a soustrait les arts de la
sphère religieuse en les employant progressivement comme outil d’humanisation et de laïcisation, il a fallu par la
suite à la société capitaliste presque trois siècles pour les transformer en
marchandise. Mais l’art ne meurt pas. Les têtes
imaginatives non seulement existent mais elles sont plus nombreuses
qu’auparavant, malgré que le marché aplatisse et uniformise les talents qui ne
coïncident pas avec ce qu’on voit célébré en peinture, musique, cinéma,
écriture, etc. Ce qui doit être profondément transformé, ce sont les critères
de l’interprétation et de l’emploi de l’art. Aujourd’hui, au moment même de la
plus grande confusion et d’une crise généralisée, il est possible et nécessaire
d’affirmer que la créativité artistique et ses produits (l’art) ne doivent plus
être perçus comme exception individuelle mais plutôt comme normalité de la
vie humaine commune.
Au quotidien
Essayez
(vous l’avez sûrement déjà fait) de suivre chaque semaine les chroniques
littéraires et artistiques dans les pages de votre quotidien ou revue. Si vous
parlez plus d’une langue, faites le même exercice dans vos autres langues.
Vous remarquerez alors que chaque semaine il y a des nouveautés « extraordinaires » concernant des « premiers romans » écrits par des auteurs « de grand, très grand talent » souvent comparés à des classiques proches ou lointains : un Houellebecq rappelle Ferdinand Céline, cet autre a du Franz Kafka, etc. La même chose se produit pour des peintres, sculpteurs et artistes d’autres disciplines. Que veut dire tout cela ? Cela veut dire, je crois, que le talent artistique est chose commune et qu’avec l’éducation de masse, à partir des années 1950, le nombre des artistes n’a fait que croître. L’intérêt et l’activité, l’enthousiasme que suscite cette créativité commune, je les considère par le biais de l’éclairante, à mon sens, métaphore du sport. S’intéresser et s’animer pour ces « chefs-d’œuvre » annoncés au grand public chaque semaine par les médias, c’est comme se promener dans des parcs publics pour assister à des matchs de tennis, de basket ou de foot joués par des gens ordinaires. Il arrive, bien sûr, qu’on voit de très belles choses, parfois même extraordinaires, et vous êtes là, le seul spectateur de ces exploits mémorables – pas de journalistes, ni radio, ni télévision pour en témoigner et consacrer tant de beauté. Toutefois, après dix minutes d’un match de tennis entre joueurs ordinaires (c’est-a-dire médiatiquement inconnus) vous vous en allez et continuez votre marche dans le parc sans ressentir le moindre intérêt pour l’identité des ces joueurs ni d’envie de retourner les voir la semaine suivante. Si l’industrie culturelle ne vous proposait pas, par des annonces qui résonnent dans un cellulaire au fond même de vos poches, cette série sans fin de génies inouïs et talents sublimes, vous ne leur accorderiez pas plus de temps et d’argent que ce que vous faites avec les joueurs du parc public. La conclusion de tout ça?
La conclusion, c’est que toute activité
ludique-artistique nous fait plaisir, indépendamment de la valeur
(essentiellement économique) que lui accordent ceux qui ont le pouvoir de le
faire. L’art qui vraiment nous atteint, nous émeut et nous transforme, est rare
et il ne se manifeste pas ponctuellement chaque semaine. Malgré ce don, il
faudrait pas en faire un objet de culte ou d’adoration, il suffit de le
reconnaître. Le reste n’est que du jeu commun.
1 Ces deux
citations, dans Percorsi dell’invenzione
(1993) de Maria Corti, historienne de la langue italienne et écrivain, qui
procède à un intéressant et érudit compte-rendu de l’invention dans la culture
occidentale.
2 Paul Valéry, La conquête de l’ubiquité , Pièces
sur l’art, 1929.
Everything that has been said and done from Cervantes to Philip Roth, from Alessandro Volta to Steve Jobs, from Linné to Kandel is under the sign of capitalism. Our times, modern and postmodern, should rightly be called the Capitalist Civilization. There are many variants of capitalism of course (with more or less state involvement) and there is not on Earth the ideal form of it. But now that real-socialism is dead and buried, market-financial capitalism is the reigning form of governance in all countries. Our democracy is indeed a “market democracy” where the management is committed to representatives chosen by the “people” in a quasi-farcical election process and the power given to the market forces and their tamers.
Democracy is a
word, at the best, a “work in progress”. But no one is at work on it!
Clearly, capitalism
has been the driving engine of progress, material and intellectual for two
centuries. Real, effective, swift if ferocious progress such as no other
economic system couldn’t ever have afforded. Market, in principles, means
freedom for goods to circulate and ideas, and later people also. Because
capitalism is incompatible with the political-economical system from which it
has progressively emerged, feudalism. Men have to be freed in order to consume the
goods that they are obliged to produce. It is a historical evidence that democratic
forms weren’t never developed in a non capitalist society. At a certain extent
we witness to the equation between capitalism and democracy. Consider that feudal
and “socialist” societies like Japan and China had no choice but to adopt the
capitalistic way of production in the 20th
century because capitalism is the fastest way to develop economically. But in
the fully “developed “ countries of ours, capitalism has completed its
“democratic” mission and it is now exhausting our bodies and souls. As you know
we reached the limit in the mid 1970 when it became clear that the “capitalistic
civilization” could not produce any more progress, freedom nor liberties. Fifty
years since that limit, its never ending decline shows the magnitude of the
disaster. Not just the ecology. Look around. All IT touches become
capitalistically infected:
The cultural
industry: the fate of art and the necessary, inevitable euthanasia of its aura.
What is the destiny of novel? Masterpieces and the printing business.
Industry
Why the electric
car was killed back in the Thirties?
Tesla well before being a fashionable car was a mad
Serbian genius who emigrated to the United States at the beginning of the last
century and in the Thirties had already developed several electric devices,
essential to the progress of our modern life among which a perfectly functional
electric car.
Health
Why the
immunotherapy in cancer research has been discouraged?
Tutto o quasi quello che sappiamo e facciamo è tinto di capitalismo. Per
capitalismo intendo quella forma di produzione di merci e di rapporti sociali
cominciata con la nascita della civiltà borghese intorno al Mille e poi lentamente
evoluta, per così dire, fino alla rivoluzione industriale e al decollo
pienamente capitalistico verso la metà del 19° secolo.
The spinning Jenny, il telaio a vapore del 1770 in Inghilterra e Germania poi, questo è
l’avvio ruggente del Kapitalismus ma preceduto da secoli di lento
building up, esattamente come un cancro, piano piano, la rinascita delle città
con i Carolingi e i comuni e la società borghese, dei borghi, e da noi
Boccaccio, tutto questo lavorio è proto-proto capitalista, Marx si occupa del
fenomeno in fase adulta, compiuta e pensava che si potesse hegelianamente
rovesciare con la logica! Il capitalismo puro, ideale è assolutamente senza
Stato, il Mercato è lo Stato, che con mano invisibile aggiusta, regola tutto.
Nella modernità, dal
proto al tardo capitalismo, sono nate e cresciute le idee e le cose che
realmente pensiamo e facciamo. Compreso l’atavico, il primitivo, l’animale,
ogni pensiero e ogni pratica è modellato dalla logica capitalistica del consumo
e del profitto. Nella fase senile del capitalismo, come in ogni senilità, i
difetti originari del sistema appaiono magnificati.
Credo che con questo stesso nostro corpo non si potrà avere un altro “corpo sociale” vedi La Pharmacie de Durkheim di Sophie Jankélévitch. Ci vuole tempo, ma di tempo ce n’è infinitamente. Quando il corpo sarà altro, corpo astratto, immateriale-informatico, proprio come un’anima – tanti di noi umani l’hanno immaginato, compreso Platone – allora avremo un altro corpo sociale, un’ altra società.
Ora, esistendo noi in questa fase, per così dire… lunga, non vale la pena darsi da fare anche perché la Morte che ci insidia e ci spinge a Fare, non esiste, è la curva della strada, è non essere visti, come dice Pessoa…ma è difficile crederci per più di un minuto!