LA GIOVANE ITALIA

Lamberto Tassinari

 

Photo: Pierlucio Pellissier
Photo: Pierlucio Pellissier

Di Matteo Renzi so pochissimo ma a guardarlo (un viso arrogante curiosamente British) e sapendo quel pochissimo, mi si forma, per usare una metafora animale, l’immagine di un galletto. Per quello che voglio dire ora però mi basta poco, mi basta sapere che Renzi è nato nel 1975 e che dunque ha meno di quarant’anni. Un presidente del Consiglio che ha meno di quarant’anni è una novità assoluta nell’Italia repubblicana, situazione che un giornale tedesco definisce “stagnazione ad alta velocità”. Come Obama è venuto dal nulla, come per Obama il fatto di essere un nero è stata una rivoluzione in sé per gli USA così la gioventù di Renzi è un fatto rivoluzionario nel paese della gerontocrazia. Come è potuto succedere? Se sarà la fine dell’immobilismo italiano resta da vedere, di certo c’è la nuova cultura di questi italiani trentenni. Più della generazione precedente la generazione cui appartiene Renzi ha viaggiato molto ma soprattutto ha studiato e lavorato all’estero senza per questo “emigrare” irreversibilmente come per le storiche ondate postunitarie e postbelliche. E all’estero, come racconta così espressivamente una spietata vignetta di Altan, si fanno esperienze formative: due signori si incontrano, quello senza valigia dice “Dove va?” e l’altro con la valigia “ Vado all’estero a farmi prendere un po’ per il culo”. Ecco, i giovani di Renzi come gli omini di Altan, all’estero si sono anche fatti prendere per il culo. Vivere all’estero soprattutto nel ventennio detto di Berlusconi, quando l’ironia sull’Italia particolarmente in Europa è cresciuta in modo esponenziale e è diventata pesante, ha operato come una terapia su alcuni che per la prima volta hanno visto l’Italia da fuori. Hanno visto la mancanza di dignità, hanno riconosciuto le maschere antiche di un’eterna commedia dell’Arte: una penosa “cultura” che scende dall’alto e investe la base (o viceversa?). Hanno lasciato l’Italia a decine di migliaia, non una fuga dei cervelli come ancora stupidamente continuano a titolare i giornalisti che restano, ma una fuga di stomachi più o meno rivoltati, indignati. Anch’io sono partito nel 1981 per le loro stesse ragioni, quando i fenomeni repellenti dell’era berlusconiana stavano appena emergendo. Fuggire da una società immobile dove ogni attività, dalla cultura alla scienza, dall’arte all’industria è in mano a fazioni e partiti dominati da vecchi baroni, era la cosa da fare. Inevitabile lasciare un paese profondamente “politicizzato”, estremo, massimalista a destra come a sinistra, dove niente cambia, immobile come la sua bellezza. Esempi di immobilismo? Uno per tutti: le regioni, la cui istituzione fu sancita dalla Costituzione nel 1948, sono state attuate, male, solo nel 1970! Si tratta di un ritardo di destra o di sinistra? La verità è in questo caso evidente e forse sarebbe bene che gli italiani l’affermassero, l’accettassero e l’assumessero collettivamente e in modo ufficiale: in Italia i politici, di destra come di sinistra, sono stati incapaci di riformare anche perché la maggioranza degli italiani non vogliono cambiare. Paul Ginsborg storico dell’Italia di sempre, da generoso pedagogo com’è, si ostina a credere nei propri allievi vagabondi. Nel 1998 dava credito agli italiani e riteneva che «non esisteva alcun handicap permanente che gravasse sulla storia recente del Paese.» Dodici anni più tardi non aveva cambiato opinione e scriveva “Naturalmente non attribuisco a nessuno di essi [quattro grandi pericoli da cui l’Italia moderna deve essere tutelata] valore di tara, non li tratto come componenti irremovibili, ‘antropologiche’ o permanenti”. Ma da dove nascono allora quelle che lui stesso individua come le più gravi «carenze strutturali» di cui soffre l’Italia se non da tare? Giacomo Leopardi lo sapeva già nel 1824 e così Giulio Bollati che nel 1972 ce lo ridice e lo ripete nel 1983 in quello splendido libro che è L’italiano.

Oggi un giovane si impegna a far muovere l’Italia, a cambiare gli italiani. Non è il primo che prova a smuovere il paese delle “sabbie immobili” come Giuseppe Pontiggia definì una volta l’Italia.

Post Scriptum: Voglio precisare che non credo nelle nazioni, figuriamoci nel “nazionalismo” di Renzi o di chiunque altro dentro o fuori d’Italia. Solo che le cose nella Penisola sono così serie – economia, ricerca, gestione della cosa pubblica – che qualcosa deve davvero succedere per far uscire dallo stato di coma una società disastrata. L’avvento improvviso di Renzi realizza oggi il compromesso storico reale. Per non smentirsi, l’Italia lo partorisce quarant’anni dopo quello “ideale” solo annunciato, di Berlinguer e Moro. È un patto tra ciò che era “realmente” la Democrazia Cristiana (Berlusconi) e quelli che erano “realmente” i comunisti Italiani (Renzi). In sostanza democratica le cose in Italia non stanno poi peggio che altrove. Quella italica è una commedia non scritta, improvvisata, dell’Arte, appunto. Altrove ci sono dei testi scritti. Ma la sostanza, ripeto, è la stessa: la democrazia è un nome, un work in progress a cui però nessuno sta lavorando.

© Foto: Pierlucio Pellissier

FIPA 2014 : entre exil et migration, le rêve et les désillusions

Roberto Scarcia

tibetL’une des spécificités du Fipa est que chaque année des jeunes d’Europe sont sélectionnés pour composer le Jury. Initiative fort intéressante parce que cela permet de comprendre ce qui parle aux jeunes. Cette 27e édition du Fipa a vu ce jury des jeunes se prononcer pour Bringing Tibet Home, un reportage de Tenzing Tsetan Choklay qui raconte l’histoire de l’artiste tibétain exilé à New York Tenzing Rigdol et de son idée de réunir au sens propre les Tibétains en exil en Inde à leur terre du Tibet. L’artiste exilé parvient  donc à introduire clandestinement en Inde 20 tonnes de terre tibétaine. Le film suit donc l’Odyssée de la terre tibétaine du passage de la frontière du Tibet occupé au Népal dans des sacs en plastique portés sur les épaules jusqu’à l’arrivée en camion à Dharmsala en Inde, résidence du Dalai Lama. Le réalisateur a dit qu’il voulait raconter la souffrance des tibétains en exil et, détail éloquent, il a signalé avoir été interviewé aussi par la télé chinoise et a souligné que le régime chinois n’a pas réagi à la sortie du film. Mais l’œuvre de Tsetan Choklay est aussi un hommage à l’artiste Rigdol, peut être le plus connu des peintres tibétains en exil. Ce qui nous interpelle est le fait que les jeunes ont été touchés par la souffrance des exilés et leur recherche d’établir un contact avec leur pays d’origine.

De la recherche du pays d’origine à la recherche de l’histoire du père.La Révolution, mon père et moiest un film d’Ufuk Emiroglu une réalisatrice turco-suisse qui part à la recherche de l’histoire de son père, un ancien combattant engagé dans un processus révolutionnaire en Turquie des années 70 qui fini réfugié en Suisse avec sa femme et sa fille, la réalisatrice. Tout au long du film, on voit jusqu’à quel point la fille immigré a besoin de comprendre l’histoire du père pour entendre sa propre identité, un rappel cinématographique en forme de documentaire où passé et présent ne sont pas des compartiments séparés. Le voyage en Turquie de la jeune turco-suisse est marqué par le contraste entre ses mémoires des histoires du combat révolutionnaire du père et la réalité contemporaine du pays : la plage de la ville d’Antalya où le père clandestin se baignait pour se laver, en ne laissant jamais ses armes, est aujourd’hui privatisée à l’usage des touristes ; l’usine des textiles jadis théâtre des grèves héroïques est  fermée, la production ayant été  transférée en Asie orientale…

Mais ce documentaire offre aussi un regard sur la fille immigrée qui veut s’intégrer dans le pays d’accueil et ainsi se retrouve à être plus royaliste que le roi, ou plus suisse des suisses de souche. « Alors que mes amis voulaient imiter les Américains pour être Américains, moi je voulais être Heidi la petite suisse… » dit elle.

Et voilà le revers de la médaille révélé. L’identité immigré se nourrit autant de recherche des racines d’origine que de volonté d’appartenance au pays d’immigration et dans les deux cas se retrouve confronté à un décalage de fond. D’une part, la Turquie contemporaine n’est plus la terre des combats du père, de l’autre la turque qui veut être suisse se retrouve avec des Suisses qui veulent être américains!  Ni l’une chose ni l’autre donc…. Décalage par rapport au vieux pays et au nouveau. Ce que nous retenons de cette histoire est le défi de tourner ce décalage en atout.

FIPA 2014: Israël, la mémoire et ses démons

Roberto Scarcia 

farwell« Il est maintenant temps de faire le point : 80 films en tant qu’acteur, 16 films en tant que réalisateur, 9 oscars, 4 mariages, 3 tentatives de suicide, 3 ans en hôpital psychiatrique, un corps qui pèse 130 kilos… un père avec un seul œil… » Avec ces mots commence Hashayim Keshmua, ou La vie comme une rumeur (Life as a rumor), le documentaire sur la vie d’Assi Dayan, le fils de Moshe.

La voix rauque, le ton blasé, tabac et cocaïne obligent, le fils du guerrier sioniste raconte sa vie. Né en 45, Assi Dayan m’a accompagné le long  des montagnes russes de sa vie. Il m’a dit « d’avoir été élevé par sa nounou Simcha qui lui racontait les histoires d’Ali Baba qu’elle entendait sur… Radio Bagdad ». Il m’a raconté « qu’enfant il cherchait  l’œil perdu de son père sous le bandeau noir », il m’a révèlé « qu’il s’a fugué adolescent à Chypre, qu’il s’est barré durant son service  militaire et  toute l’armée d’Israël s’est  mobilisé pour le chercher lui, le fils de Moshe Dayan », il chronique ses fait d’armes, ses idées, ses amours et tous ses vices, le tout comme  l’arche de Noë  dans le déluge d’Israël. Il m’a parlé d’une « aventure pirate » et « du désespoir tourné en idéologie ».

La vie du fils de Moshe Dayan n’est pas seulement la chronique d’une relation d’amour et de haine, du fils vis-à-vis son père, mais aussi une métaphore brutale et sans complaisances de la société israëlienne. Les derniers mots avant la fin m’ont touché comme un coup de poignard : « je joue le rôle d’un psychologue qui se fait payer par ses clients pour les conseiller de sauter par la fenêtre et  qui à la fin il se suicide… Mais moi je fais semblant d’être mort couvert de sang, je  suis encore vivant me vautrant dans le ketchup ». Difficile de faire le point à mon tour sur ce courageux chef d’œuvre d’Adi Arbel et Moish Goldberg . Toute  comparaison est nécessairement boiteuse. Que chacun aille le voir et se fasse sa propre idée.. S’il y a bien un film qu’il est nécessaire d’aller voir, c’est bien celui-ci. 

« Je pars chez moi (home)» dit la fille. « Chez toi ?  Dans cette pitoyable diaspora ? » demande le père. « Elle se sent chez elle en Allemagne » répond la mère. « Elle n’a rien en commun avec l’histoire allemande », rétorque le père. « Ce n’est pas important, elle a une patrie (homeland) » dit la mère. « Ce n’est pas une patrie, c’est un simple lieu de résidence » insiste le père. Ce dialogue crucial à trois sur le thème de la patrie et de l’appartenance se fait en hébreu et donne le ton de Schnee von Gestern (Farewell Herr Schwartz ou Adieu M Schwartz) une production allemande réalisé par l’israélienne Yael Reuveny. La réalisatrice part à la recherche de Feivke un grand oncle donné par mort en 1945 qui refait surface sous le nom de Peter en Allemagne de l’est où il meurt en 1987. Michla, la grand-mère de Yael Reuveny devait rencontrer son frère à la gare de Lodz après la guerre, mais dans la salle des pas perdus, les deux rescapés de la Shoah ne se sont pas trouvés et chacun a fait en solitude ses choix de vie et de pays, elle en Israël, lui en Allemagne. Cet adieu à l’oncle Peter jadis Feivke est un voyage initiatique qui embarque deux familles et trois générations. Le film creuse dans les plaies du traumatisme des journées signés par le silence et des nuits marqués par les cris des cauchemars, de la « maudite terre allemande », des photos évoquant et amour et haine, de l’effort d’essayer de comprendre. Peu importe si le jeun cousin allemand retrouvé de la réalisatrice ne soit pas à mon avis à l’hauteur intellectuelle de sa cousine israélienne. Le film est fort et profond. Dommage que la grand-mère et le grand-oncle de Yael Reuveny soient décédés avant la fin du film. 

J’ai écrit cette série de chroniques à la première personne ; ce n’est pas rien . Pourquoi ? Parce que ces deux films, sous le signe de l’étoile de David, sont, chacun à leur manière les meilleurs films que j’ai pu voir à Biarritz : ils m’ont bouleversé et ont transformé mes émotions ; soudain je me suis retrouvé comme un enfant dans le vertige des montagnes russes, Cependant l’un et l’autre font l’impasse sur un fait à mes yeux grave et qui aurait du pourtant interpeller les réalisateurs. C’est l’absence criante de toute référence à la souffrance des Palestiniens. Comme liberté, la  douleur ou plus précisément la mémoire de la souffrance des Israéliens s’arrête là où commence celle des Palestiniens. C’est pourquoi la souffrance de ces derniers constitue la mesure morale des Israéliens. A quoi bon explorer la douleur  passée si on n’est pas en mesure de comprendre celle que l’on inflige à ses voisins les plus proches. C’est une question d’éthique.  Certes ont prétextera que “ce n’était pas là le sujet”; que l’on “peut pas tout aborder”  et que ce n’est pas aux Israéliens de parler de Palestiniens !  Mais alors à quoi bon le courage, l’hauteur de l’espoir, les abîmes du désespoir, l’épaisseur artistique, la sincérité et « tutti quanti »…

 

FIPA : Le Congo dans tous ses états

Roberto Scarcia01

Congo Business Case  réalisé par le néerlandais Hans Bouma, le gagnant du Fipa d’or des Grands reportages, est exemplaire de ces bons sentiments que nourrit l’Occident à l’égard de l’Afrique. Ce reportage raconte l’histoire réelle de Daniel, un jeune hollandais qui part au Congo désillusionné par la façon  dont  se comportent  ces grandes ONGs   comme la FAO, l’organisation des Nations Unies contre la faim   dont il fut d’ailleurs salarié.

Daniel en a marre « de voir les  légumes  pourrir dans les champs alors qu’a moins de 200 kilomètres, en ville  les gens crèvent de faim ». Il part donc en Afrique la fleur au fusil pour lancer une entreprise qui ferait le lien entre  la campagnes et la  ville : il achète du manioc, la transforme en farine et la vend au marché de la capitale. Mais les problèmes pratiques et d’ordre culturel s’accumulent et Daniel est forcé d’abandonner le projet. « T’es l’un des quinze fils d’une femme congolaise émaciée, t’es l’un des six choisis entre 300 demandeurs d’emploi, et tu te mets en grève… » dit-il en exprimant son amertume. Ces deux phrases entre guillemets prononcées par le protagoniste résument le film : les bonnes intentions et la dure réalité des faits.

Si d’une part Congo Business Case est une histoire typique d’un jeune qui veut sincèrement changer les choses dans « les pays pauvres »,et ceci avec une franchise  dépourvu de ce narcissisme mal déguisé qui marque souvent ce genre d’aventures, il y a d’autre part quelque chose de nouveau ou plutôt de  curieusement familier  pour nous occidentaux dans ce film. Le jeune blanc qui part monter son business dans le sud ressemble curieusement  à nos anciens colons partis faire fortune dans les colonies. Voilà pourquoi, au delà des mots de convenance, ce film a plu autant. Pourquoi le nier, on assiste à un  retour manifeste  de l’esprit colonial en Europe  qui se cache sous la feuille de figuier de l’humanitaire.  Congo Business Case va dans le sens de l’histoire qu’on est en train d’écrire aujourd’hui.

La seconde raison du succès de ce film est linguistique : chauvinisme culturel aidant, un jury de France ne pouvait pas rester indifférent à un film où pour une fois le français et non pas l’anglais est la lingua franca entre un européen et des africains.

Le succès de Congo Business à Biarritz nous force à parler d’un autre grand reportage du même genre. AIDependance, est un film belge réalisé  par Alice Smeets et Frederick Biegmann  et qui dénonce justement la façon d’agir des ONG à Haïti. AIDependance, la dépendance de l’aide extérieure nous démonte  de façon minutieuse le mécanismes par lequel les Organisations Non Gouvernementales  détruisent le tissus  social local et, comme le dit une femme haïtienne avec désespoir «réduit les pauvres à des camés et l’aide étrangère à de la cocaïne ».  En même temps, ce film suit les traces d’un couple, Robi le haïtien et Sabina l’américaine  qui  vont dans  les endroits les plus difficiles de l’île et proposent  un exemple différent d’aide aux plus démunis.

Malgré leur différence,Congo Business et AIDependance  envoie le même message que l’on peut traduire ainsi  : pour être efficaces, les actions humanitaires  internationales doivent être conduites sous direction locale, par des gens du lieu, autrement c’est une mission impossible vouée au désastre.