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LE MARCE DELLA SOLIDARIETÀ. UN MOVIMENTO CIVILE EUROPEO.

 OLIVIER FAVIER
In quarant’anni è cambiato tutto. A tal punto che è diventato eccezionale che siano sentite ed ascoltate con successo voci che, come quelle di Jean-Paul Sartre e Raymond Aron, richiedevano, alla fine dei anni ’70, all’opinione pubblica e al Presidente della Repubblica, che la Francia accogliesse i boat people del sud est asiatico.

Altri tempi, altri costumi; quelli che attraversano l’Europa ci preoccupano moltissimo. Dicono l’esclusione, l’odio dell’altro, il mortifero ripiego su se stessi. Sono propensi a coltivare il razzismo, l’antisemitismo, l’islamofobia, invece della benevolenza, del trattamento positivo, dell’accoglienza organizzata dell’altro.
In quindici anni, cioè dall’inizio del secolo in poi, non è cambiato nulla. Se guardiamo verso Patras, Lampedusa, Calais -dal centro di Sangatte alle « jungles » successive- le politiche migratorie europee sono fallite nella maggior parte dei casi. Impotenza, incoerenza, egoismo sembrano essere le parole d’ordine alle frontiere dello spazio Schengen, a Bruxelles e nella maggioranza delle capitali europee. Ma le immagini di questi migranti, spesso rifugiati, abbandonati, isolati, maltrattati, nutrono e alimentano il rifiuto, abbozzano le grandi paure contemporanee, mettendo dei limiti identitari che preparano chiusure e confronti.

Il « grand remplacement » [la grande sostituzione] va avanti, dicono certi tra quelli che denunciano lo sbarco degli « stranieri » sulle nostre coste e la loro invasione delle nostre campagne, contro ogni probabilità. Ci si dovrebbe piuttosto stupire che gli stessi che pretendono di preoccuparsi del declino dell’Europa non capiscano che invece, in un continente che sta invecchiando, l’immigrazione dovrebbe essere percepita per quello che è: cioè un mezzo per compensare l’invecchiamento delle nostre popolazioni e una curva demografica preoccupante.
Da tre anni, i cittadini europei si sono resi conto dei pericoli delle vie migratorie irregolari. La morte si aggira nel Mediterraneo come su tutte le rotte, ma i dirigenti degli Stati membri fanno i sordi. Insieme alla maggioranza dell’opinione pubblica, non vogliono vedere, sentire, analizzare e prendere provvedimenti adeguati, eccetto quando sono costretti, e comunque in maniera parziale.

Tutto questo fa nascere un sentimento di vergogna e di grande pericolo per il progetto umanistico europeo, ansioso dell’effettività dei diritti e della dignità di tutti che auspichiamo.

« Non si tratta più di parole vane, ma di un atto ardito, di un atto costruttivo. » diceva Robert Schuman, il 9 maggio 1950, 65 anni fa, in un discorso che fu la prima pietra verso l’elaborazione di un’Europa politica, economica e sociale.

Fedeli a questo spirito volontario e umanista, a questo spirito di solidarietà ed accoglienza, noi, cittadini europei venuti dai 28 paesi dell’Unione europea, facciamo appello per l’organizzazione di marce della solidarietà in tutta Europa.

Si tratta :

  • di mostrare che la politica attuale, lungi dal portare soluzioni, è nociva per i migranti, per i rifugiati, per i paesi di partenza e i paesi di accoglienza.
  • di fare appello al rispetto del diritto di asilo e alla sua applicazione in condizioni degne e entro termini ragionevoli per i richiedenti in tutto il territorio dell’Unione europea, e a una giusta distribuzione dell’accoglienza in nome della solidarietà dei paesi coinvolti.
  • di iniziare un cambiamento nello sguardo mediatico e politico nei quali i termini « incoraggiamento all’emigrazione » , « flussi », « scorte », « clandestini », sono ormai utilizzati per evocare gruppi di persone arrivate da poco sui nostri territori.
  • di informare i nostri concittadini sul contributo rappresentato, ieri, oggi e domani più che mai, dalle popolazione immigrate.
  • di discutere politiche europee migratorie alternative.
    di incitare con misure concrete all’elaborazione di un principio di solidarietà nell’accoglienza delle popolazioni straniere.
  • di esigere senza indugio e in modo perenne la sicurezza delle persone presenti nel mare Mediterraneo, dentro e fuori le acque territoriali.

Le forme prese da queste marce saranno da inventare, e abbiamo piena fiducia nellenuove iniziative civili che nasceranno.

Per quanto ci riguarda, facciamo appello all’organizzazione di una prima marcia da Calais a Bruxelles, nel mese di agosto 2015.

Ma questo non potrà essere un episodio isolato. La forza di quelle marce sarà nella loro quantità e nella loro diffusione nell’Europa intera, graverà sulle iniziative locali e civili e sull’abbandono di tutti i luoghi comuni sulle migrazioni che esistono oggi in Europa.

L’Europa non può rinchiudersi nelle sue frontiere, ha il dovere di organizzare le migrazioni, di pensarle immaginando le mobilità e le protezioni necessarie.

Quindi, da settembre 2015, « le marce della solidarietà » dovranno iniziare un nuovo movimento civile in Europa, per un’Europa della pace e dell’apertura al mondo.

Firmare la petizione

Con la tua firma, ti impegni :

-a manifestare il tuo sostegno a questo processo di solidarietà in confronto ai migranti.

-ad essere informato sulle marce e le manifestazioni che saranno organizzate per iniziare questo nuovo movimento civico in Europa.

Il tuo impegno è pubblico e il tuo nome e cognome e la tua professione saranno pubblicamente visibili.

Contatti:

  • Pierre Henry: phenry@france-terre-asile.org
  • Olivier Favier: dormirajamais@dormirajamais.org

Altre lingue:

Luci notturne, 2002.

I primi firmatori: 

Jacques RIBS, Président de France terre d’asile (France), Alain LE CLEAC’H, Membre du bureau de France terre d’asile (France), Nicole QUESTIAUX, Membre du bureau de France terre d’asile (France),Frédéric TIBERGHIEN, Membre du bureau de France terre d’asile (France) Sylvain PETIT, Professeur d’Histoire-géographie/ Conseiller communal à la culture (France), Corinne MOREL DARLEUX, Conseillère régionale Rhône-Alpes (France), Catherine WIHTOL DE WENDEN, Directrice de recherche chez Ceri / CNRS (France), Marie-Christine VERGIAT, Députée européenne (France), Hélène SOUPIOS-DAVID, Chargée de mission France terre d’asile (France), Christophe HARRISON, Cadre de France terre d’asile (France), Andrea SEGRE, Sociologue et Réalisateur (Italie), Gilles MANCERON, Historien (France), Pierre HASSNER, Directeur de recherches à Science Po/chercheur Ceri (France), Annie KALYVA, Docteur en didactique du FLE/enseignante (Grèce), Theodora KOCHYLA, sociologue (Grèce), Argyris TSAKOS, Psychologue/psychanalyste (Grèce), Thanos CONTARGYRIS, Économiste (Grèce), Smaïn LAACHER, Sociologue, France, Chantal LIMOUSY, Thérapeute (France), Gérard TUMA (France), Pauline PERCHAT (France), Marcelle TRON SIAUD, Travailleur indépendant du secteur Associations et organisations sociales et syndicales ( France),Pascale FROMENTIERE (France), Maud COIFFEY, en recherche d’emploi Animatrice Chargée de projet / social culturel (France), Sarah AKKARI, Étudiante (France), Alice QUILLET, Étudiante (France), Jaqcueline BENASSAYAG, Membre du bureau de France terre d’asile (France), Jacqueline COSTA-LASCOUX, Membre du bureau de France terre d’asile (France), Paulette DECRAENE, Membre du bureau de France terre d’asile (France), Jean-Luc GONNEAU, Membre du bureau de France terre d’asile (France), Jean-Pierre WORMS,Sociologue/ancien député/ ancien président de la commission des migrations de l’assemblée parlementaire du Conseil de l’Europe/ responsable associatif (France), Renaud MANDEL, Travailleur social à l’Admie (France), Katerina MOUTSATSOS, production/développement de contenus (États-Unis), Tatianna ANNA PITTA, Comédienne (Grèce), Robin HUNZINGER, Réalisateur (France), Hayat EL KAAOUACHI, Enseignante, (France), Sarah MOLLARD, Étudiante/enseignante (France), Aurore CLAVERIE, Réalisatrice (France), Jean-Marc CHOTTEAU, Directeur artistique de La Virgule (France), Dimitris ALEXAKIS, Animateur d’un espace de création (Grèce), Laura SICIGNANO, Metteuse en scène/auteure de théâtre (Italie), Pascale MAILLART, Citoyenne (France), Elisabeth MARIE, Metteur en scène (France), Gaia PULIERO, Journaliste (France), Marie DE BANVILLE, Scénariste/directrice d’écriture (France), Juliette GHEERBRANT, Journaliste (France), Samuel KUHN, Enseignant, historien (France), Eugenio POPULIN, Educateur spécialisé retraité (France), Catherine DUBOST, Traductrice/enseignante de FLE (France), Francis MAGNENOT, Cinéaste/auteur (France), Angelique IONATOS, Chanteuse et compositrice (France), Laetitia TURA, Réalisatrice du film Les Messagers (France), Hélène CROUZILLAT, Réalisatrice du film Les Messagers (France), François NADIRAS, Militant LDH (France), Antonio M. MORONE,  Chercheur en histoire de l’Afrique contemporaine (Italie), Daniele COMBERIATI, Ecrivain/maitre de conférence Univ. Montpellier (France), Edith CANESTRIER, Journaliste (France), Julia SICCARDI, Professeure Agrégée d’anglais (France), Léonard VINCENT, Journaliste/écrivain (France), Angelo MASTRANDREA, Journaliste/écrivain/ ancien directeur-adjoint du journal Il Manifesto (Italie), Laurence DEJARDIN, Assistante d’éducation en ZEP (France), Aferdite IBRAHIMAJ, Journaliste reporter /réalisatrice/photographe (France), Antonella ALMIRANTE, Metteuse en scène (France), Francesco DE FILIPPO, Journaliste/écrivain (Italie), Kaha MOHAMED EDEN, Ecrivaine (Italie), Marco ASSENATO, Professeur (France), Sarah GURCEL VERMANDE, Comédienne/traductrice (France), Myrto GONDICAS, Traductrice (France), Nicolas BICKEL, Educateur spécialisé (France), Jean-Pierre LEBONHOMME, Directeur de l’Action sociale (France), Guillaume SCHERS, Directeur des Cada Hauts-de-Seine France terre d’asile (France), Jean-Michel POLLYN, Directeur du Caomie (France terre d’asile) (France), Ficek RADOSLAW, Directeur de l’Accompagnement et de l’Hébergement des Demandeurs d’Asile (France terre d’asile) (France), Martial DUFOUR, Secrétaire général de l’association « Le Pied à l’Étrier » (France), Beatrix  J.S. ALLAN, Cheffe de service au Peomie (France terre d’asile) (France), Sara POIMBOEUF, Directrice du Cada de Chambon (France terre d’asile) (France), Ludivine MITOUT, Directrice du Cada de Blois (France terre d’asile) (France), Gaëlle TAINMONT, Directrice du Cada de Créteil (France terre d’asile) (France), Isabelle SIGOT, Directrice du CPH (France terre d’asile) (France), Josiane HUBE, Directrice du Peomie (France terre d’asile) (France), Juliette LENGLOIS, Directrice du Cada de Massy (France terre d’asile) (France), Baptiste THOMASSIN, Responsable départemental, Directeur d’établissement, Cada de Melun France terre d’asile (France), Jean-François ROGER, Directeur d’établissement France terre d’asile (France).

S’EXILER

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FULVIO  CACCIA

._iqaluit._iqaluitL’exil revient en force aujourd’hui sur la scène de la représentation – en fait il ne l’a jamais quittée –. Ce sont les littératures de l’immigration qui l’ont remis au goût du jour. Il faut dire que la demande est particulièrement forte de la part des instances universitaires, médiatiques, politiques dont la vocation consiste à légitimer le lien social.

Pourquoi ? Parce que les cohortes d’immigrants constituent désormais l’apport démographique majeur des pays industrialisés. Donner une perspective historique au foisonnement conceptuel qu’elles induisent pour les intégrer est donc devenu une priorité.

Un des effets pervers de cette opération conduit à réduire l’exil à un épiphénomène de cette culture postindustrielle, une variante des « écritures migrantes » et autres métissages contemporains. C’est faux, bien sûr. C’est l’exil, toujours recommencé, qui fonde notre modernité mais qui aussi la met en péril. Il convient donc de rétablir la vérité de l’exil par rapport à l’immigration et à l’autochtonie – dire sa spécificité.
Commençons par le commencement : l’étymologie. Exilium, qui désigne à la fois « bannissement » et « lieu d’exil », provient du latin exilire dont le sens est « sauter hors de ». Mais de quel saut s’agit-il ? Arrêtons-nous sur ce mot.

Qui perd gagne

En l’occurrence, le saut ne concerne pas le dedans, mais s’accomplit plutôt vers le dehors. Par ce mouvement brusque, infléchi par la gravitation, le candidat à l’exil franchit l’intangible barrière du familier, de l’apparente fraternité des commencements. Pour aller où ? Je vous le donne en mille : vers l’inconnu.
Aujourd’hui, ce choix est aussi l’attribut de l’artiste, du créateur qui, dans le meilleur des cas, choisit de se mettre à distance de sa culture pour mieux la créer et aussi peut-être la réinterpréter. C’est l’exil volontaire. Mais cette condition fut longtemps celle des « autres ». Peut-être fut-elle la condition de l’homme depuis qu’Adam et Ève, le premier couple, furent chassés du Paradis ? Sur le plan symbolique, ce qui se trouve mis en lumière par ce mythe, c’est moins un Éden sédentarisé que l’errance comme origine de la condition humaine.
L’exilé est un nomade temporaire

La conception d’un « peuple enraciné sur sa terre ancestrale, parlant et défendant une langue propre avec sa culture », serait donc une invention récente. L’idée même de « peuple », accolée au terme de « langue » sur lequel se fonde tout l’édifice politique moderne n’aurait de légitimité que celle que lui accorde l’État. Ce qui fait dire au philosophe Giorgio Agamben que « tous les peuples sont bandes et coquilles et toutes les langues jargons et argots  ».
Cette affirmation radicale mériterait à elle seule un long détour argumentatif. Nous ne retiendrons, pour des raisons d’espace, que sa déclinaison nomade, inaugurale, qui renvoie à la fameuse horde sauvage et itinérante chère à Freud, dont les gitans seraient les ancêtres.
L’exil à cet égard revêt déjà une forme postérieure, ennoblie de ce nomadisme tribal qui dominait le monde connu avant l’histoire et la création de l’État. Le nomade constitue en quelque sorte le symptôme annonciateur de ces colonnes de réfugiés et d’expatriés par les conquêtes et les famines que les empires auront jetés sur les routes, des siècles durant.
Contre les exactions, les humiliations, la mort, il vaut encore mieux affronter l’inconnu. A moins que, à l’exemple de Socrate, on lui préfère l’inconnu définitif : la mort.
Tout se joue dans ce passage entre la mort symbolique et la mort réelle. L’exil, c’est prendre le risque de l’espace, de sa ligne d’horizon infinie en tant que continuité de soi. Pari insensé qui parfois permet d’affubler l’exilé du qualificatif de sot. Le saut du sot ? Joyeuse homophonie qui renvoie, par cette sorte de réverbération, à la déraison du sauteur. Transgresser l’enceinte de la cité, du foyer ou de sa condition, c’est déjà s’exposer au péril. Et affirmer sa singularité.
L’angoisse de l’exil naît de cette absence de limites apparentes. Se sentir entouré, toucher le périmètre de sa maison sont des expériences rassurantes. Comme le nouveau-né qui recherche les bords de son berceau pour s’endormir. L’exil condamne à l’état de veille perpétuelle, à l’insomnie et donc forcément à la déraison du sauteur acrobate. Il faut être fort pour affronter l’exil. Gare à la vitesse et au changement !
Ce à quoi on s’arrache (la gravitation, le poids de la terre qui rechargeait naguère les batteries d’un Antée) se transforme en énergie cinétique qui propulse l’exilé vers son destin. La condition humaine, l’exilé en prend la mesure de plain-pied, si l’on peut dire. Mieux, par cette sorte de métonymie mystérieuse, commune au voyage, il devient « la mesure » de l’humanité. La sienne d’abord et celle des autres. Car, c’est bien connu, pour mesurer (et donc comparer), il convient d’être « en dehors », soit à bonne distance de la chose que l’on veut mesurer. En fait, « l’étrangeté » dont l’exilé est l’archétype, est la condition même de la production du divers et donc par définition de toute culture – ou objet censé transmettre du sens – ainsi ce texte que vous lisez en ce moment. Il faut de la différence pour créer du neuf, du fort, du singulier. Tel est le pari de la différenciation depuis la nuit des temps. De fait, l’exil est la catégorie à partir de laquelle on peut penser « la valeur ».

L’exilé est un étranger

L’exilé est donc celui qui est à l’extérieur, qui arrive d’ailleurs et qui, par sa seule présence, signe la différence. Dans cette perspective, l’expérience de l’exil ne serait que le moment fugace où le même affirme sa différence en se déplaçant.
Le reste est affaire de choix et de commodité : ou il oublie et se fond dans la masse en adoptant les us et coutumes de son nouveau lieu, ou il conserve ses traditions d’avant. L’histoire nous enseigne qu’il fait les deux. C’est là où le destin individuel rejoint le collectif avec cette question clé : comment rester fidèle à soi ?
La question de l’identité fait ainsi brutalement irruption dans la Cité avec toute sa violence et ses victimes expiatoires. Faut-il être semblable aux autres ? C’est là où l’on voit émerger l’autre facette de l’exil, la plus complexe, celle qui cherche à résister, qui dit « non », et qui, de ce fait, exerce sur nous une séduction et une répulsion, un mélange d’attirance et de défiance.
Une bonne partie de l’histoire de l’humanité se résume dans cette sourde opposition entre le nomade et le sédentaire. L’exil est, de ce fait, le grand producteur d’altérité. Car l’exilé, c’est forcément un étranger. Mais c’est un étranger qui n’a pas de visées hostiles. Bien au contraire, il fait appel à l’une des premières vertus humaines : l’hospitalité. « Faut-il demander à l’étranger chez soi de parler notre langue pour pouvoir l’accueillir alors qu’il demande l’hospitalité dans une langue qui n’est déjà pas la sienne ? », se demande le psychanalyste René Major.  C’est toute la question du lien social qui est posée dans ce rapport spéculaire de soi à l’autre et que restitue l’ambiguïté du terme « hôte » : Qui est l’hôte de qui ? Qui est l’autre ? Dilemme insoluble, radical, dont la résolution a souvent été la mort de l’autre.
La fondation passe symboliquement par le meurtre du frère. L’exilé en quelque sorte renvoie à ce frère sacrifié et préféré de Dieu. Si proche et si lointain ; le nomade qu’on était jadis. Car ce nomade-là n’a pas encore de velléité de puissance. C’est en se sédentarisant, en se polarisant sur un territoire, qu’il l’acquerra. Alors il pourra devenir le conquérant, le barbare tant redouté. Celui qui ne parle pas la même langue que nous.
Pour que le barbare s’élève à son tour à la grandeur de l’exil, il devra connaître la défaite et l’humiliation. Pas d’exil sans cette traversée du désert. L’échec est une cure de modestie et d’humilité. La toute puissante hybris, battue en brèche, révèle la première loi fondatrice de l’exil : l’expérience de l’adversité. Qu’elle soit d’origine naturelle (cataclysmes, épidémies, famines) ou humaine (conquêtes), l’épreuve s’intériorise et repousse les limites subjectives qui s’ouvrent dès lors à la symbolisation et donc au savoir sublime ainsi que l’affirme Kant. C’est l’avantage que les peuples de l’exil ont sur les sédentaires. Les conditions et les formes du récit, et donc de l’Histoire, y sont plus affirmées, davantage intériorisées. L’expérience de l’exil contribue à l’émergence de l’individualité.
C’est cette intériorisation du récit qui porte en germe la modernité en tant que quête de la transformation perpétuelle. La route devient métaphore, dialogue intérieur, interrogation incessante entre un « je » et son double spéculaire qui se confond avec la ligne de l’horizon. L’enjeu consiste à résister au mirage, à la folie qu’il induit.
Qui est cette voix qui me parle ainsi dans ce désert ? Ce double, cet autre invisible n’est plus un ennemi. C’est quelque chose qui me dépasse puisqu’il est partout et nulle part, il se détache, s’impose pour me fixer « la » voie ou la terre promise. Un dieu jaloux et singulier n’a pu naître que d’un peuple en exil.
Haro sur l’encombrante prolifération des divinités antiques ! Le « génie des lieux », c’est bien ça qui se perd en partant : la manière de sentir un lieu, de le « reconnaître » entre tous, de l’habiter. L’exil ne prédispose pas à l’aisance, c’est-à-dire à ce sentiment d’être chez soi. L’exilé demeure sur le qui-vive, mais sa force est devenue intérieure.

Figures contemporaines de l’exil

Si l’exilé est la catégorie initiale de l’étranger, elle n’est pas la seule. L’histoire s’est chargée de lui conférer d’autres avatars. Le plus répandue aujourd’hui, et le plus dramatique, c’est assurément celui du réfugié. Il peuple les camps de fortune aux abords des grands théâtres de guerre contemporains : le Libéria, la Palestine, le Rwanda, l’Afghanistan, la Bosnie, le Kurdistan… Le réfugié est la contre-figure de l’homme moderne : le symptôme de la déchirure contemporaine. Son histoire épouse les luttes et les violences du XXe siècle tout entier et celles du siècle naissant. Raconter son histoire reviendrait à raconter la manière dont se dissout l’antique lien de l’hospitalité au contact des idéologies du territoire que décuple et instrumentalise le Léviathan moderne. L’Organisation des Nations unies lui a dédié un Commissariat comme pour se dédouaner de la violence qu’induit l’État-nation. Peu de choses en vérité. La machine du progrès est aveugle. Il faudra des livres entiers pour en débusquer les mécanismes.

L’exilé est un ex-colonisé

Les ressortissants des ex-colonies en savent quelque chose. La colonisation fut précisément la marche forcée vers le Progrès que l’Occident triomphant a voulu imposer au reste du monde. Ainsi naquit le colonisé qui devint étranger à lui-même à force d’intérioriser le modèle du colon. Sa libération, ainsi que le démontrèrent les travaux de Memmi (4), passe par le retournement de ce modèle pour revendiquer l’image diminuée, éclatée, avilie à partir de laquelle le colonisé peut retrouver une nouvelle identité enfin libérée du joug colonial. Cette révolution, dans le sens étymologique et politique du terme, suppose que l’on peut faire table rase du passé. Le recommencement, soit le retour à cet état d’innocence pré-adamique, est l’une des grandes utopies de notre temps. La colonisation ne fait pas exception, surtout si elle se déploie dans un espace marqué du sceau du Nouveau.
En vérité le passé est plus tenace que ce que l’on pense et il convient d’être vigilant pour ne pas jeter le bébé avec l’eau du bain. Pourquoi ? Parce que la mémoire, c’est ce qui reste. Elle peut servir à alimenter la nostalgie et les conservatismes dans lesquels se complaisent tant d’exilés et d’anciens colonisés. Elle peut également devenir un fantastique vivier de créativité à condition d’en faire bon usage. Mais comment ? Répondre à cette question n’est pas facile. Car la mémoire est toujours interprétée. Or cette interprétation est soumise aux représentations qui ont cours à tel lieu et à tel moment. Si la situation est jugée positive, alors la mémoire agira comme un démultiplicateur et créera de la valeur, de l’inventivité. Si, au contraire, le contexte est vécu négativement, alors la mémoire revêtira les attributs de gardien, de cerbère de l’identité.
La Cité idéale

La Cité demeure le lieu de cette assomption et le grand enjeu de l’exil et de la condition humaine. C’est pourquoi la ville idéalisée a toujours hanté l’imaginaire des hommes dans une sorte d’amour et de haine constants et répétés. Saccagée, détruite, vidée, la ville est par excellence l’objet de libération, toujours recommencée, contre tous les Khmers rouges du monde qui s’acharnent à coup de kalachnikov à la vider des citoyens pour éduquer ces derniers dans les champêtres camps de la mort. Le nom de  Buchenwald ne désignait après tout que la « forêt de hêtres » en allemand. C’est à la campagne que l’on recrée pour de vrai l’enfer que l’on prête aux villes. Car la ville, lieu de toutes les promiscuités, est le vecteur tant redouté des désendifications. C’est là où l’on perd, dit-on, sa langue et ses valeurs et où l’on vend son âme au prince de l’exil en personne : Satan. Pour pallier cette perte annoncée, il est impératif que l’exil soit désamorcé de sa charge négative.
Ce renversement advient précisément par la rencontre des trois figures de l’exil : l’exilé, le colonisé et l’immigrant, et leurs déclinaisons contemporaines : le réfugié, le sans-abri et le sans-papier… Leur raccordement comme autant de portions du ruban de l’ADN engendre de l’unité, donc du récit, cette narration qui fait dramatiquement défaut à nos démocraties contemporaines. Du coup, l’histoire fragmentaire, éclatée, des uns et des autres, qui avait fini par occulter les vraies raisons du départ, reprend sens. Le secret de l’identité est révélé. Et la poésie de la rencontre devient possible.
Les très grandes villes se prêtent opportunément à ces retrouvailles singulières. New York, Londres, Paris sont les foyers historiques et bouillonnants de ces métissages cosmopolites, mais il arrive que des villes de taille moyenne tirent, elles aussi, leur épingle du jeu. L’exilé, l’ex-colonisé, l’immigrant, s’y rencontrent et s’y reconnaissent dans cette sorte de lumière fragile et incertaine des commencements. L’aventure transculturelle, comme on l’a appelée et à laquelle nous avons participé, a consisté à penser et rendre compte politiquement et culturellement cette Cité enfin rendue à sa vérité originelle, intangible. Quelle est cette vérité ? C’est celle où les cultures s’affrontent pour mieux se singulariser l’une l’autre, dans cette sorte d’émulation pacifiée, désamorcée de toute volonté de puissance.

Água de Rebelião

Jeremy Lester

The human river that flowed along the asphalt through the night, discharging at the gate of the plantation, stops and backs up like the waters of a weir. The women and children are quickly sent to the rear of the ‘dam’, while the men take positions at the front of the imaginary line to prepare for the possible confrontation with the plantation’s jagunços.

With no reaction from the latifundio’s small army, the men in the vanguard break the padlock and the gate opens wide. They enter. Behind them, the human river begins to move. Scythes, hoes and banners are raised in the unrestrained avalanche of hope in this re-encounter with life – and the repressed shout of the landless sounds as one voice in the brightness of the new day…

 Sebastião Salgado

 La Terra Prometida (The Promised Land). Oh, how many times has this name been solemnly and proudly pronounced only to be found inexistent in reality; nothing more than a dream or a well-named utopian ‘no place’. Yet occasionally, just occasionally, dream and reality do coincide. This is the case here, or so it seems to me. To be sure this is no land of Kenites, Kadmonites, Hittites, Rephaites, Amorites and Jebusites. If this really is a New Jerusalem, it is as far distant from the old one as one can possibly imagine. Yet as one looks at the land that stretches out before us, one realises just why the two Old Testament books of Genesis and Exodus are invoked so frequently even here. The space before us seems not only endless, but remains for the most part untouched by human hands and human toil. It is a virgin space if ever there was one, a space of eternal genesis, of constant becoming, or, to use the terminology of Alain Badiou, an ‘event site’, a ‘point of exile where it is always possible that something might [and will] happen.’[1]

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Where, you might ask, am I? Well, I am in the still largely barren rural landscape that continues to dominate much of the peripheral borders of the state of Rio de Janeiro in Brazil, and the purpose of the visit is to lend a hand in being a midwife to a ‘birth’. As you might gather, this is no ordinary birth. What has been conceived here is a new ‘occupation’, and the proud parents of this birth are the local activists of the Movimento dos Trabalhadores Rurais Sem Terra (MST); a movement that during the course of its thirty year existence has increasingly come to be recognised, and rightly hailed, as not just one of the largest, but also one of the most astute, modern, dynamic, moral, integral and ambitious social movements anywhere in the world today. Such eulogies, I can assure you, are not misplaced and stem directly from its actual record of achievement. As a direct result of its land occupation strategies – in a country renowned of course for having one of the most unjust, unequal land distribution systems in the world[2] – it has helped to settle hundreds of thousands of families across more than eight million hectares of formerly unproductive land. Not only that. With a membership not far short of two million people and with a strong presence in all but three regional states and in several hundred municipalities, it also runs several hundred production, commercialisation, and services associations, many of which are organised into collective and semi-collective production cooperatives. It carries out all of its own training activities and it administers no less than two thousand schools, in which several thousand students teach basic literacy to 50,000 children, teenagers and adults. It also has its own university and partnerships with fifty-nine other universities throughout the country, and has won much recognition, as well as awards, from UNESCO and UNICEF for all its educational activities. In the areas under its control, it has virtually eliminated child mortality (which is certainly not the case elsewhere in the country), and has won much acclaim for many of its other community policies, particularly in the sphere of culture.

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What lies before me, then, is a landscape waiting to be formed out of vacant space; a becoming landscape in the creative distance of space-time. I say waiting to be formed, but ‘carved’ would be a more appropriate term. For isn’t this what peasants are: sculptors of time, sculptors of earth, modelling a realm of culture out of nature? And isn’t an occupation of this kind like a work of art; one whose task is not to reproduce what is visible, but to make things visible?

The occupation itself, fortunately, had gone very smoothly, and already there were the usual signs and images that accompany an encampment in this very early stage of its development: the hastily constructed shacks (lonas pretas) with their black plastic protective covering, the endless hustle and bustle, toing and froing, and of course the rippling red flag marking its entrance, emitting a glow as if it were a ‘great bonfire, announcing that [here] the slaves seek freedom and inviting others like them to forge together their own destiny.’[3] If the scene in front of me could be painted, it would take, I think, a Bruegel – that ‘Shakespeare of popular life’[4] – to do it full justice. Both the landscape and the people in it lend themselves naturally to someone of his talent, ability and wit. Above all, no one more than he would best be able to capture the image of these people as they truly are in themselves. And do not get me wrong. I am not implying that there is a large degree of naivety and innocence here; far from it. But there is a simplicity about the scene which is certainly not equivalent to innocence. In one corner of the ‘canvas’, illuminated by the early morning sun, there is a man sitting on the ground sharpening and preparing the tools that he needs for the forthcoming day’s labour, with such a smile on his face that he looks fit to burst with joy. In another corner, there are the men grooming the horses in preparation for their own exertions of the day. Nearby, there are women hanging out washing on a makeshift line. While elsewhere, in a scene wonderfully reminiscent of Bruegel’s ‘Children’s Games’, the young boys and girls of the encampment are busy in their own activities, no doubt dreaming of the day when the little school will be ready for them, whose terrain has already been chosen and marked out. And what I would want my Bruegel to do more than anything is to capture all of their jovial, roguish, animated faces and expressions, as only he could do with such economy and flare, in strong colours and bold compositions, so as to lend the scene all of the epic humanity – and indeed the frailty of it as well – that it so deserves.

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But the most prominent part of this ‘canvas’ must be reserved for another scene altogether, a Bruegelesque ‘allegory of hope’ if ever there was one. There before us is a small group of people who have been working away since the crack of dawn on the most important task of all. A spring has been located and by the end of the day a makeshift pump needs to be constructed so as to give the occupants of the encampment a ready supply of ‘blue gold’ close to their new homes. It is this scene that will shape the destiny of the lives of these people for as long as they live. And it is not a vain destiny of fleeting images, but an essential destiny that will endlessly change the substance of being.[5] As W.H.Auden so aptly put it: ‘Thousands have lived without love, not one without water.’[6]

Everything commences with water. All things are flowing. How right the ancient sages were. It is by means of water that we measure time and structure space. And is it any wonder that there were so many cults of water in ancient times, many of which remain alive today. It is the source of everything in life. It is in itself, in its very essence, the closest thing to a ‘god’ as one can possibly get. Is it not for this reason that it is the bearer of life and of hope; the hope of something to come?

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Every space, meanwhile, has its own ingrained form of resistance. Every occupation of space must find ways of overcoming this resistance. But for the occupation to succeed, there must also be a communication with that space. The construction of the pump represents precisely this. It is a ‘communicating vessel’ with the land, which literally plumbs the depth of primitive and eternal being, as well as the wellspring of the deepest emotions possible. And what emotions are on display in this immanent space. You can see the anticipation in their eyes. You can see their thoughts taking shape and their dreams carrying them off down the flowing streams of consciousness. And being immanent, it is a space that is ‘actualised at every moment in terms of the whole of one’s “affections” (which are nonetheless in constant variation).’[7]

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The time of waiting is a fertile time, especially here where time seems to languish, affording one the luxury of time (and space) to contemplate, to create; magic time fending off the conquistadors of ordinary, insipid time.[8] As the men labour away to create the simple pumping mechanism that will connect the virgin spring to the virgin community, it is inevitably the material consequences of having a permanent water supply that initially dominates everyone’s thoughts. Our perspective, in other words, remains grounded in relation to the earth. But as the day wears on, a strange sensation starts to take hold. The imagination begins to dominate matter entirely, and the seemingly ordinary (sic) event that we are witnessing moulds us as visionaries. As a consequence, the waiting is gradually transformed, metamorphosed. It is now as though we are waiting for the arrival of someone after a long peregrination, a long adventure. And by the early hours of the evening, when the work is finally completed, the transformation of our thoughts and reflections is absolutely profound.

As the handle is turned, the waiting seems endless. Time itself has been eclipsed. When, at long last, the first drop appears and seems to hang there in elastic suspension, trembling, clinging to the end of the pipe before the inevitable descent, it is not so much joy, but a strange sort of primitive sadness and melancholy that grips me. Sadness, because one can sense what sacrifice is being made here by the water; one can feel a sense of loss. Melancholy, because it is the destiny of all water to suffer the most acute form of homesickness. Once it leaves its source, it will never be able to return. It is a permanent emigrant. The pain of water, it is often said, is infinite, for all living water is on the point of dying. Indeed, not for nothing is water often traditionally viewed as a sort of confine, a limen, between life and death.[9] And yet for all this, the sadness and the melancholy are not oppressive. They rest lightly on the mind, because one also feels that the sacrifice is voluntary. If in the ‘eye of the water’ one can detect a tear, it is not necessarily a tear of anguish, but perhaps also of contentment, satisfaction, liberation.[10] For let’s not forget that water is also permanently young. It never grows old.

As the first drop turns into a slight trickle it takes on the form of a hand reaching out to embrace the earth. When the trickle turns into a slow but steady flow, the embrace is transformed into a dance. And then, finally, when the flow is transformed into a veritable gushing forth of water, it is like a beautiful voice singing a cool, liquid melody in radiant harmony. It is a playful voice, more playful than even Ravel or Liszt could ever imagine; one that smiles as it sings, one that echoes our own inextinguishable thirst for life.[11]

And so the bonding between water and earth is complete and the reproductive cycle can commence. From the downward flow of water from Mother Nature’s breast, new life can surge upwards. But just as importantly the land, as it had once been, has likewise been purified, and through its purification it has become truly liberated. Newly cleansed and refreshed, the energy of youth has been returned to it. Not only did we all drink the water in celebration, we kissed it. And as we did so, it was like looking into a mirror of our soul.

Fresh water awakens and gives youth to one’s face, that place where a man sees himself growing old and where he would like to keep others from seeing him age! But fresh water does not rejuvenate our faces for others so much as for ourselves. Beneath the awakened brow gleams a new eye. Fresh water puts fire back in the eye. There lies the principle of inversion that explains the true freshness of the contemplation of water. It is our outlook that is refreshed.[12]

As the light of the approaching evening is filtered not just through the sight of water flowing, but its sound as well, the two senses become united into a single perception. Our sense of smell is also altered as water and night unite their gentleness. ‘For a soul at peace with itself, water and night together seem to take on a common fragrance; it seems that the humid shadow has a perfume of double freshness. Only at night can we smell the perfumes of water clearly. The sun has too much odor for sunlit water to give us its own.’[13]

Was it just my imagination or did everything already look greener, more fertile? And what liquid quality was now given to our speech? No doubt it was the effect of the celebratory eau-de-vie – the marriage of water and fire – for we were now back in the domain of Bruegel: in the Land of Cockaigne.

__________

*I would like to express my sincere thanks to the journal ViceVersa. It was after seeing their very interesting documentary, Ô Saint-Laurent: une histoire d’eau et d’appartenance, that I was moved to send them this contribution on the theme of water and its primary public role in all our lives. When treated with the proper respect not only does water serve our human needs of basic survival, but it can also actively respond to our call for human dignity, community and solidarity.

Água de Rebelião (Rebellion Water) is the title given to a collection of poetry by Hamilton Pereira (Petrópolis: Vozes, 1983).

 

NOTES

[1] For a very good overview of Badiou’s ideas, see Peter Hallward, ‘Order and Event: On Badiou’s Logics of Worlds’, New Left Review, 53, 2008, pp. 97-122.

[2] According to official statistics, the landmass of Brazil is 850 million hectares, of which half is considered cultivable. However, in practice, only 60 million hectares have thus far been exploited for agricultural production. In terms of ownership structures, meanwhile, 1.6 per cent of private landowners possess 46.78 per cent of the land.

[3] See Ademar Bogo, ‘The Culture of the Sem Terra’, http://www.landless-voices.org, p.4.

[4] This description of Bruegel is by Max Dvorak. See also his History of Art as the History of Ideas (London: Routledge and Kegan Paul, 1984).

[5] See Gaston Bachelard, Water and Dreams. An Essay on the Imagination of Matter, trans. Edith R. Farrell (Dallas: Pegasus Foundation, 1983), p. 6.

[6] W.H. Auden, ‘First Things First’ (1957) in Edward Mendelson (ed), W.H. Auden: Collected Poems (London: Faber and Faber, 1976), p. 445.

[7] D.M. Smith, ‘Deleuze and Derrida, Immanence and Transcendence: Two Directions in Recent French Thought’, in P. Patton and J. Proteri (eds), Between Deleuze and Derrida (London: Continuum, 2003), p. 62.

[8] For more on the peasant conception of time see Michel Onfray, Les Formes du temps. Théorie du sauternes (Paris: Mollat, 2009).

[9] See Vito Teti (ed), Storia dell’acqua. Mondi materiali e universi simbolici (Roma: Donzelli, 2003), p. 24.

[10] There is a spring in the desert that the Tuaregs call ‘the eye of the water’ (shet-n-aman).

[11] Ravel and Liszt are arguably the two classical composers most inspired by the element of water.

[12] Bachelard, Water and Dreams, p. 145. Underpinning these reflections is the manner in which water, and especially springs, ‘is an irresistible birth, a continuous birth. The unconscious that loves such great images is forever marked by them. They call forth endless rêveries… impregnated with mythology.’ (Ibid, pp. 13-14). If I am influenced predominantly by Bachelard here I make no apologies at all. For one thing, he is the most peasant-like of philosophers. And for another thing of all the places where his works have made such an impact outside of France, Brazil is second to none.

[13] Ibid, p. 104.

SPAESE MIO. Cronache dell’ora berlusconiana

Lamberto Tassinari

Montréal, novembre 2014.
Negli anni in cui Berlusconi è stato al governo, il mio malessere per le condizioni dell’Italia, già acuto da tempo, era tanto aumentato che mi ero messo a scrivere. Dapprima era apparsa una frase, diventata subito titolo: “Spaese mio”, poi con il titolo, note, paragrafi, abbozzi di capitoli, un indice. Di questo libro non scritto ma sempre in potenza, alcuni estratti erano stati pubblicati nel sito Una storia italianaAltritaliani.net nel 2010   (Spaese mio, 1; Spaese mio, 2). Dell’ opera “incompiuta”, sorta di zibaldone politico, ecco ancora qualche pagina perché il malessere di allora, come temevo, non è sparito da quando Silvio Berlusconi ha lasciato il governo.

Noi siamo stati l’etica della sinistra, quella che è stata distrutta nel nome della ragione di partito. E’ questo l’errore più grave che non abbiamo saputo o voluto vedere. Credo sia molto importante combattere a fondo contro il berlusconismo, perché è trasversale, tocca tutti, sia a destra che a sinistra. C’è bisogno di politica vera, fatta per strada, che venga fuori dalle proprie stanze“. Ivan Della Mea

 Firenze, inizio del Ventunesimo secolo.

Firenze, artista anonimo
Firenze, artista anonimo

Nessuno di quelli che incontro in città sa che vivo da quasi trent’anni dall’altra parte dell’Atlantico. Non si vede nè si sente niente. L’aspetto, fisico-frenologico-vestimentale, è decisamente conforme al costume nazionale. Linguisticamente impeccabile, fornito anche della giusta inflessione dialettale, mi presento come un fiorentino o almeno come un toscano a tempo pieno. Solo che non lo sono e mi muovo per la città come un agente segreto che mai abbandona il terrore di essere smascherato. Questa, evidentemente, non è la mia prima missione. Nel corso delle dieci o quindici precedenti ho già raccolto molti documenti e prove che sarebbero certo sufficienti alla redazione del Saggio finale sullo stato presente dei costumi degli italiani. Solo che la raccolta dei dati in questo 2010 ha il vantaggio, ai fini della ricerca, di svolgersi all’apice dell’ora berlusconiana, nel momento penoso in cui l’incerta democrazia si è trasformata definitivamente in una solida videocrazia che ora sembra vicina al tracollo. Sembra. So, e qualche amico me lo ripete ogni tanto, che almeno uno su quattro degli italiani che incontro per la strada, ha votato Forza Italia nel 2001 e ora, nove anni dopo sono due su quattro quelli che sostengono il Partito della Libertà. Non mi sorprende che nel 2001 Berlusconi abbia avuto un tale successo perché tanti italiani non ne potevano più di quello che lui stesso aveva efficacemente definito il « teatrino della politica » : teatrino della chiacchiera e della retorica, del politichese nella forma e nella sostanza. E hanno votato per lui, alcuni prendendolo per un industriale serio, operoso e fortunato, diverso dai grigi e inconcludenti politici tra Dc e PCI, un a-politico che prometteva efficienza e modernità per l’azienda Italia. Altri, la maggioranza, prendendolo per quello che è, un imprenditore abile e spregiudicato, nato e cresciuto al culmine dell’affarismo craxiano. A loro, Berlusconi piaceva e piace così, per quello che era, per quello che dice e per come lo dice. Dopo tanti anni di governo è logico concludere che sia abilissimo nella comunicazione. Abilissimo almeno nel comunicare agli italiani, a oltre la metà di loro che devono necessariamente pensare come lui : la stessa volgarità, lo stesso «buon senso», lo stesso spirito, tutte qualità proprie dell’antica cultura contadina e della provincia italiana, ma degenerate, massacrate da mezzo secolo di consumismo e di televisione. Quello che all’inizio ha sedotto tanti italiani sono state le convinzioni da capitalista liberista, da anticomunista, da affarista arrogante di Berlusconi, convinzioni che per loro erano sinonimo di «modernità». Ma se fino a qualche anno fa molti si illudevano che lui potesse cambiare le cose, oggi sono in meno a crederci e a capire invece che Berlusconi non ha trasformato né trasformerà l’Italia, non la trasformerà nemmeno in quello che gli riesce meglio, nel paese del perfetto mercato e dello spettacolo. Nemmeno in questo.

Io non riesco a seguire la scena politica di questi anni e degli ultimi mesi del 2010 con la rivolta di Fini…Confesso che non ho letto un solo quotidiano nelle mie ultime tre settimane di soggiorno e una sola volta ho guardato una di quelle trasmissioni insopportabili che tutti gli italiani prendono per «dibattiti» (I talk, come li chiamano ora). Dunque, se mi manca la conoscenza della cronaca ho visto e sentito abbastanza per concludere che molto probabilmente Berlusconi non finirà questa sua quarta legislatura. Anni fa Indro Montanelli era stato profetico: lasciatelo governare, ci penseranno gli italiani a scaricarlo. È quello che sta succedendo : i commercianti, bottegai e imprenditori che l’hanno votato sperando nella cuccagna si stanno accorgendo che questo affarista fa tutto per sé e il resto non lo sa fare. La destra, malgrado abbia molta più coscienza di classe della sinistra, dunque più coesione e intenzione, non riesce a far funzionare quello che ora chiamano il sistema Italia, semplicemente perché non esiste nessun sistema.

IMG_0979Cammino per le strade, entro nei negozi e nei ristoranti, salgo su autobus e treni, parlo con gli italiani, incontro parenti e amici. E mi accorgo che gli italiani sono stanchi, delusi, tristi. È vero che non hanno mai creduto alla politica, ai politici. Ma cinquant’anni fa la situazione era più semplice, la diagnosi a cui giungeva una buona parte di loro era il risultato di una visione cinica del mondo : i politici sono disonesti per definizione, stanno lì per il potere e per l’interesse personale, per mangiare alle spalle della gente. Oggi le cose sono molto più complesse : finita da vent’anni la politica dei due blocchi che tanto ha determinato gli equilibri politici, finita la crescita economica, in crisi il prestigio del «made in Italy», in crisi l’idea dell’unità territoriale e culturale del Paese, in crisi la lingua italiana destabilizzata dall’inglese, in crisi la solidarietà europea, in crisi la mai consolidata identità nazionale nel confronto con la recente e caotica ondata immigrante, in crisi anche il cinema italiano…

Molti se non tutti questi elementi di crisi sono comuni a altre società europee e occidentali ma il caso italiano è più grave e possiede una specificità che va indagata, va capita. Se è davvero possibile «salvare l’Italia» come pensa o spera Paul Ginsborg bisogna prima riuscire a capirla come si deve.

 Dicembre 2010

Una storia italianaAll’indomani dall’ennesima affermazione di Berlusconi che alla Camera e al Senato è riuscito a respingere la sfiducia contro il governo.

Zoom out : chi è Berlusconi ? Molti pensano, la quintessenza di noi italiani. Meglio, metafora del nostro degrado civile, culturale e politico. No, non solo della nostra parte peggiore. Questo lo dicono quegli antiberlusconiani ideologici che in fondo hanno assistito disgustati, distratti, alla sua resistibile ascesa, incapaci di contrastarlo perchè, in modo e misura che restano da determinare, condividevano più o meno incosciamente la sua cultura. Questa verità è stata detta da tanti, prima e dopo l’avvento di Berlusconi. Ma se qualche intellettuale e giornalista la può affermare in un saggio o su giornale, lo stesso non accade ai politici : né un partito né un movimento hanno mai preso atto davvero della profondità del nostro degrado. Del fatto che Berlusconi è chiaramente un punto d’arrivo nazionale, colui che, questo sì come Mussolini, ci ha svelati e compromessi tutti. Ciò che mi interessa non è tanto Silvio Berlusconi, il presidente del Consiglio su cui si scrive anche troppo, quanto le condizioni che l’hanno reso possibile. Mi intriga il berlusconismo ante litteram, quello sistemico che precede i berlusconi in carne e ossa. In quest’ ultima fase del declino, ripeto, non siamo precipitati con la sua comparsa sulla scena politica che è piuttosto il prodotto ultimo del deterioramento del clima etico-politico che la causa. Fenomeni formativi, strutturanti della società italiana del dopoguerra sono stati il calcio e la televisione che sono poi l’essenza della “politica” di Berlusconi. Il fatto stesso che Berlusconi sia riuscito all’inizio della sua avventura nel 1994 a mettere insieme apparentemente dal nulla e nello spazio di pochi mesi un partito come Forza Italia, dimostra che, questa volta, gli italiani erano già fatti! La vera, sola e terribile anomalia italiana consiste in questo che mentre in tutti i paesi “avanzati” il cinismo (come tratto sociale) era finora quasi esclusivamente una prerogativa delle classi dirigenti – politici, grandi finanzieri, industriali – in Italia è, da sempre, diffuso e operante a tutti i livellli, ordini, ceti e classi, dalla base al vertice della piramide sociale.

 Qui sta la tragedia, il berlusconismo da sconfiggere o meglio, da guarire, è quello che avendo preceduto Berlusconi, rischia di sopravvivergli. Di questo, ripeto, i nostri spigliati politici e intellettuali di sinistra che non sanno essere contro, che attaccano un Berlusconi che pare alle corde, non vogliono parlare, forse perchè sanno di aver iniziato tardi e male la resistenza. Perchè sanno, anche se non lo ammettono, di aver fatto poco o nulla negli anni ‘90 ai tempi dei governi dell’Ulivo quando la nuova sinistra era al governo.

Ma certo le responsabilità della sinistra vanno oltre quest’ultima fase della prima Repubblica e datano già dal primo dopoguerra: onestamente va ammesso che, al di là delle sigle d’origine, tutti i fatti – azioni, scelte, decisioni, comportamenti di singoli come di partiti – della nostra vita politica, prima di essere appunto di destra o di sinistra, sono espressione di una identica cultura, di una identica mentalità italiana. Ad esempio, quando si parla di trasformismo, fenomeno che tutti riconoscono come specificamente e tipicamente italiano, nessuno oserebbe affermare che riguardi solo la destra. Insomma se evidentemente negli ultimi sessant’anni in Italia sono state attuate, in certi periodi, dalla destra come dalla sinistra, politiche serie che hanno dato risultati socialmente positivi, queste politiche quanto riuscite fossero, sono state poi sempre negate e nullificate, come tutti abbiamo potuto constatare, da azioni sconsiderate e irrazionali dettate da logiche di gruppi, correnti o fazioni che poco o nulla avevano a che fare con idee di destra o di sinistra. Così, perché le Regioni, la cui istituzione è stata sancita dalla Costituzione nel 1948, sono state attuate solo nel 1970? Si tratta di un ritardo di destra o di sinistra? Insomma, la verità è in questo caso evidente e forse è bene affermarla, accettarla e assumerla collettivamente e in modo ufficiale: in Italia i politici, di destra come di sinistra, sono stati incapaci di riformare a causa del fatto che la maggioranza degli italiani NON VUOLE CAMBIARE. Questa non è un’opinione qualunquista come si diceva una volta, è un dato tristemente obiettivo: i fatti sono sotto gli occhi di tutti, in libri, rapporti, articoli, discorsi, nero su bianco. Il bravo e volenteroso Paul Ginsborg storico dell’Italia di sempre, da generoso pedagogo com’è, si ostina a credere nei propri allievi vagabondi. Nel 1998 dava credito agli italiani e riteneva che « (…) non esisteva alcun handicap permanente che gravasse sulla storia recente del Paese.» (P.G., p.X), Dodici anni più tardi non ha cambiato opinione e scrive “Naturalmente non attribuisco a nessuno di essi [quattro grandi pericoli da cui l’Italia moderna deve essere tutelata] valore di tara, non li tratto come componenti irremovibili, ‘antropologiche’ o permanenti”. (P.G. Salviamo, p.85-86) Ma da dove nascono allora quelle che lui stesso individua come le più gravi «carenze strutturali» di cui soffre l’Italia se non da tare? Giacomo Leopardi lo sapeva già nel 1824 e così Giulio Bollati che nel 1972 ce lo ridice e lo ripete nel 1983 in quello splendido libro che è L’italiano.

PS: Quattro anni dopo questo mio “rapporto”, il 5 dicembre 2014, il CENSIS ha pubblicato il suo  48° rapporto sull’Italia: “Famiglie e imprese bloccate dalla paura del futuro.” Il presidente del Censis, De Rita scrive: “Questo Paese ha il capitale, ma non lo sa usare”. (http://www.censis.it/5?shadow_evento=121053)

LA GIOVANE ITALIA

Lamberto Tassinari

 

Photo: Pierlucio Pellissier
Photo: Pierlucio Pellissier

Di Matteo Renzi so pochissimo ma a guardarlo (un viso arrogante curiosamente British) e sapendo quel pochissimo, mi si forma, per usare una metafora animale, l’immagine di un galletto. Per quello che voglio dire ora però mi basta poco, mi basta sapere che Renzi è nato nel 1975 e che dunque ha meno di quarant’anni. Un presidente del Consiglio che ha meno di quarant’anni è una novità assoluta nell’Italia repubblicana, situazione che un giornale tedesco definisce “stagnazione ad alta velocità”. Come Obama è venuto dal nulla, come per Obama il fatto di essere un nero è stata una rivoluzione in sé per gli USA così la gioventù di Renzi è un fatto rivoluzionario nel paese della gerontocrazia. Come è potuto succedere? Se sarà la fine dell’immobilismo italiano resta da vedere, di certo c’è la nuova cultura di questi italiani trentenni. Più della generazione precedente la generazione cui appartiene Renzi ha viaggiato molto ma soprattutto ha studiato e lavorato all’estero senza per questo “emigrare” irreversibilmente come per le storiche ondate postunitarie e postbelliche. E all’estero, come racconta così espressivamente una spietata vignetta di Altan, si fanno esperienze formative: due signori si incontrano, quello senza valigia dice “Dove va?” e l’altro con la valigia “ Vado all’estero a farmi prendere un po’ per il culo”. Ecco, i giovani di Renzi come gli omini di Altan, all’estero si sono anche fatti prendere per il culo. Vivere all’estero soprattutto nel ventennio detto di Berlusconi, quando l’ironia sull’Italia particolarmente in Europa è cresciuta in modo esponenziale e è diventata pesante, ha operato come una terapia su alcuni che per la prima volta hanno visto l’Italia da fuori. Hanno visto la mancanza di dignità, hanno riconosciuto le maschere antiche di un’eterna commedia dell’Arte: una penosa “cultura” che scende dall’alto e investe la base (o viceversa?). Hanno lasciato l’Italia a decine di migliaia, non una fuga dei cervelli come ancora stupidamente continuano a titolare i giornalisti che restano, ma una fuga di stomachi più o meno rivoltati, indignati. Anch’io sono partito nel 1981 per le loro stesse ragioni, quando i fenomeni repellenti dell’era berlusconiana stavano appena emergendo. Fuggire da una società immobile dove ogni attività, dalla cultura alla scienza, dall’arte all’industria è in mano a fazioni e partiti dominati da vecchi baroni, era la cosa da fare. Inevitabile lasciare un paese profondamente “politicizzato”, estremo, massimalista a destra come a sinistra, dove niente cambia, immobile come la sua bellezza. Esempi di immobilismo? Uno per tutti: le regioni, la cui istituzione fu sancita dalla Costituzione nel 1948, sono state attuate, male, solo nel 1970! Si tratta di un ritardo di destra o di sinistra? La verità è in questo caso evidente e forse sarebbe bene che gli italiani l’affermassero, l’accettassero e l’assumessero collettivamente e in modo ufficiale: in Italia i politici, di destra come di sinistra, sono stati incapaci di riformare anche perché la maggioranza degli italiani non vogliono cambiare. Paul Ginsborg storico dell’Italia di sempre, da generoso pedagogo com’è, si ostina a credere nei propri allievi vagabondi. Nel 1998 dava credito agli italiani e riteneva che «non esisteva alcun handicap permanente che gravasse sulla storia recente del Paese.» Dodici anni più tardi non aveva cambiato opinione e scriveva “Naturalmente non attribuisco a nessuno di essi [quattro grandi pericoli da cui l’Italia moderna deve essere tutelata] valore di tara, non li tratto come componenti irremovibili, ‘antropologiche’ o permanenti”. Ma da dove nascono allora quelle che lui stesso individua come le più gravi «carenze strutturali» di cui soffre l’Italia se non da tare? Giacomo Leopardi lo sapeva già nel 1824 e così Giulio Bollati che nel 1972 ce lo ridice e lo ripete nel 1983 in quello splendido libro che è L’italiano.

Oggi un giovane si impegna a far muovere l’Italia, a cambiare gli italiani. Non è il primo che prova a smuovere il paese delle “sabbie immobili” come Giuseppe Pontiggia definì una volta l’Italia.

Post Scriptum: Voglio precisare che non credo nelle nazioni, figuriamoci nel “nazionalismo” di Renzi o di chiunque altro dentro o fuori d’Italia. Solo che le cose nella Penisola sono così serie – economia, ricerca, gestione della cosa pubblica – che qualcosa deve davvero succedere per far uscire dallo stato di coma una società disastrata. L’avvento improvviso di Renzi realizza oggi il compromesso storico reale. Per non smentirsi, l’Italia lo partorisce quarant’anni dopo quello “ideale” solo annunciato, di Berlinguer e Moro. È un patto tra ciò che era “realmente” la Democrazia Cristiana (Berlusconi) e quelli che erano “realmente” i comunisti Italiani (Renzi). In sostanza democratica le cose in Italia non stanno poi peggio che altrove. Quella italica è una commedia non scritta, improvvisata, dell’Arte, appunto. Altrove ci sono dei testi scritti. Ma la sostanza, ripeto, è la stessa: la democrazia è un nome, un work in progress a cui però nessuno sta lavorando.

© Foto: Pierlucio Pellissier