Category Archives: Ficciones

Blu (la notte che siam morti di peste)

Giuseppe A. Samonà

bleu[1]Scende giù in vestaglia tutta scarmigliata lungo il viale che attraversando il bosco collega la sua casa alla nostra, agita un giornale, urla : Il colèra! il colèra! Ed effettivamente la prima pagina dice che a Napoli ce ne sono tre o quattro casi, forse dieci, e le cozze, il vibrione, il panico. Ma se a Napoli è così, cosa succederà a Palermo ? (ulula lei, dilatando l’ultima parola come una terrificante voragine : Palieaimmo…) Palermo, lo sanno tutti, è una Napoli più piccola e violenta, di arcaica, perniciosa isteria, pullula di picciriddazzi polverosi, c’è la milza che puzza di sangue, ci sono i ricci che si vendono per la strada – ne abbiamo fatto una scorpacciata la sera prima, li ha portati lo zio  – e mill’altre schifezze marine, che si mangiano sempre e solo crude (la milza che puzza, picciridazzi, scorpacciate di ricci, pazzi ! pazzi ! pazzi !…). L’epidemia è certa. Hanno già bloccato le navi verso il continente, i treni, da e per, “ da ” soprattutto, e anche la nave, ché mentre stiamo parlando decine, anzi centinaia di morti si ammonticchiano nella stessa Napoli : anche se ovviamente sul giornale, che lei continua a sventolare come una prova, questo non può ancora esserci scritto. Gli altri adulti sembrano scettici : alcuni per spavalderia (il famoso zio arrivato da Palermo annuncia pomposamente che lui tornerà presto in città, perché ha voglia di molluschi vivi, di quelli che bisogna affondarci i denti per domarli, a Mondello, sul lungomare), altri per esorcizzante timore : … e comunque lavatevi le mani, bambini… E tutti più o meno bonariamente la sfottono : il giornale invita alla calma e lei, non da oggi, ha fama di essere un’esaltata – Cassandra, Cassandra… Tutti, ma non noi bambini : corriamo a lavarci le mani e poi eccoci di nuovo fuori, all’ombra del gelso, accucciati ai suoi piedi, sempre i capelli scarmigliati, lei, agitata, la vestaglia semiaperta, ad ammonticchiare morti e disastri per le vie di Napoli, anzi di Palermo, cioè Paleaimmo, scene di orrore, fiumi di fluidi e di merda, e poi orde di topi, i famosi voraci immondi topi ri Paleaimmo – il colèra ormai è peste –  carretti pieni di cadaveri, a volte ancora vivi, o agonizzanti, o sepolti lì per sbaglio, tirati da uomini bavosi, più bava che uomini, con un campanaccio, demoni ghignanti che il morbo ha risparmiato, l’apocalisse. Ipnosi del terrore, il nostro – o anche: attrazione fatata… Noi, i bambini, siamo la tribù, formiche ma volanti in sciame, rapide come la notte, ed è troppo forte quel sentimento dentro di noi, non possiamo neanche far finta che non sia così, anche se certo lo nascondiamo, per paura che ci prendan per pazzi, ci separino, e facciamo il viso spaventato, ammutolito, ad arte, solo di tanto in tanto, al momento opportuno, quando il racconto sembra sul punto di assopirsi sazio, soddisfatto, una domanda semplice, un’esca, ora l’uno, ora l’altra: ma sei sicura ?,  per riaccendere il flusso, le ondate di dolori, di merda, di morte, mentre il giallo del pomeriggio che avanza si scioglie nell’azzuro del cielo, nel verde, nel rosa, nel rosso del lontano orizzonte marino, insieme si mischiano con l’ultima luce del sole, l’affacciarsi delle prime stelle, a comporre un colore mai visto prima: blu – e una carezza tiepida, dolce ci avvolge. Nous sommes comblés.

È dunque questa la felicità ? Bambini che gridano mamma, mamma mentre il carro si allontana ? e quelli morti ? Gli adulti ? La desolazione altrui ? La disperazione ? No, certo che no, non è così – eppure  (come spiegarlo ?), la coscienza tranquilla, non sentiamo dentro di noi nessuna indignazione, nessuna colpa, ma fuori (sentiamo), sul tetto, i ghiri che passeggiano avanti e indietro. È buio ormai, le stelle il cielo il mare lontano si sono inghiottiti a vicenda, non più mare, non cielo, non stelle, ma (com’è possibile?) è rimasto quel blu, ed è solo, ed è tutto, è come un suono continuo, visibile, un’impenetrabile, avvolgente sfera, con noi dentro, è blu. Ci siamo rifugiati su in soffitta per osservarlo meglio, sdraiati, attraverso la grande finestra obliqua, la tribù è al completo, e i nostri pensieri anche corrono avanti e indietro, come all’unisono, e stentiamo ad addormentarci : sì, siamo felici. Fuori, i ghiri passeggiano avanti e indietro, li sentiamo, e anche i nostri pensieri sentiamo, bum… bum… bum…, come se tutti insieme fossimo una sola grande testa, a disegnare gli eventi straordinari che muteranno, come in un sogno, la routine della vita : partire dalla Sicilia assolata, dove viviamo tutti insieme, comunità di bambini e adulti che solo e sempre giocano fra di loro, per di nuovo separarsi, scuola, lavoro, non più tutti insieme, crescere (è questa la vita)… ecco, questo sarà, è, oramai, impossibile. Siamo assediati – e la spianata, il Castello con i suoi sentieri che ramificano per abbracciare gli altri nostri possedimenti (qui siamo solo fra di noi a correre per i sentieri, e lo spazio sembra infinito) diventa nella nostra immaginazione una terra inattaccabile, dove è sempre estate e che non conosce la malattia e la morte, né il tempo che passa. E poi, pensiamo (sempre), e le nostre mani si stringono a formare una catena umana, e quei pensieri son parole senza bisogno di essere dette, se ci attaccassero (la malattia, la morte, il tempo che passa), combatteremmo: non è forse quello che avevano fatto Aiace, Achille, le Amazzoni, le cui amate avventure si intrecciano da sempre con le nostre ? (Ci anima, va da sé, Il domator di cavalli, ma il suo nome non si può pronunciare, o scrivere: siamo Troiani…) Vivremmo, in quel caso, ma da eroi, combatteremmo insieme, il pericolo della natura ci unirebbe, fra scherzi e prodezze vivremmo – vivremmo, sì, da eroi, fra dèi e deesse, o da eroi moriremmo : e tutti intorno a chi muore per strofinarlo, blu diventa il suo corpo, colore che sfuma, e sfumando diventa blu anche chi soccorre, è un’onda blu che dolce si propaga, ora che l’altro è morto soccorrono lei, lui, e si confonde con gli altri, che galleggiano come tanti iceberg,  di nuovo tutti insieme, nel mare nostro, ed il cielo, le stelle: blu. Isolati, bloccati, attaccati, e combattiamo, il morbo, i l  n o s t r o  l u o g o, quel luogo magnifico, ma siamo caduti, la malattia, l’amore è più forte, o forse no, blu, sì, moriremmo, infine, o moriamo, stiamo morendo, le nostre mani sempre annodate in catena come in un quadro perenne,  morendo… m o r e n d o … E finalmente – ma come? ma quando? – insieme lo sciame si adagia, ci addormentiamo, il rumore dei ghiri ci culla, i pensieri diradati son diventati un unico sogno, quel senso di carezza tiepida che ci avvolge. Siamo blu.

Questo era molti anni fa – perché sì, per fortuna l’epidemia finì per esser poca cosa, anzi, non è neanche veramente iniziata, siamo tornati nel continente dopo pochi giorni, l’estate è finita, il tempo ha ricominciato a scorrere normalmente, e normali, benevoli, son tornati i colori. La tribù si è sciolta, si è dispersa nel mondo e nella vita, molti son morti veramente, anche se non di peste, nessuno comunque è più tornato al Castello. Ma (è strano?) quando mi è capitato negli anni di rincontrare qualcuno di quegli antichi eroi, che fosse dentro l’agone, a comandare uomini e cose, o ritirato a coltivare il suo orto, come per incanto, invece di indagare sui nostri rispettivi destini, subito, sempre, ci siamo ritrovati a rievocare quella notte. Come un apice d’irraggiungibile felicità. Blu.

Vita da pollo

http://www.dreamstime.com/royalty-free-stock-images-white-chicken-image10409889Giuseppe A. Samonà

Corro in moto, è sera, l’aria mi accarezza fresca, piacevole, profumo di campagna. Mi inebria, forse vado troppo veloce – l’ho vista all’ultimo momento, quell’ombra. Freno, cerco di deviare, e quasi ci riesco: ma come di striscio colgo qualcosa, e la moto sobbalza, colpita, ed io la trattengo, per non cadere. Mi fermo, due metri più in là, mi volto: per terra, piano, la “cosa” respira ancora, si muove. Dev’essere un gatto, penso – borbotto…-, e mi avvicino. Invece è un pollo, e vive, per fortuna. Vive: e mi guarda ansimando. Lo raccolgo (e lui trema), con le due mani, me lo porto al petto, per riscaldarlo, e mi sembra che i suoi occhi, rassicurati,  dicano: grazie. Già, ma che fare? La sua ala destra si è come dislocata, ed io con dolcezza provo a rimettergliela in posizione: funziona (glielo leggo, di nuovo, negli occhi). Pure, ancora, non riesce a camminare, zoppica, ché l’ala gli pesa. Così, decido di riportarlo alla fattoria – la s’intravede in lontananza (cioè, non s’intravede, ma una freccia lo dice: a due chilometri…). Di nuovo, lo raccolgo (docile, lui, si lascia raccogliere) e me lo raccolgo nel bavero, amorevolmente, solo la testa resta fuori. Poi, riprendo la moto, e timido, per non spaventarlo, mi avvio. Torniamo a casa, che gli dico (sì, oramai mi sono affezionato a quel pollo ferito). E lui, come fosse felice, mi guarda, si guarda intorno, assapora l’aria fresca, piacevole, profumo di campagna. Siamo amici.

La donna che mi accoglie, un donnone, ha gote rubizze, collo tozzo, e gambe e braccia, come il seno, robuste: È – penso – di selvaggia bellezza. E le dico: Si dev’essere perso…, forse vi appartiene.  Mentre, con gesto amorevole, le porgo il mio pollo ferito.

Eccolo, finalmente – dice lei, allungando amorose le mani. E raccoltoselo al seno con gesto sapiente rapida gli tira il collo. E lo uccide.

Heurs et malheurs d’un poulet

http://www.dreamstime.com/royalty-free-stock-images-white-chicken-image10409889 Giuseppe A. Samonà

C’est le soir, je roule en moto, l’air frais me caresse agréablement. Je suis comme enivré par les parfums de la campagne, je vais peut-être trop vite – cette ombre, je l’ai vue au dernier moment. Je freine, j’essaie de dévier, j’y parviens presque: mais je touche quelque chose sur le côté, la moto fait une embardée, je la retiens pour ne pas tomber. Je m’arrête deux mètres plus loin, je me retourne: par terre, doucement, la “chose” respire encore, elle bouge. Ce doit être un chat, me dis-je, et je m’approche. Mais non, c’est un poulet, et il est vivant, par chance. Il est vivant et me regarde, haletant. Je le soulève des deux mains (il tremble), je le serre contre moi pour le réchauffer, et il me semble que ses yeux, rassurés, me disent: merci. Mais que faire? Son aile droite paraît disloquée, j’essaie délicatement de la remettre dans sa position: ça marche (de nouveau je le lis dans ses yeux). Mais il n’arrive toujours pas à se mettre sur ses pattes, son aile lui pèse. Alors je décide de le ramener à la ferme qu’on entrevoit au loin (en fait on ne l’entrevoit pas, mais une flèche l’indique: à deux kilomètres…). Je le soulève à nouveau (et lui, docile, se laisse prendre), je l’enveloppe dans mon écharpe, amoureusement, seule la tête reste dehors. Puis je reprends la moto, et timidement, pour ne pas l’effrayer, je me mets en route. On rentre à la maison, lui dis-je (oui, je me suis désormais attaché à ce poulet blessé). Et lui, comme heureux, me regarde, regarde autour de lui, il goûte l’air frais, agréable, le parfum de la campagne. Nous sommes amis.

La femme qui m’accueille est grande et forte, elle a les joues rubicondes et le cou épais, les bras et les jambes, comme la poitrine, robustes – une beauté sauvage, me dis-je… Et je bredouille: il a dû se perdre… il est sans doute à vous… tout en lui tendant d’un geste amoureux mon poulet blessé.

Le voici, enfin – dit-elle en avançant amoureusement les mains. Elle le saisit, le serre contre elle et d’un geste sûr, rapide, lui tord le cou. Et le tue.

(GS/SJ)

Il était une fois à Palerme

quattro-canti-via-maqueda-1931[1]Giuseppe A. Samonà

Trois gamins de douze treize ans, l’air indolent, se traînent dans la rue Maqueda, longue, déserte, chaude, il est trois heures de l’après-midi, c’est l’été.  Tout à coup il voient au loin, comme s’il avait surgi du néant, un rat – lui aussi, l’air indolent, se traîne, mais dans la direction opposée, il vient à leur rencontre, son ombre semble remplir toute la largeur de la rue, il est énorme. Les gamins ralentissent, le rat ralentit; ils s’arrêtent, il s’arrête; ils le regardent, il les regarde. L’un d’eux tape du pied, fort, pour dégager la voie. Le rat le regarde, il ne bouge pas. Ils se mettent à taper du pied, fort, tous les trois. Le rat les regarde, se remet en mouvement, doucement mais avec détermination, et toujours dans leur direction. Ils reculent de deux pas – mais gardent les yeux fixés devant eux; ils s’arrêtent, tapent encore du pied, ensemble, plus fort. Le rat continue d’avancer, sans plus s’arrêter, même un peu plus vite. Ils reculent, plus vite. Il avance, plus vite. Ils reculent. Il avance. Ils font demi-tour et commencent à courir, sans se retourner, jusqu’à leur maison – ils ne sauront jamais  ce que fit ensuite le rat.

(GS/SJ)

C’era una volta a Palermo

quattro-canti-via-maqueda-1931[1] Giuseppe A. Samonà

Tre ragazzini sui dodici tredici anni si strascinano indolenti per la via Maqueda, lunga, deserta, calda, sono le tre del pomeriggio, è estate. Vedono all’improvviso in lontananza come se fosse sbucato fuori dal nulla un ratto – si strascina indolente anche lui, ma in senso opposto, viene verso di loro, la sua ombra sembra riempire per larghezza la strada, è enorme. Rallentano, i ragazzini, rallenta, il ratto ; si fermano, si ferma ; lo guardano, li guarda. Uno dei tre batte con il piede per terra, forte, a liberare la strada. Il ratto lo guarda, non si muove. Battono forte il piede tutti e tre. Il ratto li guarda, si rimette in movimento, piano, ma deciso, e sempre verso di loro. Retrocedono d’un paio di passi – ma con lo sguardo in avanti, fisso -, si fermano, battono ancora il piede, insieme, più forte. Il ratto continua ad avanzare, senza più soste, anzi un po’ più veloce. Retrocedono. Avanza – più veloci, più veloce. Retrocedono. Avanza. Si voltano e cominciano a correre, senza voltarsi, finche arrivano a casa – né mai sapranno cosa fece il ratto.