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SPAESE MIO: Cronache dell’ora berlusconiana ovvero Note su una società in frantumi

Lamberto Tassinari

PREMESSA

Se io dirò alcune cose circa questi presenti costumi (tenendomi al generale) colla sincerità e libertà con cui ne potrebbe scrivere uno straniero, non dovrò esserne ripreso dagli italiani, perché non lo potranno imputare a odio o emulazione nazionale, e forse si stimerà che le cose nostre sieno più note a un italiano che non sono e non sarebbero a uno straniero, e finalmente se questi non dee risparmiare il nostro amor proprio con danno della verità, perché dovrò io parlare in cerimonia alla mia propria nazione, cioè quasi alla mia famiglia e a’ miei fratelli?

Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli Italiani.

Giacomo Leopardi, 1824

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A una società in frantumi si addice questo testo in frantumi, appena salvato dal naufragio del tempo. Avrebbe potuto essere un libro, un libretto, un pamphlet. All’epoca in cui cominciai a scriverlo, Giuseppe mi disse: “Questo devi finirlo e pubblicarlo”.

Ecco fatto.

[…] Il fatto vero è che è costume italico diffuso, magari al 50%, quello di fottere il prossimo, le istituzioni, il supermercato, l’INPS, l’INAIL, le ASL, giocherellare con l’ICI, con le assicurazioni, acquistare cose tarocche, percepire in nero che più nero non si può, non fare lo scontrino fiscale, la ricevuta, magari non fare la fila, farsi raccomandare, voto di scambio, separarsi per finta, prendere residenze fasulle, beccarsi contributi europei e via andando così. Mi piacerebbe che qualcuno scrivesse sulle tante piccole e grandi nefandezze pubbliche e private dell’italica gente, vera e propria casta di sòla [furbi, disonesti] non appena se ne offre l’occasione. Poi però tutti appassionatamente sosteniamo che la politica è fatta da emeriti sola. Perchè noi che siamo ? Ormai un sola al governo ci sta bene perchè rappresenta benissimo la repubblica dei  sola. (Da un forum di  La Repubblica)

A cui aggiungo:

L’Italia non è stata ridotta così da Berlusconi ma essendo ridotta così, ha prodotto e riconosciuto Berlusconi, necessariamente. Così il “berlusconismo” si identifica con l’essere italiano e ciò che dovrebbero combattere gli italiani è una parte di noi.

Assioma

Quanto grande si possa immaginare un caso di corruzione politica in un paese qualsiasi, è sempre possibile trovare in Italia un caso di corruzione maggiore.

Salvare l’Italia?

Tutto ciò che è pubblico è per gli italiani sgradevole: si va dal rifiuto totale, anarchico e selvaggio delle regole e degli ordinamenti pubblici, al fastidio e all’imbarazzo. Lo so che la cosa è risaputa ma vale la pena ripeterlo e non darlo per scontato perché si tratta di un’affermazione pesante dalle conseguenze drammatiche.

Inoltre: il capitalismo italiano, anomalo come tutti sanno, è stato da sempre neoliberista, o meglio neoliberal che è la denominazione del recente capitalismo d’assalto, spregiudicato, che appare alla metà degli anni 80 con la Thatcher e Regan e si afferma negli anni 90 su tutto il pianeta, quello arrogante che negli Stati Uniti ha partorito i neocons, Bush, Enron, il trionfo del privato e gli Sport Utility Vehicules .

Firenze, inizio del Ventunesimo secolo.

Nessuno di quelli che incontro in città sa che vivo da quasi trent’anni dall’altra parte dell’Atlantico. Non si vede nè si sente niente. L’aspetto, fisico-frenologico-vestimentale, è decisamente conforme al costume nazionale. Linguisticamente impeccabile, fornito anche della giusta inflessione dialettale, mi presento come un fiorentino o almeno come un toscano a tempo pieno. Solo che non lo sono e mi muovo per la città come un agente segreto che mai abbandona il terrore di essere smascherato. Questa, evidentemente, non è la mia prima missione. Nel corso delle dieci o quindici precedenti ho già raccolto molti documenti e prove che sarebbero certo sufficienti alla redazione del Saggio finale sullo stato presente dei costumi degli italiani. Solo che la raccolta dei dati in questo 2010 ha il vantaggio, ai fini della ricerca, di svolgersi all’apice dell’ora berlusconiana, nel momento penoso in cui l’incerta democrazia si è trasformata definitivamente in una solida videocrazia che ora sembra vicina al tracollo. Sembra. So, e qualche amico me lo ripete ogni tanto, che almeno uno su quattro degli italiani che incontro per la strada, ha votato Forza Italia nel 2001 e ora, nove anni dopo sono due su quattro quelli che sostengono il Partito della Libertà. Non mi sorprende che nel 2001 Berlusconi abbia avuto un tale successo perché tanti italiani non ne potevano più di quello che lui stesso aveva efficacemente definito il « teatrino della politica » : teatrino della chiacchiera e della retorica, del politichese nella forma e nella sostanza. E hanno votato per lui, alcuni prendendolo per un industriale serio, operoso e fortunato, diverso dai grigi e inconclusivi politici tra Dc e PCI, un a-politico che prometteva efficienza e modernità per l’azienda Italia. Altri, la maggioranza, prendendolo per quello che è, un imprenditore abile e spregiudicato, nato e cresciuto al culmine dell’affarismo craxiano. A loro, Berlusconi piaceva e piace così, per quello che era, per quello che dice e per come lo dice. Dopo tanti anni di governo è logico concludere che sia abilissimo nella comunicazione. Abilissimo almeno nel comunicare agli italiani, a oltre la metà di loro che devono necessariamente pensare come lui : la stessa volgarità, lo stesso «buon senso», lo stesso spirito, tutte qualità proprie dell’antica cultura contadina e della provincia italiana, ma trasformate, massacrate da mezzo secolo di consumismo e di televisione. Quello che all’inizio ha sedotto tanti  italiani sono state le convinzioni di capitalista liberista, di anticomunista, di arrogante affarista di successo, convinzioni che per loro erano sinonimo di «modernità». Ma se fino a qualche anno fa molti si illudevano che potesse cambiare le cose, oggi sono in meno a crederci e a capire invece che Berlusconi non ha trasformato né trasformerà l’Italia, non la trasformerà nemmeno in quello che gli riesce meglio, nel paese del perfetto mercato e dello spettacolo. Nemmeno in questo.

 

Io non riesco a seguire la scena politica di questi anni e degli ultimi mesi del 2010 con la rivolta di Fini…Confesso che non ho letto un solo quotidiano nelle mie ultime tre settimane di soggiorno e una sola volta ho guardato una di quelle trasmissioni insopportabili che tutti gli italiani prendono per «dibattiti». Dunque, se mi manca la conoscenza della cronaca ho visto e sentito abbastanza per concludere che molto probabilmente Berlusconi non finirà questa sua quarta legislatura. Anni fa Indro Montanelli era stato profetico: lasciatelo governare, ci penseranno gli italiani a scaricarlo. È quello che sta succedendo : i commercianti, bottegai e imprenditori che l’hanno votato sperando nella cuccagna si stanno accorgendo che questo affarista fa tutto per sé e il resto non sa fare. La destra, malgrado abbia molta più coscienza di classe della sinistra, dunque più coesione e intenzione, non riesce a far funzionare quello che ora chiamano il sistema Italia, semplicemente perché  non esiste nessun sistema.

Cammino per le strade, entro nei negozi e nei ristoranti, salgo su autobus e treni, parlo con gli italiani, incontro parenti e amici. E mi accorgo che gli italiani sono stanchi, delusi, tristi.

È vero che non hanno mai creduto alla politica, ai politici. Ma cinquant’anni fa la situazione era più semplice, la diagnosi a cui giungeva una buona parte di loro era il risultato di una visione cinica del mondo : i politici sono disonesti per definizione, stanno lì per il potere e per l’interesse personale, per mangiare alle spalle della gente. Oggi le cose sono molto più complesse : finita da vent’anni la politica dei due blocchi che tanto ha derminato gli equilibri politici, finita la crescita economica, in crisi il prestigio del «made in Italy», in crisi l’idea dell’unità territoriale e culturale del Paese, in crisi la lingua italiana destabilizzata dall’inglese, in crisi la solidarietà europea, in crisi la mai consolidata identità nazionale nel confronto con la recente e caotica ondata immigrante, in crisi anche il cinema italiano…

Molti se non tutti questi elementi di crisi sono comuni a altre società europee e occidentali ma il caso italiano è più grave e possiede una specificità che va indagata, va capita. Se è davvero possibile «salvare l’Italia» come pensa o spera Paul Ginsborg bisogna prima riuscire a capirla come si deve.

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Il solo vantaggio a parlare dell’Italia, a cercare di farne un ritratto è che si può fare con calma perché la modella non si muove, è completamente immobile. Possiamo alzarci, andare in bagno, farsi anche una doccia, uscire addirittura e tornare dopo un giorno o un anno o quando si vuole perché quando si tornerà si troverà che non si è mossa di un millimetro, perfettamente immobile, ci si accorgerà che niente, assolutamente niente è cambiato. Oggi, 28 luglio 2010 (due mesi prima del mio programmato soggiorno in Italia) riprendo a scrivere a tre anni dall’ultimo intervento in queste pagine effettuato diciotto mesi dopo la vittoria di Romano Prodi, dopo che Berlusconi era stato mandato a casa. Ora Berlusconi è ritornato già da quasi tre anni e effettivamente niente è cambiato. Non importa che questo personaggio sia ancora al potere o no perché Spaese mio non è un altro libro contro o su Berlusconi. Non è nemmeno un libro sul «carattere degli italiani» né sulla nostra identità nazionale anche se i due argomenti torneranno più volte. È un libro sul potere o meglio sugli italiani e il potere, su questa iperumanità che è la nostra, un’umanità senza «polis», senza comunità. Letteralmente una società in-civile. Però è vero : a far scattare il bisogno di scrivere è stato il secondo, vero arrivo di Silvio Berlusconi al potere. Ho voluto provare a capire perché quest’uomo è riuscito a imporsi agli italiani e soprattutto trovare le ragioni della sua permanenza al potere. Corollario di questo racconto è un’interrogazione sul ruolo e il senso della sinistra in Italia. Perché, chiedo, l’abbondanza, in questi ultimi sessant’anni, sia di «teoria e prassi di sinistra», di illuminanti interventi critici sulla società e la politica italiana come di esperienze e esperimenti sociali concreti, non ha impedito che la situazione precipitasse totalmente non solo a destra, a un punto di penosa drammaticità ? Sono stati pensati i giusti pensieri, scritti i buoni libri, sperimentate le giuste esperienze per capire e salvare l’Italia ? Questa è forse la questione che più ha fatto da molla e alla quale cercherò di rispondere anche se, a prima vista, sembra davvero troppo tardi, tanto che verrebbe voglia di lasciar perdere e di vivere ciascuno il proprio esilio ( esterno o interno, secondo i casi). Un pensiero, subito, a freddo sulla nostra sinistra, un tentativo di estrema sintesi: le straordinarie fortune della sinistra furono l’effetto dell’arretratezza economica e sociale dell’Italia. Il nostro sistema capitalistico si è sviluppato tardi e male: ossia non ha prodotto, per tante ragioni, quella socialità, quella relativa giustizia economica che altrove ha contentato e addormentato la gente. In un paese rimasto per secoli senza Stato, dominato da aristocrazie, élites e mafie, questa anomalia non poteva non produrre una compensazione. La sinistra è stata questa compensazione. Le fortune della sinistra, con la parentesi del fascismo (che ha compensato altrimenti, appunto con il nazionalismo sociale), sono durate dal 1890 al 1990, un secolo esatto. Con la fine dell’URSS ogni idea o meglio ideologia sociale è stata abbandonata e l’Italia è passata APERTAMENTE e FEROCEMENTE, dal comunismo astratto al consumismo concreto.

Tuttavia il sospetto o la speranza, è che l’Italia sia stata e rimanga, in qualche modo, sempre un modello. A qualcosa del genere alludeva Leopardi, a questo si riferiva esplicitamente Giulio Bollati quando, analizzando il «trasformismo», scriveva «  (…) che dietro quella parola infelice, introdotta dall’ ‘evoluzionista’ Depretis, si nascondeva qualcosa di importante (una nuova scoperta italiana?), ed era un’arte di governo capace di controllare in modo ‘dolce’ la violenza di un’età dominata da una schizofrenia crescente tra principi e interessi.  (…) Dove il trasformismo (che è violenza mascherata) fallisce, subentra la violenza aperta : la nostra breve storia nazionale è come un laboratorio sperimentale del procedimento. »  In effetti a trent’anni da quella diagnosi, al momento dello sfascio, la verità italiana  sembra ormai realizzarsi, in forme analoghe, nella gran parte degli stati democratici dell’Occidente. Ci riveliamo quasi come un modello o almeno come il «caso» capace di descrivere la putrefazione di una forma di governo, la democrazia parlamentare.

Vale dunque la pena continuare a parlare d’Italia.

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In Italia, le opinioni sono la merce più diffusa, e i primi a saperlo sono quelli che riempiono i nostri media. Quantità, ma anche qualità : perchè gli italiani colti, i produttori di letteratura e di informazione, hanno scritto e scrivono ancora bene. Spesso, scrivono troppo bene. La bravura che si ritrova nelle opere di saggistica e sulle pagine letterarie, di cultura e di opinione dei quotidiani e di certe riviste, cozza con la volgarità e la banalità del resto della comunicazione. Uno scarto che non ha pari in altre società, un contrasto che deve pur essere il sintomo di qualcosa di serio. Ogni volta che osservo la nostra abbondanza di stili e di belle forme, ripenso a Riccardo Felicioli  – sottile e lucido intellettuale d’azienda della linea Ottieri-Volponi, oggi scomparso –  il quale parlava spesso con perfida ironia delle  ‘belle penne’ nostrane. Decenni dopo, il flusso non si arresta. Nel 2004, in un’intervista concessa in occasione della celebrazione dei vent’anni dall’ultimo numero della rivista Quaderni piacentini (1961-1984), il fondatore e direttore Piergiorgio Bellocchio ha detto : « Forse in questi anni avrei potuto scrivere di più. Ma se anche molti altri avessero seguito il mio esempio, vivremmo meglio. Meno oberati da carta inutile. ». Perché allora non comincio io col tacere ?  Forse perchè in quei decenni io ho seguito il suo esempio e poi perché ora  mi propongo di scrivere poco e, mi auguro, diversamente.

Vorrei riuscire a portare una cosa sulla scena italiana, invece di parole ! Mai come ora sarebbe necessario dire : « Guardate questa cosa. È così ». E tutti vedrebbero. E invece, ho il sospetto che l’Italia non possa chiarirsi, né con le parole né con le cose. Che non possa risolversi che sparendo : nell’Europa, forse (in moltissimi l’hanno sperato). Ma il paese, mi dico poi, che fu definito un’espressione geografica, oppone una resistenza, giustamente geografica, oggettiva, al suo assorbimento in un corpo più vasto. La stessa natura peninsulare impedisce alle sue regioni di farsi assimilare da corpi sociali e politici vicini, il « mare nostrum » non lo consente. L’Italia si disfa, ma non sparisce. Allora, se è condannata a restare, proverò a raccontarlo questo Paese ostinato in un altro periodo drammatico della sua storia in cui, come in una vita, il momento di un tracollo sempre annunciato, infine arriva, i nodi finiscono tra i denti del pettine. Racconterò l’Italia facendo di tutto per portare uno sguardo calmo e descrittivo, corsivo. Se non una cosa, uno sguardo da fuori, sull’Italia. Chi emigra, come ho fatto io, è costretto a guardare e seguire l’Italia da fuori. Se partendo si perde il polso del paese, si acquista però una nuova prospettiva riuscendo a vedere, spassionatamente, tutto il bosco. Nel Gange di scritti e di opinioni che l’Italia ha prodotto e produce su se stessa c’è certamente già quello che serve a capire, a interpretare questo paese strano. È un’antologia bizzarra, con una dozzina di autori in sette secoli di storia. È affascinante ma, infine, deprimente constatare come, malgrado da secoli si producano regolarmente, da parte di italiani, analisi e diagnosi acutissime sulla società italiana, nessun movimento politico se ne sia mai veramente servito rivendicandole o ispirandosene. Eppure, da Dante, Machiavelli, Gramsci fino a Agamben e il meteco Ginsborg, sono tanti gli scrittori  che avrebbero potuto animare e alimentare la rinascita civile e politica dell’Italia. E invece no, perché la nostra società è stata unanime nel rispetto rigoroso della separazione dei generi e delle competenze o delle corporazioni ! Dunque anche se l’assassinato Pasolini e l’ostracizzato Sciascia e qualche altro hanno genialmente fuso letteratura e politica, i politici di professione, i dirigenti industriali, i leader d’opinione, i media, insomma la «razza padrona», sono riusciti a vanificare ogni tentativo di trasformazione, di rivoluzione culturale, contribuendo infine a mantenere la società civile fondamentalmente immutata. Io proverò a riaprire alcuni casi significativi, perché voglio cercar di capire le ragioni di questo nostro scialo di intelligenza e di cultura che riassumo nella questione : perché la cultura alta non ha mai alimentato la politica ?

Proverò a rispondere, leggendo testi emblematici di grandi e meno grandi eretici e protestanti, rivoluzionari, ma anche della stragrande maggioranza di coloro che scrivono libri e articoli, per tentare di scoprire perché niente e nessuno, malgrado la forza e la bellezza di tanti pensieri e gesti, sia mai riuscito a cambiare questo Paese.

Salvare l’Italia da se stessa

Gli italiani, oggi più ancora che nel passato, non riescono a ammettere collettivamente la gravità delle proprie condizioni, si illudono, si nascondono. Se uno straniero li giudica, la sua critica viene negata e imputata a malanimo, gelosia, complessi di chi attacca. Se è un altro italiano, allora la sua critica viene definita dura, ingenerosa e l’autore e l’opera, se possibile, ignorati. È successo a tanti, da Leopardi in poi e, negli anni 90, a Franco Ferrucci, scrittore che da decenni vive fuori d’Italia. Tra i suoi numerosi saggi e romanzi pubblicati da editori italiani, il più politico, quello che più acutamente affronta il soggetto delicato dell’anomalia italiana, Nuovo discorso sugli italiani (Rizzoli 1993) snobbato dalla critica e ignorato dal pubblico, è oggi scomparso dagli scaffali di tutte le librerie d’Italia. Parlerò più oltre di questo breve e assai fine saggio letterario-politico-antropologico che se fosse stato recensito come si deve e letto diffusamente, avrebbe credo lasciato il segno, contribuendo a avviare un dibattito serio nella società italiana. Ma i casi di rigetto di ogni parola critica che vada alla radice del male profondo e che rischi dunque di cambiare qualcosa, sono numerosissimi. Un esempio minimo ma significativo lo offre questa banale nota de Il Foglio del 26 maggio 2005 : L’appello di Ciampi alle forze politiche sulla crisi economica: “Bisogna affrontare questo ultimo anno della legislatura come se fosse il primo della nuova legislatura”, perché “non possiamo lasciar trascorrere dodici mesi senza agire con determinazione”, dice il capo dello Stato, “ne conseguirebbe un ulteriore deterioramento delle condizioni presenti”. Anche un passaggio duro nel discorso di Ciampi: “Quali siano le cose da fare è noto a tutti. Il problema è che non si fanno o si fanno stentatamente”.  

«Passaggio duro», capite ? Ma questo è il minimo che un presidente della Repubblica, come ogni persona intellettualmente onesta, possa dire sulle esitazioni e inconcludenze della politica italiana dal dopoguerra a oggi e un giornalista avrebbe semmai il dovere di rincarare la dose, abbandonando quella che a me sembra essere stata discrezione invece che durezza da parte del presidente della Repubblica.

Vista la tendenza dominante del mondo mediatico e culturale a bloccare tutto ciò che disturba, temo che il mio tentativo, e non solo per le deboli forze dell’autore, nutra poche speranze di smuovere qualcosa in Italia. Tuttavia l’indagine è così vitale e scrivere, per me, il solo modo di conoscere e di capire, che non posso rassegnarmi al silenzio. Come in natura, a rilievi presso specchi d’acqua corrispondono, sui fondali, depressioni di identiche dimensioni, così in Italia all’altezza di certi intelletti e sensibilità corrispondono abissi di trivialità e leggerezza. Il fenomeno è universale ma si tratta, appunto, di cogliere la specificità italiana. Io mi ci sono allenato vivendo fuori d’Italia già dai primissimi mesi del mio volontario esilio. Allora, per questi miei esercizi usavo quasi esclusivamente il quotidiano La Repubblica che già nei primi anni Ottanta del secolo scorso aveva cominciato a derapare verso un sempre crescente stile consumistico e sensazionalista, preparandosi a diventare il giornale televisivo, ambiguo, schizofrenico e schizogeno che è divenuto poi negli anni Novanta  e ora paradossalmente antiberlusconiano. Il caso di Repubblica è emblematico, poichè si trattava, agli inizi,  di un prodotto sano, di un medium laico, con idee sociali moderate ma lucide, progressiste come si diceva, con intenzioni e scelte programmatiche serie in politica e in cultura. Non se ne sospettava allora la vocazione commerciale e consumistico-populista che con gli anni ha preso il sopravvento senza eliminare appunto, e questo alibi è un aspetto della specifità italiana, una venatura di cultura alta e  de gauche, ma fondendola in un ibrido malinconico di vuoto e volgarità. Preceduta su questa via infelice dal settimanale L’EspressoLa Repubblica è diventata, ai miei occhi, lo specchio della degenerazione della società italiana in questi ultimi trent’anni. Tutto e tutti hanno lasciato scivolare questa società verso il profondo degrado attuale : solo singoli hanno profetizzato, parlato, e anche agito, ma senza esito.

Per la mia ricerca manderò una sonda nel passato a tre profondità : a diciotto anni, alla discesa in campo di Berlusconi; a una quarantina d’anni, intorno al 1975, quando fu ucciso Pier Paolo Pasolini; a duecento anni, quando Leopardi definì una volta per tutte l’Italia  e Manzoni l’ immaginò nazione; a quattrocento anni, al Seicento, l’epoca che più ci ha marcati e della quale produciamo collettivamente solo varianti.

Non vorrei scrivere un bel saggio. Vorrei che questo «sondaggio» avesse, se non la forza della scoperta, almeno quella dell’ onestà e della sincerità. Vorrei che fossero parole utili, liberatorie, contributo tanto umile quanto inadeguato alla conoscenza di sé, un esame del quale, come collettività, abbiamo un bisogno vitale. È per questo d’altronde che scrivo : perchè l’Italia, standoci, agisce su di me come una continua provocazione dolorosa. Standone fuori, come un oggetto di attrazione morbosa, insopportabile, che chiede di essere affrontato.

Dicembre 2010, all’indomani dall’ennesima affermazione di Berlusconi che alla Camera al Senato è riuscito a respingere la sfiducia contro il governo.

Zoom out : chi è Berlusconi ? Molti pensano, la quintessenza di noi italiani. Meglio, metafora del nostro degrado civile, culturale e politico. No, non solo della nostra parte peggiore. Questo lo dicono quegli antiberlusconiani ideologici che in fondo hanno assistito disgustati ma distratti alla sua resistibile ascesa, incapaci di contrastarlo perchè, in modo e misura che restano da determinare, condividevano più o meno incosciamente la sua cultura. Questa verità è stata detta da tanti, prima e dopo l’avvento di Berlusconi. Ma se qualche intellettuale e giornalista la può affermare in un saggio o su giornale, lo stesso non accade ai politici : né un partito né un movimento hanno mai preso atto davvero della profondità del nostro degrado. Del fatto che Berlusconi è chiaramente un punto d’arrivo nazionale, colui che, questo sì come Mussolini, ci ha svelati e compromessi tutti. Ciò che mi interessa non è tanto Silvio Berlusconi, il presidente del Consiglio su cui si scrive anche troppo, quanto le condizioni che l’hanno reso possibile. Mi intriga il berlusconismo ante litteram, quello sistemico che precede i berlusconi in carne e ossa. In quest’ ultima fase del declino, ripeto, non siamo precipitati con la sua comparsa sulla scena politica che è piuttosto il prodotto ultimo del deterioramento del clima etico-politico che la causa. Fenomeni formativi, strutturanti della società italiana del dopoguerra sono stati il calcio e la televisione che sono poi l’essenza della “politica” di Berlusconi. Il fatto stesso che Berlusconi sia riuscito all’inizio della sua avventura nel 1994 a mettere insieme apparentemente dal nulla e nello spazio di pochi mesi un partito come Forza Italia, dimostra che, questa volta, gli italiani erano già fatti!

Qui sta la tragedia, il berlusconismo da sconfiggere o meglio, da guarire, è quello che avendo preceduto Berlusconi, rischia di sopravvivergli. Di questo, ripeto, i nostri spigliati politici e intellettuali di sinistra che non sanno essere contro, che attaccano un Berlusconi che pare alle corde, non vogliono parlare, forse perchè sanno di aver iniziato tardi e male la resistenza. Perchè sanno, anche se non lo ammettono, di aver fatto poco o nulla negli anni ‘90 ai tempi dei governi dell’Ulivo quando la nuova sinistra era al governo.

Ma certo le responsabilità della sinistra vanno oltre quest’ultima fase della prima Repubblica e datano già dal primo dopoguerra: onestamente va ammesso che, al di là delle sigle d’origine, tutti i fatti – azioni, scelte, decisioni, comportamenti di singoli come di partiti – della nostra vita politica, prima di essere appunto di destra o di sinistra, sono espressione di una identica cultura, di una identica mentalità italiana. Ad esempio, quando si parla di trasformismo, fenomeno che tutti riconoscono come specificamente e tipicamente italiano, nessuno oserebbe affermare che riguardi solo la destra. Insomma se evidentemente negli ultimi sessant’anni in Italia sono state attuate, in certi periodi, dalla destra come dalla sinistra, politiche serie che hanno dato risultati socialmente positivi, queste politiche quanto riuscite fossero, sono state poi sempre negate e nullificate, come tutti abbiamo potuto constatare, da azioni sconsiderate e irrazionali dettate da logiche di gruppi, correnti o fazioni che poco o nulla avevano a che fare con idee di destra o di sinistra. Così, perchéle Regioni, la cui istituzione è stata sancita dalla Costituzione nel 1948, sono state attuate solo nel 1970? Si tratta di un ritardo di destra o di sinistra? Insomma, la verità è in questo caso evidente e forse è bene affermarla, accettarla e assumerla collettivamente e in modo ufficiale: in Italia i politici, di destra come di sinistra, sono stati incapaci di riformare a causa del fatto che la maggioranza degli italiani NON VUOLE CAMBIARE. Questa non è un’opinione qualunquista come si diceva una volta, è un dato tristemente obiettivo: i fatti sono sotto gli occhi di tutti, in libri, rapporti, articoli, discorsi, nero su bianco. Il bravo e volenteroso Paul Ginsborg storico dell’Italia di sempre, da generoso pedagogo com’è, si ostina a credere nei propri allievi vagabondi. Nel 1998 dava credito agli italiani e riteneva che « (…) non esisteva alcun handicap permanente che gravasse sulla storia recente del Paese.» (P.G., p.X), Dodici anni più tardi non ha cambiato opinione e scrive “Naturalmente non attribuisco a nessuno di essi [quattro grandi pericoli da cui l’Italia moderna deve essere tutelata] valore di tara, non li tratto come componenti irremovibili, ‘antropologiche’ o permanenti”. (P.G.Salviamo, p.85-86) Ma da dove nascono allora quelle che lui stesso individua come le più gravi «carenze strutturali» di cui soffre l’Italia se non da tare? Giacomo Leopardi lo sapeva già nel 1824 e così Giulio Bollati che nel 1972 ce lo ridice e lo ripete nel 1983 in quello splendido libro che è L’italiano

Berlusconi in campo

Nel 1994, all’arrivo di Silvio Berlusconi, la crisi politica e etica del Paese è già avanzatissima e l’uomo di Arcore non fa che spingerla verso il climax. La rilettura di un dibattito a tre voci fra Giancarlo Bosetti, Norberto Bobbio e Gianni Vattimo sulle sorti della Sinistra realizzato, a qualche mese dall’avvento di Berlusconi, dalla rivista Reset, ce ne offre una prova drammatica. La scelta di questo libriccino di Reset non è il risultato di una ricerca condotta secondo criteri scientifici, ma un puro caso. Avrei potuto trovare altri testi, forse anche più illuminanti, ma a me è capitato questo per le mani e da lì ora parto. D’altronde, una cosa è certa : da qualsiasi luogo del magma si affronti il caso Italia, con qualsiasi pre-testo, si arriva comunque alla medesima conclusione. Allora scrive Bosetti nell’introduzione…

[Qui il manoscritto si interrompe]

A quarant’anni di profondità

Dagli anni Settanta alla metà dei Novanta, il più acuto e onesto contributo a capire il caso italiano, a mio parere, è stato il saggio di Franco Ferrucci che, proprio per questo credo, è stato ignorato da tutti (…)

In Italia la Sinistra è stata un’esagerazione, dall’inizio alla fine. È stata una finzione nel senso che dice Bollati quando descrive un proletariato immaginato dalle avanguardie socialiste verso la fine dell’Ottocento in un paese che  non possedeva ancora le condizioni di capitalismo maturo, dunque in cui un proletariato ancora non esisteva.

I cosiddetti errori della sinistra appena considerati, quelli recentissimi, quanto gravi e penosi siano tuttavia non bastano a spiegare questo disastro: bisogna andare alle radici dell’Ulivo, della Quercia e di tutta la flora nata dalla putrefazione della sinistra storica. E di lì discendere senza esitazione fino al dopoguerra, poi agli inizi del secolo scorso e giù senza timore, fino al Risorgimento e oltre, fin dove il passato d’Italia serve a capire il presente. Lo so che “tutti lo sanno” ma non se ne prende atto collettivamente. Per farlo basterebbe tener conto di quello che sta scritto in comuni libri di storia e in molti saggi e articoli che rimangono confinati nelle biblioteche, sugli scaffali delle belle librerie, in una teoria e una coscienza astratte, riservate ad uso privato di intellettuali e lettori alieni dalla società.

Dopo Reset, continuerò a farmi guidare da altri libri perché sono convinto che tutto quello che serve a capire, è stato detto. Porterò queste idee e giudizi di tempi anche molto lontani sulla scena di oggi, certo che serviranno a comprendere almeno una parte dell’anomalia e dei misteri dell’Italia. Bisognerà soprattutto leggere alcuni scritti censurati, repressi, dimenticati o mal letti perché è in questi che si nasconde, credo, una chiave di lettura: rimettere in contesto intere pagine, interrogare tutto questo pensiero a scopo apertamente politico, non letterario o accademico. Da Dante e Machiavelli a Manzoni, Leopardi soprattutto, Ascoli fino a Gadda, Chiaromonte, Pasolini, Bollati e Sciascia e più tardi Bobbio, Sartori, Ferrucci, Agamben e Perniola. Non si tratta di comporre una bella antologia, ma di usare sincronicamente quegli scrittori che hanno l’Italia a cuore, tutti nostri contemporanei, per vedere come siamo arrivati a questo sfascio.

Con un’idea debole della Storia mi accingo dunque a evocare il passato scendendo a circa quarant’anni di profondità.

Nel 1972 è uscito da Einaudi L’italiano di Giulio Bollati.

Nel 1979, è uscito da Laterza un libro sull’Italia intitolato «Dal ’68 a oggi. Come siamo e come eravamo». Oggi rileggerlo fa l’effetto di una spietata e drammatica moviola.  Riflettere su quelle pagine in cui osservatori di professione e intellettuali reputati come Antonio Gambino, Giorgio Galli, Lucio Colletti, Tullio De Mauro e Giorgio Ruffolo, tentavano un bilancio degli anni 70, è un esercizio molto più utile che guardarsi le due puntate televisive della “Meglio gioventù” di Marco Tullio Giordana che molti in Italia salutarono come una coraggiosa presa di coscienza delle tragiche vicende di questi ultimi quarant’anni. Il passato è a portata di mano, è cronaca.

[Il manoscritto si interrompe ancora e da qui in poi appaiono solo brevi frammenti.]

(…) per gli italiani la patria è sempre stata ideale, e virtuale. Per quattordici secoli, dalla caduta dell’impero romano d’Occidente al 1861, l’Italia è stato un simbolo caricato di significati diversi ma comunque una cosa senza riscontro preciso nella realtà civile e politica. Il carattere simbolico destinava quest’idea a divenire patrimonio di tutti coloro, e erano pochi, che utilizzavano i simboli nel loro lavoro, gli artisti, in particolare i poeti e i musicisti. L’Italia è stata vissuta così, letterariamente, da una piccola minoranza di italiani appartenenti, dal Trecento in poi, ai ceti privilegiati.

Una patria comunque lontana : perduta nel tempo e poi, per le masse degli emigranti, lontana anche nello spazio. Perché questo è un altro dei tanti paradossi che si incontrano percorrendo la storia : nel momento in cui l’idea si è realizzata ossia, tra il 1861 e il 1870, quando l’Italia è diventata reale, proprio allora, per necessità o per scelta, la gente ha cominciato a partire.

(…) Il Seicento, vero Rinascimento italiano, è il secolo che ci ha formati.

Scrive Niccolò Machiavelli agli inizi del Cinquecento:

«Specchiatevi ne’ duelli e ne’ congressi de’pochi, quanto li Italiani sieno superiori con le forze, con la destrezza, con lo ingegno. Ma, come si viene alli eserciti, non compariscono (Il Principe, capitolo XXVI).

Ossia, intende Machiavelli, agli italiani non preme tutto ciò che è collettivo, sociale dunque, “non compariscono”.

(…) Vale la pena soffermarsi sugli osservatori stranieri dell’Italia :  dai classici, da Goethe a Lamartine, Suarez, alla Radcliffe (di cui parla Franco Ferrucci)

 (…) La cattiva gestazione risorgimentale, sulla scia di Leopardi, Manzoni, Gadda.

In un recente rapporto del CENSIS si trova scritto che l’Italia è un sistema «di popolo senza leadership e di leaders senza popolo». Sono d’accordo, ma da quando è così ? Io credo da sempre. Almeno da quando è stata compiuta la leopardiana «strage delle illusioni» : una strage, va detto che, come il miracolo dell’eucarestia si rinnova incessantemente  fuori dal tempo e le illusioni non fanno che morire.

Gli italiani, prima che aerei americani pilotati da musulmani addestrati negli Stati Uniti andassero a abbattersi sulle torri di Manhattan, erano convinti che tutto l’Occidente fosse come loro : edonista, consumista, cinico. Questa convinzione si è rivelata l’ennesima illusione, caduta la quale, gli italiani si sono trovati gli imbarazzati osservatori di un mondo di gente che crede. Loro che avevano fatto piazza pulita, o meglio loro che mai avevano collettivamente, come Nazione, accolto dei valori, una fede, insomma il Sacro, si sentono diversi, eternamente emarginati.

Siamo avanti perché indietro : è una perfetta verità. Ancora Giulio Bollati situa lo scollamento degli italiani dalla realtà all’inizio del Ventesimo secolo.               

(…) La questione della lingua: da Dante al similinglese.

Rammentare e tener presente la storia, le grandi linee degli avvenimenti marcanti – socio-economici, politici, militari – verificatisi nella penisola a partire dalla costituzione dei comuni intorno al mille. Importante è prestare attenzione alla nascita e ai modi dell’affermazione particolare della lingua volgare, il fiorentino. Come dicono Ascoli, Dionisotti e Vitale, la lingua di Firenze non conquista l’Italia ma è il resto dell’Italia a progressivamente derubare e impossessarsi, trasformandola, della lingua di Firenze. Come è noto la mancata affermazione politico-militare di una delle maggiori Signorie sul resto degli stati della penisola nel corso del Quattrocento, ha reso impossibile la nascita di una grande Capitale quale Parigi, Londra o Madrid per i rispettivi paesi, in grado di trasformare con la costituzione di uno Stato la lingua municipale in lingua nazionale. Senza considerare inoltre che già nel Quattrocento, con la ripresa umanistica del latino, l’evoluzione del volgare rallenta il ritmo. In seguito si affermerà, non come lingua parlata ma come lingua scritta e colta di un’infima minoranza di gente appartenente alle classi alte, aristocratici e borghesi. Il popolo è tagliato fuori: il disprezzo per la plebe è una costante nella cultura italiana. Si tratterà di verificare l’ipotesi secondo cui due momenti della storia d’Italia in cui il Potere si appoggia al popolo e – strategicamente, demagigicamente – accoglie questa spinta dal basso sono il Fascismo, momento nazionalista e populista, e la nascita di Forza Italia di Berlusconi come momento populista anch’esso ma televisivo e edonisticamente triviale.

Torniamo alla lingua e alla “questione della lingua” che occuperà le classi colte e dirigenti per oltre cinque secoli. Sottolineiamo che da Dante a Manzoni, nel trasferirsi della lingua letteraria all’uso comune dominerà sempre una preoccupazione estetica e letteraria invece che sociale, una preoccupazione ossia, per cui la lingua non è considerata strumento sociale ma retorico. Questa è la differenza radicale e drammatica del caso italiano rispetto alle altre grandi culture europee, la francese, l’inglese, la tedesca e anche la spagnola, questa la più vera e tragica manifestazione e causa precoce dell’anomalia italiana. Dunque alla base dell’esclusione sociale sta l’esclusione linguistica da cui discende l’imperfezione necessaria della democrazia italiana.

In secondo luogo, una volta rintracciate le cause profonde della disunità negli sconvolgimenti rinascimentali, con il consolidamento del dominio delle varie dinastie straniere e con il crescente peso esercitato dalla Chiesa a partire dalla Controriforma, va studiata in dettaglio l’evoluzione sociale e culturale, addirittura letteraria (tutto ciò che si scriveva e si faceva in Italia era “letteratura”)  , dell’Italia, dal Risorgimento fino all’arrivo della televisione e dell’inizio folgorante dell’omologazione diagnosticata da Pasolini che ha trasformato il paese agrario e antico nell’orrore consumista ora fatto proprio e  “valorizzato” da Berlusconi.

(…) sulla democrazia in Italia: con in mente Pasolini, Sciascia, Bollati, Bobbio, Sartori.

(…) Nel maggio 2006 dopo la sconfitta di strettissima misura Berlusconi è fuori dal governo ma non fuori dalla politica. In questo momento si manifesta lo scandalo del campionato di calcio – non si può dire scoppia perché gli intralazzi e gli illeciti erano da anni sotto gli occhi di tutti. Il calcio è quasi tutto in Italia. In quest’occasione il giornalismo italiano offre un’ennesima dimostrazione della sua cinica creatività pubblicitaria , una creatività che è una dote di tutta la nostra società ma che è posseduta al massimo grado da giornalisti e comunicatori. Alludo al genio nazionale che ci ha dato “tangentopoli” e “mani pulite” e ora ci allieta con “piedi puliti” e “la peggio juventus” due slogan raccolti sul Manifesto. In fondo ci potremmo risparmiare ogni commento sulla leggerezza e superficialità di questa cultura della battuta e ricitare l’affermazione di Leopardi secondo cui gli italiani sono cinici al punto di non credere nemmeno nel proprio cinismo, che di più non si può.

Ma accanto a questo cinismo ci sono anche esempi di comportamenti seri, serissimi, anzi patetici. Per esempio sui risultati delle elezioni. Prendiamo i messaggi inviati da Ornella De Zordo, LabDem-Un’altra città un altro mondo appena avuta la certezza della vittoria di Prodi :

Berlusconi a casa. Adesso una sinistra unita per ricostruire il Paese, per vincere anche il berlusconismo -10 aprile 2006 – E’ finita. Silvio Berlusconi e Casa della libertà non sono più al governo. Sono stati puniti dagli elettori, nettamente. L’ultimo tassello del disegno eversivo della destra non è andato a buon fine. Berlusconi non sarà presidente della Repubblica e Fini non guiderà il nuovo governo. Adesso tocca a noi. Abbiamo il compito immane di ricostruire un Paese devastato economicamente e socialmente. Noi della sinistra dell’Unione abbiamo anche un compito in più. Stare insieme organicamente per fermare la deriva del berlusconismo che in questi anni ha avvolto la cultura politica italiana, non solo dentro Forza Italia.

(Qui si interrompe definitivamente il manoscritto).

Art, combien d’étoiles?

Lamberto Tassinari

Ce texte m’accompagne depuis bientôt vingt ans, autrement dit, il s’agit d’idées esthético-politiques qui fondent, qui constituent ce que je suis (…ou ce que je crois être). Les trois premiers paragraphes sont les mêmes qui se trouvent en Art, euthanasie de l’aura, texte publié dans l’ouvrage collectif “Utopia. De quelques utopies à l’aube du 3e millénaire” (PUL, Syllepse, 2001) et dans ce même site.

Le quatrième et dernier paragraphe est d’aujourd’hui, énième variante d’un texte que j’aimerais indéfini.

Tout est lié

Tout est lié. Aurions-nous oublié que le battement d’ailes d’un papillon en Chine produit un ouragan dans les Antilles? Ou, peut-être, n’avons-nous jamais cru que cette image poétique illustrant la théorie du chaos possède valeur de vérité. Pourtant, nous avons tranquillement reçu l’idée de globalisation sans pour autant comprendre que l’économie globalisée est le dernier des phénomènes qui nous relient, manifestation galvaudée d’une liaison beaucoup plus profonde, cosmique, laquelle nous donne la certitude que nous sommes faits de la même étoffe que les étoiles. Si accueillie et comprise cette vérité a des conséquences décisives autant sur notre façon d’interpréter le monde que d’y vivre. Il nous faut avouer que la matière n’est plus ce qu’elle était. Peu à peu, elle nous a révélé son esprit, le principe caché du monde physique, de la réalité qui s’est révélé de façon partielle tout au long de l’histoire humaine. De cet esprit, c’est-à-dire du fonctionnement secret de la matière, l’expérience sensorielle, la religion, la science et l’intuition nous ont permis de cueillir quelques manifestations. Mais depuis un siècle, nous avons commencé à porter un regard de plus en plus aigu à son intérieur. Maintenant, le meta  de la métaphysique devrait avoir cessé de nous apparaître comme un au-delà, une transcendance, pour devenir une présence profonde, une immanence, un dedans, et la métaphysique finalement se montrer pour ce qu’elle est, la partie cachée du monde physique. Le monde certain et solide de Newton et du sens commun est  devenu un bizarre et paradoxal mélange d’ondes et de particules, gouverné par les lois de la probabilité plutôt que par celles rigides de la causalité. Ainsi, nous pouvons voir les manifestations abstraites, invisibles et «intérieures» – la pensée, l’inconscient, le rêve, l’imagination – comme des infiltrations du monde quantique dans le quotidien des objets et des faits… L’art est l’immense espace d’activités et d’œuvres créé par cette énergie interne, invisible de l’être humain. Plus que d’autres capacités l’art, sous toutes ses formes, constitue le portrait, la projection fascinante et mystérieuse de notre richesse et de notre puissance. Les artistes ont su, de tout temps, regarder au fond de l’être humain et des autres phénomènes de la nature. Les mots de William Blake «si les portes de la perception étaient toutes ouvertes les choses nous apparaîtraient telles qu’elles sont, c’est-à-dire dans leur infinité», et de Goethe «si nous étions capables de regarder la nature dans son ensemble, elle nous mènerait, sans aucun doute, jusqu’à la pensée», sont plus que jamais éclairants à l’époque numérique quand ces portes ont commencé à s’ouvrir et le regard porté sur la nature à y pénétrer quasiment  jusqu’à la pensée. Karl Nierendorf, dans l’introduction au livre de photographies du botaniste allemand Karl Blossfeldt, écrit en 1928: «Tout comme la nature qui est l’incarnation d’un grand secret obscur, dans la monotonie du devenir et du disparaître, l’art est une deuxième création, pareillement insaisissable. Elle a germé dans l’intellect et dans le cœur  de l’homme, du point de vue organique. C’est au désir de durée et d’éternité qu’elle doit la lumière du jour.». A propos de l’invention Goethe écrit dans ses Maximes et réflexions : «Que signifie inventer, et qui peut affirmer avoir inventé ceci et cela? De la sorte, s’entêter sur un droit de propriété, c’est de la véritable folie, et ne pas vouloir honnêtement se reconnaître comme des plagiaires, c’est un acte de présomptueuse inconscience.» Kafka, quant à lui, en réfléchissant sur la création, observe dans son Journal  le 25 février 1918:

 « Les inventions nous devancent comme la côte n’est sans cesse à la rencontre du vapeur sans cesse secoué par sa machine. Les inventions produisent tout ce qui peut être produit. On a tort à dire par exemple: l’aéroplane ne vole pas comme l’oiseau, ou bien, jamais nous ne serons en état de créer un oiseau vivant. Certes non, mais l’erreur réside dans l’objection (…) L’oiseau ne peut pas être créé par un acte originel, car il est déjà créé, il est sans cesse recréé en vertu du premier acte de la création et il est impossible d’entrer de force dans cette série (…) Mais – et c’est cela qui importe – la méthode et les tendances de la création n’ont pas besoin d’être différentes pour l’oiseau et l’aéroplane, et l’explication des primitifs qui confondent un coup de fusil et le tonnerre peut contenir une part restreinte de vérité».(1) Les formes inventées par les êtres humains ont un lien profond avec les formes purement naturelles. L’artiste crée  en trouvant, en «plagiant », en jetant son filet dans le magma de ce qui est pour en tirer une œuvre, grande ou petite, représentation fictive d’un des infinis mondes possibles. Aujourd’hui, cette vérité, que n’est plus seulement l’artiste ou le scientifique visionnaire à être capable de voir, est encore plus évidente. Tout le monde commence à se sentir libre et capable de regarder au fond de la matière et de découvrir aussi sa propre capacité à «composer»  de l’art. En ce sens la révolution informatique aura des effets qu’iront bien au-delà de la technologie. À la fin des années 1920 Paul Valéry avait préconisé avec une extraordinaire lucidité ce bouleversement révolutionnaire: « Il y a dans tous les arts une partie physique qui ne peut plus être regardée ni traitée comme naguère, qui ne peut pas être soustraite aux entreprises de la connaissance et de la puissance modernes. Ni la matière, ni l’espace, ni le temps ne sont depuis vingt ans ce qu’ils étaient depuis toujours. Il faut s’attendre que de si grandes nouveautés transforment toute la technique des arts, agissent par là sur l’invention elle‑même, aillent peut‑être jusqu’à modifier merveilleusement la notion même de l’art.».(2)  En procédant de ce constat de Valéry et en particulier des mots que j’ai souligné, je mettrai en relief le rapport essentiel existant entre esthétique et politique. Repenser d’une façon radicale la signification de l’art me semble être l’une des rares chances que nous avons de reprendre la route vers la cité, vers le politique à la suite de la faillite des disciplines sociologiques traditionnelles. Si la notion de l’art et l’invention elle-même peuvent être merveilleusement  modifiées, cela signifie que cette possibilité a toujours existé en puissance, sous forme de tendance, d’utopie.

De l’art

Aujourd’hui, les problèmes de l’art révèlent un malaise profond qui va au-delà des polémiques entre historiens, critiques et artistes. La distance aussi entre l’art «difficile»chargé d’aura, et la majorité des gens exige une révolution esthétique dont nous voyons depuis longtemps les prémisses mais que notre temps est encore incapable d’achever. L’art du vingtième siècle n’a pas réussi à transformer la société, même si les technologies de production et de diffusion de l’art ont provoqué des changements profonds, quantitatifs et qualitatifs. Tout l’art est en cause, pas simplement l’art visuel contemporain, le plus exposé et scandaleux des arts, car il révèle mieux le caractère commun et facile de l’expression artistique. C’est la signification même de l’art, sous toutes ses formes et dans tous les temps, qu’il faut redéfinir. Tout d’abord, qu’est-ce que l’art? On pourrait répondre avec Goethe que «l’art c’est l’art», évitant ainsi tout risque de banalité. Pourtant ce n’est pas autant sa définition que son sens et surtout son rôle qui font problème. L’art, c’est la capacité de regarder et de donner une forme à des idées, des images, des sons, selon des critères spontanés et appris. Capacité commune à tout être humain, comme celle de parler, de courir ou de se reproduire. Au-delà de la distinction de nature anthropologique et culturelle existant entre l’art «actif» préhellénique, magique ou primitif et l’art post-hellénique de plus en plus esthétisant, dans les arts de tout temps et lieux – autant dans les peintures d’Altamira, dans les statues grecques et les dialogues de Platon, dans la Gioconde de Léonard, dans l’ Olympia  de Manet, dans le Décameron  de Boccace, dans l’Ulysse  de James Joyce que dans la Croix, 1950  de Joseph Beuys on retrouve la même capacité de connaître, de saisir le langage de l’univers. C’est toujours nous, qui, par notre regard parlant , réussissons plus ou moins  à entrevoir le pli caché dans les choses de la vie, à en deviner a poco a poco le secret, la vérité cachée en elles que nous essayons de révéler, depuis que nous sommes communauté parlante, par des formes, des signes.  A un certain moment de l’Antiquité, cette habileté a été appelé Tekne à Athènes, ars  à Rome et, pendant la Renaissance, art, qui était synonyme de science. Capacité de comprendre le monde des phénomènes, la nature des choses et, par conséquent, technique, habileté dans la construction d’objets, machines, fabriques, œuvres en accord avec la nature et ses lois. Art signifiait aussi d’abord la reconnaissance de l’humanité dans la Nature, dans ce qui existe hors de soi. Par la suite, à l’époque moderne, surtout après sa séparation de la science et de la technique destinées à asservir la nature, l’art est devenu communication privilégiée de la part de l’artiste, du Génie, de la découverte de formes et de valeurs «nouvelles», il est devenu la sphère esthétique  gérée et administrée selon les principes de la société capitaliste naissante. L’art du vingtième siècle a fini pour coïncider avec «ce qui est artistique», avec les produits, avec l’univers des artistes, des historiens de l’art, des critiques, des marchands, des entrepreneurs.

De la marchandise

Avec une rapidité extraordinaire se sont élargies, à partir des avant-gardes du début du siècle, les frontières de ce qui est considéré artistique. Quand on a consenti d’appeler art toute œuvre  réalisée sans les habiletés traditionnelles, sans la maîtrise des artistes du passé, les portes de l’art se sont entrouvertes. Les avant-gardes historiques d’abord ont passé puis, dans l’espace de quelques décennies, avec le Pop Art et les autres innombrables mouvements, tout est devenu art: le corps, la terre, tout ce que l’Artiste peut toucher. Cela a été le moment crucial de la crise de l’art moderne, car les frontières de l’art ont été justement poussées à l’infini mais sans que cela n’amène à une nécessaire, logique et officielle démocratisation de l’art. La révolte a été vite contenue, maîtrisée et récupérée d’une façon complexe par le système. Les langages, les idées, les formes, les médias, promus par les vagues avant-gardistes dans tous les champs artistiques, des surréalistes aux situationnistes à Fluxus jusqu’aux années soixante-dix, ont été acceptés. Au lieu de subvertir le réel, cet art a eu libre accès aux galeries, aux musées, aux maisons d’édition etc., et il a été investi de l’aura par l’establishment  critique, par les médiocrates et totalement récupéré comme marchandise de luxe. Une véritable contre-révolution qui a amené, en même temps, à la coupure définitive des élites artistiques avec 90 pour cent de la société. Pris dans le tourbillon du triomphe capitaliste, l’art vit, depuis, entre la subversion et la subvention. Soudainement tous les grands phénomènes de la modernité que la civilisation capitaliste a suscités et qui lui ont fait cortège à travers sa crise sans fin, se présentent aujourd’hui sous une lumière nouvelle. L’art est finalement en train de recevoir le traitement qu’il mérite: il est négligé, à l’avantage d’autres activités plus utiles au public. La culture marchande représente désormais, pour l’humanité du Nord de la planète, la nature dominante  et la démocratie s’avère plus que jamais un ballet pénible de corporations, de lobbies, non pas un espace de communication et de partage. Et pourtant, en même temps, les limites de ce système en tant que créateur de liberté, de démocratie et de beau commencent à se révéler aux yeux des gens. Le cas de l’art, comme celui d’autres activités civiles essentielles, montre en fait avec une clarté grandissante les contradictions pénibles surgissant entre les intérêts du capital et ceux de la société. C’est dans l’art lui même, dans sa puissance subversive, laquelle demeure intacte, dans le fait qu’il est la négation subtile mais obstinée de la valeur d’échange, de la valeur marchande du temps et de la vie, que se trouvent les raisons et les énergies pour le refondre. La crise actuelle nous apprend quelque chose de nouveau sur un phénomène très ancien: que l’art est, sinon hostile, à tout le moins profondément étranger à l’esprit du capitalisme. Si la modernité naissante a soustrait les arts de la sphère religieuse en les employant progressivement comme outil d’humanisation  et de laïcisation, il a fallu par la suite à la société capitaliste presque trois siècles pour les transformer en marchandise. Mais l’art ne meurt pas. Les têtes imaginatives non seulement existent mais elles sont plus nombreuses qu’auparavant, malgré que le marché aplatisse et uniformise les talents qui ne coïncident pas avec ce qu’on voit célébré en peinture, musique, cinéma, écriture, etc. Ce qui doit être profondément transformé, ce sont les critères de l’interprétation et de l’emploi de l’art. Aujourd’hui, au moment même de la plus grande confusion et d’une crise généralisée, il est possible et nécessaire d’affirmer que la créativité artistique et ses produits (l’art) ne doivent plus être perçus comme exception individuelle mais plutôt comme normalité de la vie humaine commune.

Au quotidien

Essayez (vous l’avez sûrement déjà fait) de suivre chaque semaine les chroniques littéraires et artistiques dans les pages de votre quotidien ou revue. Si vous parlez plus d’une langue, faites le même exercice dans vos autres langues.

Vous remarquerez alors que chaque semaine il y a des nouveautés « extraordinaires » concernant des « premiers romans » écrits par des auteurs « de grand, très grand talent » souvent comparés à des classiques proches ou lointains : un Houellebecq rappelle Ferdinand Céline, cet autre a du Franz Kafka, etc. La même chose se produit pour des peintres, sculpteurs et artistes d’autres disciplines. Que veut dire tout cela ? Cela veut dire, je crois, que le talent artistique est chose commune et qu’avec l’éducation de masse, à partir des années 1950, le nombre des artistes n’a fait que croître. L’intérêt et l’activité, l’enthousiasme que suscite cette créativité commune, je les considère par le biais de l’éclairante, à mon sens, métaphore du sport. S’intéresser et s’animer pour ces « chefs-d’œuvre » annoncés au grand public chaque semaine par les médias, c’est comme se promener dans des parcs publics pour assister à des matchs de tennis, de basket ou de foot joués par des gens ordinaires. Il arrive, bien sûr, qu’on voit de très belles choses, parfois même extraordinaires, et vous êtes là, le seul spectateur de ces exploits mémorables – pas de journalistes, ni radio, ni télévision pour en témoigner et consacrer tant de beauté. Toutefois, après dix minutes d’un match de tennis entre joueurs ordinaires (c’est-a-dire médiatiquement inconnus) vous vous en allez et continuez votre marche dans le parc sans ressentir le moindre intérêt pour l’identité des ces joueurs ni d’envie de retourner les voir la semaine suivante. Si l’industrie culturelle ne vous proposait pas, par des annonces qui résonnent dans un cellulaire au fond même de vos poches, cette série sans fin de génies inouïs et talents sublimes, vous ne leur accorderiez pas plus de temps et d’argent que ce que vous faites avec les joueurs du parc public. La conclusion de tout ça?

La conclusion, c’est que toute activité ludique-artistique nous fait plaisir, indépendamment de la valeur (essentiellement économique) que lui accordent ceux qui ont le pouvoir de le faire. L’art qui vraiment nous atteint, nous émeut et nous transforme, est rare et il ne se manifeste pas ponctuellement chaque semaine. Malgré ce don, il faudrait pas en faire un objet de culte ou d’adoration, il suffit de le reconnaître. Le reste n’est que du jeu commun.



1 Ces deux citations, dans Percorsi dell’invenzione (1993) de Maria Corti, historienne de la langue italienne et écrivain, qui procède à un intéressant et érudit compte-rendu de l’invention dans la culture occidentale.

2 Paul Valéry, La conquête de l’ubiquité , Pièces sur l’art, 1929.

Under The Sign of Capitalism

Notes on a never ending decline

Lamberto Tassinari

Everything that has been said and done from Cervantes to Philip Roth, from Alessandro Volta to Steve Jobs, from Linné to Kandel is under the sign of capitalism. Our times, modern and postmodern, should rightly be called the Capitalist Civilization. There are many variants of capitalism of course (with more or less state involvement)  and there is not on Earth the ideal form of it. But now that real-socialism is dead and buried, market-financial capitalism is the reigning form of governance in all countries. Our democracy is indeed a “market democracy” where the management is committed to representatives chosen by the “people” in a quasi-farcical election process and the power given to the market forces and their tamers.

The Industrial Revolution

Democracy is a word, at the best, a “work in progress”. But no one is at work on it!

Clearly, capitalism has been the driving engine of progress, material and intellectual for two centuries. Real, effective, swift if ferocious progress such as no other economic system couldn’t ever have afforded. Market, in principles, means freedom for goods to circulate and ideas, and later people also. Because capitalism is incompatible with the political-economical system from which it has progressively emerged, feudalism. Men have to be freed in order to consume the goods that they are obliged to produce. It is a historical evidence that democratic forms weren’t never developed in a non capitalist society. At a certain extent we witness to the equation between capitalism and democracy. Consider that feudal and “socialist” societies like Japan and China had no choice but to adopt the capitalistic  way of production in the 20th century because capitalism is the fastest way to develop economically. But in the fully “developed “ countries of ours, capitalism has completed its “democratic” mission and it is now exhausting our bodies and souls. As you know we reached the limit in the mid 1970 when it became clear that the “capitalistic civilization” could not produce any more progress, freedom nor liberties. Fifty years since that limit, its never ending decline shows the magnitude of the disaster. Not just the ecology. Look around. All IT touches become capitalistically infected:

health, science, education, art, food, sport, everything.

The mainmise or the stranglehold …..

Visual arts and the novel

The cultural industry: the fate of art and the necessary, inevitable euthanasia of its aura. What is the destiny of novel? Masterpieces and the printing business.

Industry

Why the electric car was killed back in the Thirties?

Tesla well before being a fashionable car was a mad Serbian genius who emigrated to the United States at the beginning of the last century and in the Thirties had already developed several electric devices, essential to the progress of our modern life among which a perfectly functional electric car.

Health

Why the immunotherapy in cancer research has been discouraged?

Tutto o quasi quello che sappiamo e facciamo è tinto di capitalismo. Per capitalismo intendo quella forma di produzione di merci e di rapporti sociali cominciata con la nascita della civiltà borghese intorno al Mille e poi lentamente evoluta, per così dire, fino alla rivoluzione industriale e al decollo pienamente capitalistico verso la metà del 19° secolo.

Photo: Pierlucio Pellissier

The spinning Jenny, il telaio a vapore del 1770 in Inghilterra e Germania poi, questo è l’avvio ruggente del Kapitalismus  ma preceduto da secoli di lento building up, esattamente come un cancro, piano piano, la rinascita delle città con i Carolingi e i comuni e la società borghese, dei borghi, e da noi Boccaccio, tutto questo lavorio è proto-proto capitalista, Marx si occupa del fenomeno in fase adulta, compiuta e pensava che si potesse hegelianamente rovesciare con la logica! Il capitalismo puro, ideale è assolutamente senza Stato, il Mercato è lo Stato, che con mano invisibile aggiusta, regola tutto.

ANOTHER BODY

Nella modernità, dal proto al tardo capitalismo, sono nate e cresciute le idee e le cose che realmente pensiamo e facciamo. Compreso l’atavico, il primitivo, l’animale, ogni pensiero e ogni pratica è modellato dalla logica capitalistica del consumo e del profitto. Nella fase senile del capitalismo, come in ogni senilità, i difetti originari del sistema appaiono magnificati.

And death shall be no more, death, thou shalt die

Credo che con questo stesso nostro corpo non si potrà avere un altro “corpo sociale” vedi La Pharmacie de Durkheim di Sophie Jankélévitch.  Ci vuole tempo, ma di tempo ce n’è infinitamente. Quando il corpo sarà altro, corpo astratto, immateriale-informatico, proprio come un’anima – tanti di noi umani l’hanno immaginato, compreso Platone – allora avremo un altro corpo sociale, un’ altra società.

MORE TIME

Ora, esistendo noi in questa fase, per così dire… lunga, non vale la pena darsi da fare anche perché la Morte che ci insidia e ci spinge a Fare, non esiste, è la curva della strada, è non essere visti, come dice Pessoa…ma è difficile crederci per più di un minuto!

[more to come]

Dans la peau de Yeats, Choix de poèmes

Fulvio Caccia

Présentation et traduction de l’anglais par Claude-Raphaël Samama, Editions Petra, Paris, 140p, 2018

Rares sont les poètes contemporains qui demeurent autant actuels, originaux et populaires. William Butler Yeats (1865-1939) est de ceux-là. Toutefois, sa légende liée à un destin personnel exceptionnel consacré par l’obtention d’un prix Nobel faisant écho à l’histoire moderne de l’Irlande, n’est pas sans contrepartie. Car elle risque sur le long terme d’occulter l’admirable qualité de sa poésie. Aussi, il faut savoir gré aux éditions Pétra et aux animateurs de sa collection « Voix d’ailleurs » de nous faire redécouvrir ce grand poète dans une édition bilingue d’un choix judicieux de poèmes – dont certains encore jamais transcrits – effectué par Claude-Raphaël Samama, qui les a traduits. Dans sa remarquable présentation, ce dernier s’emploie à interroger d’emblée « cette mystérieuse sympathie » dont le poète irlandais est l’objet. A quoi tient-elle ? Il y a certes, sa vie d’homme scandée par les déceptions amoureuses et les soubresauts de l’Histoire qui en font le chantre d’une Irlande devenue indépendante. Mais tomber dans le piège du bio-graphisme serait une grave erreur. De fait, sa poésie demeure d’une étonnante vivacité, autant par sa rythmique et sa fausse légèreté, que par la profondeur des thèmes qu’elle embrasse.

Poète de la « beauté rêvée », du classicisme antique, des questionnements existentiels, Yeats travaillera sans concession « la prose du monde », comme l’écrit justement son traducteur, pour la rendre immédiatement sensible au lecteur occasionnel, qu’il soit ou non anglophone. Que cela se retrouve dans la danse d’un enfant – « Danse enfant près du rivage ; /Pourquoi te soucier du vent… » – ou encore à propos d’une femme – « Si je me fais les cils noirs /les yeux plus brillants …», ou d’un écureuil apeuré dont il veut seulement flatter la tête, on voit le poète en recherche constante de l’innocence perdue. Qu’y a-t-il derrière les masques de l’amour – « Enlève ce masque, d’or étincelant /Où sont tes yeux d’émeraude… » ? Que trouve-t-on dans la patine des habitudes sinon cette «  vérité nue »  qui nous fait mal ou nous ravit ? Cette révélation est celle de notre humaine condition. C’est la raison pour laquelle Yeats nous touche tant. Il va droit au but et fait souvent mouche, car son vers ne s’embarrasse pas d’attirail rhétorique ou de posture lyrique qui feraient obstacle à l’émotion. D’où son apparente simplicité.

Une simplicité presque liquide qu’exprime à l’extrême la versatilité de sa prosodie, véritable casse-tête pour le traducteur français. Comment en effet rendre ses répétitions, ses contrastes, ses ruptures inattendues qui donnent d’ailleurs tout son poids à son poème, c’est-à-dire sa gravité ? Comment traduire, par exemple, ne serait-ce que le titre si bref de l’un des ses plus fameux poèmes : « Not second Troy ». Une traduction littérale donnerait : « Pas de seconde Troie »  trop abrupte à une oreille française, habituée à la scansion alexandrine. C’est sans doute la raison pour laquelle le transcripteur a choisi à cet égard : « Que Troie ne recommence » : un vers aux sonorités raciniennes. On pourrait multiplier les exemples où le lecteur est sans cesse sollicité par des registres divers qui peuvent faire penser à un Cocteau, un Jean Tardieu, ou parfois un Maeterlink pour l’idée ou encore, Prévert ou Reverdy… Cette versatilité, Claude-Raphaël Samama, lui-même poète, a choisi de l’inscrire dans une pure musicalité française, avec cette élégante oscillation allant du classique au moderne.

Il ne reste qu’à inviter le lecteur à se procurer ce petit livre pour redécouvrir un poète majeur, qui se lit comme une invitation au voyage, dans les embruns de la mer du nord ou les collines ventées d’uniques paysages, inspiratrices de toutes les pensées.

Pasolini transculturel

42 ans après sa mort,  Pasolini  continue toujours d’inspirer les artistes .  Le premier numéro de Viceversa, il y a plus de 35 ans lui était dédié.  Plus récemment un hommage lui a été rendu  en France et en Italie par l’artiste français Ernest Pignon-Ernest. Un film intitulé ” Si je reviens” réalisé par le collectif Sikozel a restitué cette mémoire.  Ce film qu’accompagne une exposition de photos de Davide Cerullo aux Lilas, France,   nous a permis à nous aussi de nous souvenir.  Voici cette histoire entre Pasolini et nous.
Fulvio Caccia

P.S. L’article qui suit a été publié  dans la revue italienne OLTREOCEANO

De l’autre coté de l’Atlantique, en ce début des années 80, Pier Paolo Pasolini était déjà une figure consacrée de la scène internationale des arts et des lettres. Son assassinat en des circonstances troubles et jamais vraiment élucidées, l’avait propulsé directement au septième ciel aux côté des grands astres de la modernité: Rimbaud, Kafka, Walter Benjamin… L’attestaient l’activité éditoriale et cinématographique demeurées constantes autour de son œuvre. Traductions, hommages et rétrospectives abondaient en effet. Par conséquent, il n’avait pas eu à subir l’habituel “purgatoire” auquel sont condamnés les artistes et écrivains immédiatement après leur décès. Une autre preuve en était le roman biopic Dans la main de l’ange1 que Dominique Fernandez venait de lui consacrer. Le prix Goncourt attribué à ce roman parachevait ainsi sa panthéonisation.

L’œuvre et la figure de l’auteur de Teorema étaient donc présentes partout et il aurait été bien difficile pour le jeune intellectuel italo-canadien que j’étais de l’ignorer. J’avais découvert Pasolini comme tant d’autres par son cinéma et puis par ses positions controversées qui choquaient moins ce Québec nouvellement sécularisé que ma patrie d’origine.

Ses premiers films m’avaient beaucoup émus parce qu’ils dépeignaient la candeur d’une Italie provinciale que j’avais quittée quelques années plus tôt pour le grand rêve américain dont l’ombre portée englobait toute terre américaine. Les grandes tours HLM qui se dressent dans l’horizon de Mamma Roma, les terrains vagues que traversaient ses personnages, c’étaient les miens ! L’Italie qu’il dépeignait c’était l’Italie de ma petite enfance qui s’éveillait à cette nouvelle modernité tout pimpante et fière d’étrenner ces nouveaux atours de consommation. Comment aurais-je pu rester indifférent? D’ailleurs le cinéma italien de ces années-là était touché par cette grâce. Et Pasolini, comme ses autres amis cinéastes, en étaient les magiciens. Dire que je lui vouais un culte particulier serait inexact mais, pour moi, il représentait cette grande tradition des imagiers-penseurs qu’il revendiquait lui-même et dont l’Italie demeure si prodigue.

En imagier, il faisait le pont entre l’ancien et le nouveau. L’ancien c’était les traditions païennes revisitées par le monachisme franciscain attentif à la condition des démunis ; le nouveau c’était la revendication de liberté, porteuse de modernité pour affirmer ses singularités (homosexuel, catholique et marxiste), mais c’était aussi le côté obscur : l’omologazione, la déculturation par l’omnipuissance du marché qui réduisait tout un chacun à n’être qu’un consommateur décervelé et obéissant.

Plus que tout autre il l’a dénoncée avec une véhémence et une clairvoyance à nulle autre pareille qui en faisait une sorte de prophète étrange et fascinant. Qu’allait-t-il révéler de nous? Il était un peu cet sorte d’ange exterminateur interprété par Terence Stamp dans Teorema qui révélait aux membres d’une famille de la grande bourgeoisie milanaise leur nature profonde.

Son cinéma était profondément dérangeant mais il n’y avait aucune outrecuidance, du moins dans ses premiers films. Je serais plus réservé pour ses derniers opus que je trouvais alors trop complaisants dans cette sorte de provocation excessive. L’aspect ténébreux s’opposant ainsi à son versant lumineux. Ombre et lumière se côtoyaient en lui, mesure et démesure, Eros et Thanatos. Rarement créateur n’aura aussi bien incarné cette double attirance.

Il n’est pas étonnant qu’il ait frappé l’imagination de ses contemporains. Le Québec qui s’était éveillé depuis peu à la modernité, y fut particulièrement sensible. C’est pourquoi avant même que l’on commémore le 10e anniversaire de son décès, la Cinémathèque québécoise organisa une rétrospective de ces films que compléta un colloque d’une journée à l’Université du Québec à Montréal2. Alors comme jeune intellectuel, j’y fus convié. Et c’est dans le tout nouvel amphithéâtre Hubert-Aquin de la jeune Université du Québec à Montréal que j’y ai lu quelques vers de mon cru intitulé “Cendre de Pasolini”3. Cet hommage maladroit en vers où je paraphrasais son célèbre poème dédié à Gramsci4, étaient une manière d’affirmer mon ‘italianité’.

Mais je n’étais pas le seul. Je le partageais avec un groupe qui, comme moi, était d’origine italienne et qui allait, quelques mois plus tard, donner naissance à la revue ViceVersa. Plusieurs d’entre nous avaient également participé à cette rétrospective qui se prolongea de manière impromptue quelques semaines plus tard dans les sous-sol de la Société Saint-Jean-Baptiste, rue Sherbrooke! Notre présence dans le temple du conservatisme québécois n’était pas fortuit. À l’époque, les élites québécoises avaient été passablement échaudées par la défaite du referendum et découvraient étonnées que les Québécois n’étaient pas la seule minorité dans la société canadienne. Ce choc avait eu comme vertu que nous étions accueillis avec une certaine bienveillance. Et curiosité.

La commémoration pasolienne tombait à point nommé. Le choix de Pasolini s’imposa naturellement pour ouvrir le premier numéro de notre revue, Vice versa. Nous nous hâtâmes de négocier les droits et permissions et c’est ainsi que nous pûmes publier un texte, demeuré alors inédit en français, dont le titre était tout un programme “Que faire du bon sauvage?”5.

En voici les premières lignes: «Nous bourgeois avons toujours parfaitement su quoi faire du ‘bon sauvage’»6. Pasolini y attaque bille en tête «la dignité virile»7, fruit du monothéisme que le blanc qu’il soit de gauche ou de droite, s’acharne à imposer aux bons sauvages qui subsistent encore de par le monde. Il y brosse un intéressant parallèle entre ces derniers et les hippies qui fleurissaient alors et dont les propositions écologistes anticipaient celles d’aujourd’hui.

Cette réflexion sur ce paradis perdu rousseauiste nous avait permis d’entamer le dialogue avec la majorité francophone ou du moins son intelligentzia. Grâce à Pasolini, nous avons ainsi pu échanger de plein pied avec les intellectuels québécois et qui plus est, les plus progressistes et notamment ceux qui avaient participé à l’aventure de la revue Parti-pris. Ce fut un moment fort qui est resté inédit, me semble-t-il. Pour la première fois le milieu intellectuel québécois qui avait déconstruit l’histoire postcoloniale en se la réappropriant interpellait les intellectuels issus de l’expérience post-immigrante.

Si le dialogue s’est ensuite poursuivi, il est resté en pointillé, inachevé. Sans doute était-il basé sur un malentendu qui n’a pas vraiment été levé et qui peut se résumer ainsi: qu’est-ce qui fait nation? L’attente de nos vis-à-vis était –c’est moi qui interprète– qu’on les rejoigne pour construire ensemble un état national indépendant et socialiste alors que nous, nous explorions précisément la voie contraire : le dépassement de l’état-nation à laquelle nous sollicitait cette mondialisation qui montrait alors le bout de son nez. On était à contre-temps ! Les uns réclamaient un état-nation pour se prémunir contre la disparition annoncée de leur culture, les autres proclamant une mondialisation culturelle transculturelle et humaniste–, que les ultra-libéraux ont réduite à sa dimension financière et consumériste. Utopies trahies. Éternel dilemme.

Cette utopie était précisément le message délivré par Pasolini dans ce texte et qui demeure un des axes de sa pensée. «La dignité virile» qu’il brocardait s’appuyait justement sur l’état-nation, socle de la modernité. Il fallait explorer un au-delà de l’état-nation, non pas pour l’abolir mais pour le dépasser. Comment ? En expérimentant «un modèle souple à la jonction des des divers univers culturels»8 comme nous le disions dans l’éditorial du premier numéro. Nous voulions à travers la revue impulser une forme de démocratie participative ante litteram avec nos lecteurs afin qu’ensemble nous puissions «identifier cet espace interculturel»9 à venir. Ce projet demeure plus que jamais d’actualité et les échos que nos anciens et rares lecteurs nous en donnent de temps à autre encore nous le confirment. En ce sens, oui, nous avons été profondément pasoliniens.

1 Dominique Fernandez, Dans la main de l’ange, Paris, Grasset, 1982.

2 La rétrospective, qui a eu lieu du 22 au 29 janvier 1983, s’est conclue par un colloque organisé par Dario de Facendis et André Beaudet le 29 janvier. Cfr. Danièle Boisvert, “Le droit à la différence”, Vice Versa, vol. 1, n. 1, été 1983, p. 11-13.

3 Fulvio Caccia, “Cendre de Pasolini”, poème inédit.

4 Pier Paolo Pasolini, Le ceneri di Gramsci, Milano, Grazanti, 1957.

5 Pier Paolo Pasolini, “Que faire du bon sauvage?”, Vice Versa, vol. 1, n. 1, été 1983, p. 1, 10-11. L’article “Che fare col ‘buon selvaggio’?”, tiré de la revue L’Illustrazione italiana (vol. CIX, n°3, février-mars 1982, pp. 39-42) avait été traduit par Nunzia Javarone.

6 Ibidem, p. 1.

7 Ibidem, pp. 10-11.

8 Fulvio Caccia, Bruno Ramirez, Lamberto Tassinari, “Éditorial”, Viceversa, vol. 1, n.1, p. 3.

9 Ibidem.