Villes orientales fête ou rêve de mosquées d’églises polydoxes de rares synagogues solitaires de ruelles qui s’entrecroisent l’une avec l’autre à travers ici et là soudains et inattendus espaces somptueux places grandes arbres tropicaux de nouveau ruelles et rues encore plus petites que les ruelles odeur étourdissante de soie d’épices et toutes tous fourmillant de gens étouffés par l’étreinte d’une chaleur épouvantable, mais ils nous ont dit surtout ne buvez jamais l’eau que de l’eau minérale et nous sommes si beaux si jeunes: nous ne voulons pas nous ne pouvons pas mourir.
Pourtant… pourtant : le soleil surplombant nos têtes qui brûle martèle, l’air qui semble mouillé et pas un fil de vent pas une trace d’ombre, nous épuisés adossés comme verticalement allongés contre le petit mur qui délimite la vaste plaine pierreuse marquetée d’arabesques vide d’humains, la soif ardente la gorge desséchée un besoin une urgence la soif nous dévore nous tue mais pas un bar un kiosque un vendeur ambulant – rien, sauf, au loin, du côté opposé, les roulottes sommeillantes d’un cirque disposées en demi-cercle ; avec en face, au milieu, une fontaine en marbre qui vomit puissante sans jamais s’interrompre : de l’eau, de l’eau claire limpide transparente parfumée étincelante de fraîcheur et pureté – comment est-il possible qu’une telle beauté ne soit que tromperie, et piège ? Pourtant, nous le savons : une gorgée, même une seule, et nous serons morts. Morts.
Mais voilà, un homme s’approche, il est jeune, mais plus âgé que nous, plus mûr (il porte en effet des moustaches épaisses et noires). Asis sidi?Avez-vous soif? (oui, il nous le dit dans notre langue secrète: comment a-t-il pu comprendre?). Et sans attendre la réponse, il nous indique la fontaine. Pour ajouter rassurant – il perçoit notre hésitation – que nous pouvons boire sans rien craindre: il est médecin. Et il sait. Avec certitude. Pas de tromperie, pas de piège – cette eau est exactement ce qu’elle paraît: transparente, limpide, pure… pendant que, rassurés, nous avons déjà les mains sur le marbre de la fontaine (il nous a suivis, tout en donnant ses explications), et nous buvons, buvons, insatiables. Heureux. Puis, encore ruisselants, nous le regardons, lui, l’ami, notre sauveur – déplacer son doigt vers la gauche pour enfin révéler – et le ton de sa voix devient péremptoire – la preuve irréfutable: l’ours en a bu!
L’ours. Qui depuis le côté gauche de la place, au loin, l’extrémité d’une chaîne à la patte (l’autre extrémité est tenue par un homme corpulent, lui aussi moustachu), trottine docilement, semble s’approcher, se dirige vers nous, vers la fontaine. La chaleur mord toujours, accablante, et il a de nouveau soif.
N.B. The “Near East” is the geographical area more commonly referred to today as the “Middle East”. It is the term generally employed by archaeologists and historians of the Ancient World. For biographical reasons I prefer it to the more contemporary appellation, especially when dreaming about the past and revisiting memories. The title is a near quotation from Joseph Conrad, one of my favourite classical writers.
Intelligenza degli uomini, in the meaning of human beings, uomini e donne, quelli che s’incontrano e ci si scambian cose e parole, amore : potere, pouvoir (dans le sens du verbe) come immaginazione, insieme – già: ma come, come portare i suoni della lingua italiana nel grande nord canadese? Sentire (it.) e sentir (fr.) partono dai sentimenti: io mi sento bene, ti sento dentro di me (dall’astratto al tattile). Poi uno si fa olfattivo: je sens mauvais; l’altro auditivo: lo sento venire (attenzione: non il … tattile. Tuttavia, entrambi possono ritrovarsi eroticamente: ti sento venire – I feel you’re coming). I francofoni del Canada, e le francofone (up there we are politically correct), con quel lieve strato di duvet sulle gote, a protegger dal fret, le froid, amano con i profumi, che quel freddo conserva soavi: gli italiani con le parole. E ancora: la rose sent bon (la rosa profuma), je sens la rose (odoro di rosa), odoro la rosa, la sento. Poi: io mi profumo (con l’essenza di rosa), o addirittura: so di rosa (sapere, sapore, saveur et savoir: è un’altra affascinante storia…). Infine: je sens le vent (con la sua scia di primavera), e sento il vento (il messaggero delle epea pteroenta, le parole alate… – il che a volte – siamo allo spagnolo – può far male: el viento pasa, lo siento mucho). Ma solo in inglese si è pouto metterlo in musica. Bob Dylan.
E dunque? È semplice ! Ci penso io – ma con una precisione : fainéant vuol dire alla lettera « fannullone » : ben che (è questo il punto, ed è grave) il néant esista in sé (infatti si trova nel Dizionario), mentre il « nullone » (cioè il grande nulla) esiste solo in quanto espressione di un fare negativo (infatti nel Dizionario non si trova). Gli italiani insomma avrebbero meglio dei french canadians capito che il nulla vive solo come modificazione del fare, anzi come sua essenza : la chiave dell’universo in cui, appunto, viviamo, e di cui siamo, sempre appunto, fatti. Per questo gli italiani, più e meglio dei (e delle) franco-canadesi (mi ostino, l’ammetto, a non parlare di québéquois et québéquoises) ed anche, diciamolo, degli anglo-, sono fannulloni. Ne fais pas la vaisselle, je m’en occupe, direbbe un francofono, o anche un anglofono, direbbe chiunque. Ma un italiano : Ci penso io. Ed eccomi – io, che resto malgrado tutto anche un po’ italiano – di fronte a un’immensa pila di piatti sporchi, immobile ; mentre anch’io immobile, seduto, l’osservo, la studio, la testa fra le mani, a pensare… (n.b. A scuola mi avevano insegnato che i nomi dei popoli quando sono sostantivi si scrivono maiuscoli, minuscoli se aggettivi – ma poi ho imparato che la lingua, come la storia, ha le sue zone d’ombra, e oramai, non per ignoranza, per scelta, li scrivo sempre minuscoli – tranne quelli che vissero un tempo, quando ancora non c’erano le moderne “nazioni”: i Greci, gli Egiziani, i Sumeri…)
Perché si scontrano, ma anche si incontrano le culture, e si scambiano si mischiano si confondono giocano insieme.
Ne pas se pencher au dehors… –
c’è scritto nel treno che buca le Alpi, ed entra in Italia, profumo di pizza. Così in tutte le lingue : Nicht hinauslehnen (e fa un po’ paura); Don’t lean out of the window : gli ordini non si discutono. Ma non in italiano : È pericoloso sporgersi. Come dire : sarebbe meglio di no, ma se proprio volete… (io però vi avevo avvertito). Trionfo del libero arbitrio, di sapore kantiano (eppur, era tedesco), o forse più semplicemente saggezza spericolata di lontane origini mediterranee : il desiderio di sfidare la morte, che alletta mascherandosi, si può imbrigliare, non sopprimere. Odisseo e le Sirene.
Però anche, ostie voire sacrifice (ché ahimé la storia, amara, insegna e ne rêvasse pas)…Ci pensa Lui!
Infatti, c’è anche scritto (in quello stesso treno) : Ne pas jeter (oggetti, fuori dalla finestra ; o nel cesso, è lo stesso). Così in tutte le lingue : Nicht… ; Don’t. Ma in italiano : È vietato. Come prima, più di prima, e assai diverso, nel senso di peggiore che in qualunque altra lingua. Altrove non si fa : qui, se proprio volete… Ma non più alla saggezza greca, si fa appello, bensì a quella che si vorrebbe romana, ed è, orrore, mascelluta e fascista : Fatelo pure, che poi ci pensa Lui (e la paura fa novanta. Ma almeno i treni – appunto – arrivavano in orario). Non a caso ci fu l’Italia libera di Raffaello e Verdi (che, notiamolo bene, non era ancora Italia), quella schiava e cialtrona di Mussolini e Berlusconi (ini e oni). L’eterno fascismo italiano (C.L.). Ogni cultura ha il suo tasso di puzza. (Dall’Alpi a Capo Passero, mentre scrivo, è particolarmente elevato. Insopportabile).
Del resto, dovrebbero saperlo tutti, ma non si sa mai : meglio consigliare, avvertire, persino comandare, ma con severità dolcemente multilinguistica (la torre di Babele, ahimé, è caduta da tempo). Ne pas salir, Non sporcare, Nicht… (che non ricordo, ma ricordo fonicamente tremendo) : trattasi appunto d’ingiunzione, e preventiva – come dire : non dovevate venir qui, ma oramai ci siete, non fate nulla, e se proprio dovete farlo, fatelo di nascosto, senza offendere l’occhio, e le orecchie, o il naso. Gli anglofoni però – du moins, parfois, e qui penso proprio a quelli dell’England – la pensano diversamente: loro – beati – possono abbandonarsi senza ritegno, forti di una grazia che gli proviene da una superiore, secolare civiltà : Leave your fellow camarades the opportunity to find this toilette in the same conditions you have found it. L’ho letto (giuro) in un cesso di crociera greca, in cui esitante guidavo un gruppo di studenti canadesi (franco e anglo). Sublime fraternità della terra di Albione…
Di nuovo, quanto appare diverso il caciarirridente e « del bene comune io me ne fotto » individualismo italiano. Forse è perché non abbiamo fatto (com’è ovvio) la Rivoluzione francese ? O forse è perché il 68 è finito male. (E il 77 peggio.) Fatto sta che il mio amico ha allora intuito che per le grandi imprese, i grandi ideali, non c’è niente da fare. “Capisci?”, mi dice, addentando con passione una pizza bollente. “Meglio attaccarsi direttamente alle piccole: con quelle, qualche soddisfazione te la prendi”. E mi srotola sotto il naso, aprendosi un varco tra forchette e avanzi di supplì, un lenzuolo di carta millimetrata, che lui ha gravato di disegni, proiezioni, calcoli. Per spiegarmi – e i suoi ragionamenti sono inoppugnabili – che a Roma i pisciatoi pubblici per uomini (quelli verticali, a concoletta, che taluni chiamano vespasiani), questi pisciatoi, dicevo (cioè: diceva lui), considerando la media nazionale (ché i romani, sostiene, sono più vicini ai pigmei che ai watussi. Lui stesso non supera il metro e sessanta), sono troppo alti, e costringono più d’un pisciante a ergersi sulla punta dei piedi, così trasformando in sofferenza quello che potrebbe essere un soave piacere; e senza, per altro, evitare la possibilità di un contatto, i cui rischi sono igienici, e non solo. Martellare, segare, abbassare: ecco la soluzione, ecco l’inizio concreto di un mondo finalmente a misura d’uomo. E io, soggiogato, d’improvviso intuisco che dalla spiaggia sotto i sanpietrini (sous le pavé la plage…) a quel lenzuolo con disegni il passo non è lungo: e nell’ideatore di quel piano geniale, in quel compresso, agitato metro e sessanta (che è coperto di schizzi di olio), un tempo fra i primi a tirar sassi contro gli sfruttatori e oggi pronto a battersi per qualche centimetro di felicità, riconosco la sintesi di Robinson Crusoe e Napoleone (di nuovo, la Rivoluzione…). Venceremos! (p.s. A rischio di sembrare scatologico, devo però aggiungere che quel che vale per i vespasiani, non vale, anzi si rovescia, per il cesso conosciuto come “completo”, quello versione tazza, e orizzontale: soprattutto quando è in ballo l’altro dei due possibili bisogni, cioè il maggiore. Lo sforzo, muscolare e spirituale, del basso, con annessi i rischi igienici, gli schizzi, e tutti quanti, si sostituisce allora – com’è evidente – alle odissee che implica l’alto. Anche di questo si è avuto prova e appassionatamente discusso nella di cui sopra crociera, dove la detta tazza, in realtà più tazzina che tazza, si alzava da terra per non più di venti centimetri. Questo almeno sino a quando la nave ci ha depositato in Turchia, a noi superiore in fatto di igiene, e non solo).
E poi?
E poi, lo confesso… Volevo solo scherzare. Scherzare a scacchione, o alla igonnabrekkayouass, which is the same… Questa è polvere per gli occhi, spremuta di mortalità o pomata di bellezza, dust and powder, poudre et poussière, riuniti dall’italiano in una sola parola – ed ecco che potrei ripartire, per continuare, continuare all’infinito, per cercare di cogliere perfettamente… Mais je m’arrête, car, pour paraphraser le poète, « el concepto de texto definitivo no corresponde sino a la religión o al cansancio »…
Volevo scherzare, perché ho nostalgia di Montréal, di quegli amici, di quello spirito in cui eravamo tutti sullo stesso piano, e nessuno a dettare una legge : un arabo algerino, che però ci teneva a dire che non era arabo, ed in effetti era kabil, un marocchino che invece era ebreo ma pero’ era francofono, parigino diceva, parigino come quell’altro che invece arabo lo era veramente, o quell’altro ancora che però veniva dalla Romania, che là francese lo parlano da subito, a meno che – c’era anche lui – non si fossero trascorsi i primi dieci anni della propria vita a Toronto, perché allora era l’inglese a batter cassa, come batteva cassa per quell’altro italiano, con un nome che più italiano non si poteva, ma quando parlava italiano scappavano tutti, ché la nourse diventava la norsa, e ancora c’erano la pilla, la zoppa, i cami… e chi più ne ha più ne metta, e poi c’era anche una spruzzata di cileni ed argentini, scappati dai luoghi dell’orrore, con fantasia, dolore e fisarmoniche. Insieme a scherzare, come sopra, ma anche e molto a lavorare, nel senso più bello e gratuito del termine, sempre giocando con le culture e le lingue, saltando dall’una all’altra, en les métissant, con passione e sul serio, ma senza mai prendersi sul serio. Questo era il nostro piacere, la nostra vita : era, per dirlo in una frase, lo spirito Viceversa.
Così, in questo crogiolo di uomini e donne, ho imparato, parlando, ad amare e giocare con le mie lingue, ed anche – spero – a lavorarle e lavorare sul serio ma senza prendersi sul serio. Certo, se oralmente si può saltare agilmente da una lingua all’altra, quella scritta resta in principio una (e per me è chiaro quale sia), o meglio : gli innesti, i salti, les métissages, sono frutto di un lavoro più complesso, delicato – ma che a dispetto di purezza e barriere può e deve farsi. È la grande avventura del nuovo lavoro che ci aspetta come scrittori, del nostro gusto viceversiano per le traduzioni, delle nostre ricerche su Florio e Cervantes, sul XVI secolo, sulle prime cronache del Nuovo Mondo.
Ma questa, da raccontare, è un’altra storia. The next one.
Paris, décembre 2010
(mais des temps en temps je le relis– par exemple aujourd’hui, le 9 janvier 2014, toujours à Paris– et l’envie me prends d’y ajouter deux ou trois mots…)
Il n’y a pas une seule ville que je considère « ma ville ». Mais pour une période d’environ dix ans, Montréal a été l’objet d’un désir intense, il a été mon point de fuite, presque une utopie. Sa puissance m’avait conquis. Puissance, c’est-à-dire concentration de possibilités, tension constante vers l’acte. Je sentais que Montréal possédait une énergie cachée, qu’il aurait pu accueillir tout le monde, devenir la ville de tous ceux qui l’auraient choisi. Historiquement, Montréal n’avait jamais vraiment appartenu à une nation ou à une communauté, ni n’était tributaire d’un héritage culturel particulier : ni des tribus indiennes, ni des colons français ni des marchands anglais dont les rejetons étaient arrivés à se le partager, les uns s’installant à l’est et les autres à l’ouest du boulevard Saint-Laurent. Comme aucune culture ne possédait Montréal en entier, tout le monde et toutes les cultures et toutes les langues auraient pu le réclamer. Cette disponibilité a été à l’origine de sa puissance. Comme si Montréal était gros de tous les possibles, d’un avenir fébrile comme celui d’un enfant. Il ne s’agissait pas d’une illusion: au tout début des années 1980 cette ville s’est réellement trouvée dans une condition messianique. Une condition perçue et partagée à l’époque par un grand nombre de ses citoyens. Ce ne fut que vers 1992, à la fin de cet « état de grâce », que j’ai eu la certitude de l’origine de cette condition. L’occasion qui avait fait jaillir sa puissance s’était montrée quand le Québec nationaliste, après le référendum raté de 1980, s’était replié sur lui-même et, ce faisant, avait oublié Montréal… Alors la ville a surgi spontanément, comme libérée d’un poids, d’un interdit, de l’ombre d’un devoir encombrant. Alors, entre 1981 et 1990, Montréal a vécu avec la gaieté d’une renaissance transculturelle, un moment presque magique de son histoire. Il aurait pu s’en saisir et affirmer sa volonté de ville cosmopolite, il aurait pu s’ouvrir au cosmos, devenir Monde, réaliser sa puissance, c’est-à-dire son identité, et transformer aussi le reste de la société québécoise. Mais le cycle s’est fini sans que cette métamorphose ne se produise. Fatalement le Montréal ville-fleuve, tourbillon de courants multiples, a été de nouveau gagné par les eaux dures propres tant au Québec nationaliste qu’au Québec affairiste. La vie urbaine spontanée a été découragée, la libre expression réduite. Programmateurs, spéculateurs et décideurs ont pris le contrôle de son « développement ». Leurs mots d’ordre ont été (notamment) : béton, festival, argent. Le spectacle était leur passion, à un point tel qu’ils ont fini par en faire tout un quartier !
Voilà le Montréal de vingt dernières années.
* * *
Aujourd’hui, la ville que je voudrais n’est pas imaginaire ni utopique mais une ville qui a réellement existé, fleurie dans un espace interstitiel pour la durée d’une saison. Ouvrir un autre cycle, donner à Montréal une autre chance a été mon aspiration secrète. Au début des années 2000, fatigué de cette fatigue métropolitaine, je suis allé humblement à la recherche d’une issue par une quête privée, presque par jeu. Et comme dans tous les jeux, j’ai trouvé l’issue par hasard. De passage à Paris, en regardant la Seine couler sous un pont, j’ai découvert qu’à Montréal la même expérience nous était interdite. Qui vit à Montréal, me disais-je, sait qu’il vit sur une île, au milieu des eaux, mais il ne s’en aperçoit pas. Notre vie urbaine n’est pas marquée par la présence de l’eau. À moins de vivre au bord du Saint-Laurent, pour voir l’eau courir il faut partir en voyage. Il faut se rendre au bout du Vieux-Montréal ou organiser une excursion sur le bord du canal de Lachine ou bien il faut quitter l’île et traverser un pont. Et pourtant Montréal est une ville d’eau, au moins elle l’était. Sinon Venise, presque un Amsterdam. Un Amsterdam refoulé. De la nature aquatique de notre ville personne ne nous a vraiment parlé. Jeunes ou moins jeunes, les Montréalais ne savent rien de ce passé : pas d’histoire d’eau dans les écoles, les historiens amnésiques, les géographes réticents, les écrivains distraits, les guides touristiques sans notices. Les eaux ont été lentement éliminées dans l’indifférence collective et une fois qu’elles furent enfouies, cimentées, personne n’en a plus parlé . C’est comme ça que sont disparues les rivières Saint-Pierre, Prud’homme, la Petite -Rivière, le ruisseau Saint-Martin et les dizaines d’autres cours d’eau et lacs qui n’ont pas résisté au processus d’occupation du territoire. Aujourd’hui, rien ne reste de tout ça, même pas le souvenir. Pourtant sous le pavé, il y a le sable et sous le sable l’eau qui continue de couler. Il faut la faire revivre, la réinsérer dans le paysage urbain en commençant tout simplement par l’imaginaire: en se figurant un canal aux eaux vives traversant la ville d’ouest en est, ainsi qu’un réseau de fontaines dont la vision et le son stimulent l’imagination et les rêves des citadins. Reprendre plaisir à l’eau que nous avons oubliée, pour lui redonner la force du mythe. De l’eau urbaine, coulant entre les maisons, non pas un canal vert, périphérique, une espèce de parc pour les week-ends.
L’eau doit revenir dans Montréal, reprendre sa valeur primaire et primordiale. Il s’agit d’une récupération légitime du passé historique : le futur a du sens seulement si ses liens au passé ne sont pas coupés, un saut en avant qui s’avère en effet comme un retour aux origines. L’eau qui a aussi consenti à Montréal l’énergie pour s’épanouir et pour s’affirmer comme ville sera porteuse d’une nouvelle énergie le jour où elle se manifestera à nouveau en son sein. Comme autrefois l’eau saura concentrer les énergies humaines, les passions civiles en les faisant converger pour être recueillies et utilisées par la ville.
Réinventer Montréal par un retour aux origines n’est pas seulement un geste esthétique mais aussi politique. Au moment où le désordre financier et éthique est devenu intolérable, une vision de la vie urbaine et de la société « sans but lucratif » risque de nous faire du bien.
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(Article paru dans La Tribune Juive, revue de Montréal en novembre 2009)
Maudits soient ces égyptiens et tunisiens, à cause d’eux, plusieurs langues se délient au merveilleux royaume du Maroc. Depuis la révolte de ces voisins, certains au pays osent critiquer notre roi bien-aimé. Ces critiqueurs ne comprennent pas que pour nous, notre roi est notre unique source de fierté : les Égyptiens ont les pyramides, les Tunisiens ont l’hrissa et nous avons SA MAJESTE.
N’allez pas croire que je ne sais pas ce qui se passe autour de moi. Je suis au courant que les Anglais , les Espagnols et autres Belges et Hollandais de ce monde, ont une meilleure qualité de vie, ils vivent en démocratie et ils ne sont pas aussi analphabètes que nous, mais grâce à notre roi des pauvres, nous les dépassons au moins par un critère de prospérité: notre roi est plus riche que tous leurs souverains réunis.
Les Marocains ont 1000 et une raisons d’aimer leur monarque. Moi, par contre, je l’adule pour une raison et une seule. Mon adoration est purement économique et pécuniaire.
Je suis un petit fonctionnaire, avec mon salaire de 3200 DH je peine à arrondir mes fins de mois. Mais, je t’aime majesté parce que tu partages mon quotidien. Je sens ta proximité plus que je sens l’haleine de ma conjointe au lit.
Vous les intellectuels chialeux, devez savoir qu’avec mon salaire, je dois m’estimer heureux de m’acheter un logement social de 2 pièces grâce au soutien de sa majesté. C’est lui qui a mis à ma disposition sa Sonasid et sa Lafarge pour me fournir le matériel de construction. Mon roi est ma droguerie.
Vous devez savoir aussi que je ne peux pas me payer ce logement sans aide financière, et heureusement que j’ai mon roi, c’est lui qui a mis l’argent à ma disposition à travers sa Wafa banque. Mon roi est si gentil qu’il m’a offert l’argent sans aucune condition à l’exception d’une petite; il reste le propriétaire de mon logement jusqu’au remboursement intégral du prêt et des intérêts. Mon roi est mon prêteur sur gage.
Tout ce que je mange c’est mon roi qui me le fournit, il a mis à ma disposition tout son réseau de distribution de Marjane et Acima (1). Il m’a même dit : “si tu ne peux pas faire le déplacement jusqu’au supermarché, tu peux faire tes courses dans l’hanoute(2) du garbouz (3)du quartier; de toute façon c’est moi qui l’approvisionne”.
Je ne sais pas comment certains marocains, peuvent ne pas aimer notre roi, alors que nous avons tous reçu son amour dans le biberon, c’est son lait que nous buvons toute notre vie, merci à sa Centrale Laitière.
Cet amour, je l’ai transmis à mon enfant en le gavant du Danoun(4) et du Bimo(5) de sa majesté.
Comme j’en ai ma claque du débat avec ces critiqueux du roi, j’arrête là et je vous transmets ce message via le réseau Wana de sa majesté. De ce pas, je sors au café siroter une tasse de thé au sucre royal, pendant que mon épouse prépare un tajine à l’huile de sa majesté.
Majesté nous t’avons dans le sang, seulement arrête s’il te plait de nous sucer jusqu’à la moelle, parce que j’ai peur que tu ne puisses acquérir un autre peuple aussi docile, même si je sais que tu es fort en commerce.
(1) Chaînes de supermarchés à la portée des bourses d’une élite seulement
(2) Épicier en arabe dialectal marocain
(3) Appellation péjorative. Dénomination qui révèle l’état d,esprit de la place. Ceux qui tiennent ces épiceries sont des berbères venus de l’aridité du sud marocain, surtout des montagnes. On les appelle les chleuhs, c’est le nom de leur tribu. Étrangement les français ont utilisé le même vocable pour nommer les allemands. Entre tribus et classes sociales, il finît par se créer des espèces de castes. Un chalh est frugal, il vit dans son épicerie, y mange, y dort. Sacrifices que les gens du nord, plus urbains ne sont plus capables de faire. L’ironie du sort c’est que ces guerbouz on finit par prendre leur place à un très haut niveau des affaires du pays(petrole, construction, agroalimentaire etc.).